Due mesi dopo

Due mesi forse sono abbastanza per tracciare un primo bilancio e parlare di questo ritorno e di quella partenza. Era giusto aspettare un po’, raccogliere le idee dopo aver elaborato delle sensazioni ed aver rivisto persone e luoghi. Le vacanze sono alle spalle, il calendario corre verso il 21 settembre e quindi la fine ufficiale dell’estate, il lavoro ha ripreso a pieno regime e anche il programma settimanale è ripartito. La Colombia, il mare, Montalcino, le visite dei parenti e i matrimoni sono già in archivio, così come un normale periodo di adattamento che mi ha lasciato delle certezze.

Sapevo che tornare a Roma non sarebbe stato semplice, in primis perché sarei rientrato in una certa vita, in una vecchia vita, in antichi schemi e dinamiche rimaste lì. Sapevo che mi sarei ritrovato disorientato e temevo che una sensazione in particolare potesse inizialmente abbagliarmi per poi non svanire più.

È strano rendersi conto di come i propri occhi siano cambiati, il modo di vedere le cose, di viverle, di guardarsi attraverso gli altri e capire che molto è cambiato, forse più del previsto. Fa uno strano effetto tornare a casa e non sentirsi più a casa come un tempo, come prima di partire, quando il tuo posto era appunto Casa.

Sono uscito pochissimo, forse il minimo indispensabile, ci sono persone che ancora non ho rivisto ed in generale non ho tutta questa grande voglia.

L’aspetto più complicato è che molte cose non si possono dire. Non si può parlare liberamente a volte perché c’è sempre il rischio di ferire qualcuno, e ancor di più il pericolo che qualcuno possa darti del superbo o di quello cambiato in peggio.

Vedo però persone chiuse nel cortiletto, vittime dei loro modi di fare a mio avviso ottusi, persone che parlano con orizzonti che finiscono un metro più avanti. Gente che si lamenta, nessuno che prova a cambiare le proprie sorti. Critiche, e mai idee. Chiamiamolo “provincialismo”, una cosa del genere. Vedo queste persone e avverto un disagio io.

Difficile spiegare alcuni concetti e far passare delle ragioni, la verità è che la gente o ti dice che sei cambiato con accezione negativa, oppure forza nel continuarti a vedere in un modo. Quella figura cristallizzata fa comodo a chi non cambia o non l’ha fatto. Notare i tanti cambiamenti di qualcuno, che spesso sono miglioramenti o una crescita, è un colpo nella mente dell’altro, perché è un confronto diretto, dal quale non si può scappare e che ti fa pensare: lui è cambiato e io no.

Fa comodo pensarmi in un modo, toglie a qualcuno il rischio di confrontarsi e di capire magari di aver perso qualche treno o di non essersi mai messo in gioco.

Ritornare e mettersi a cercare casa è un’altra rincorsa, con le mille difficoltà che implica una tale ricerca. Rifare tutto a distanza di due anni, è un déjàvu, un montare di nuovo un puzzle.

La perenne instabilità di questi anni, dettata da viaggi, valigie, case, traslochi, un ciclo che sembra non finire mai, al massimo avere una pausa. C’è forse anche una stanchezza di questo tipo presumo, nel rimettersi in moto in una certa maniera.

Ho provato a fare alcune metafore ultimamente, la più azzeccata a mio avviso è che sono una scatola di cartone che non entra più bene in un vecchio cassetto. Si può sgualcire e piegare, alla fine entra pure, ma ovviamente non nel modo appropriato.

Qui, la mia città, la mia vita a queste latitudini, è un recipiente nel quale non entro più bene ed è in fondo la più normale delle conseguenze di tutto quello che c’è stato e ho vissuto negli ultimi anni.

Sono cambiato io e non è cambiato nulla intorno a me. Ne il posto, ne le persone, e nemmeno la maleducazione, l’atteggiamento, i modi di fare, di vivere e vedere le cose. Provare una profonda fase di rigetto presumo sia abbastanza naturale.

Dire tutto ciò espone a critiche, ovvio. Alla gente, a chi non si è mai mosso, certe considerazioni non si possono fare perché si rischia di non essere capiti e soprattutto etichettati come esterofili o persone che vogliono mettersi su un piano diverso. Sbagliato, completamente errato. È il diverso punto di vista di chi ha semplicemente vissuto e sperimentato altro e quindi ha mixato stili di vita, colori e architetture.

Ho scelto di tornare soprattutto per lavoro. L’ho detto e lo ripeto, sapevo che era la scelta sensata e come ho sempre fatto ho anteposto il giusto a ciò che era facile o mi faceva più comodo.

Roma, oggi, è il posto in cui devo stare per tanti motivi, un passaggio obbligatorio, di crescita e formazione ulteriore. Una esperienza. Così ho sempre visto il ritorno, una tappa, una parentesi a casa. In questi anni ho capito che lavoro desidero fare nella vita, più avanti mi piacerebbe capire dove voglio vivere, forse in nessuno dei posti in cui sono già stato.

E proprio da qui nasce una delle convinzioni maturate in questi due mesi, una amara riflessione che ti conduce alla condanna di non sentirti più casa: non poteva essere Toronto per ovvie ragioni, ma non lo è nemmeno più di tanto Roma. Strano, ma vero, con il rischio che un giorno diventeremo un po’ tutti apolidi, perché un conto sono i sentimenti e l’appartenenza, aspetti nobili e romantici, diversa però è la vita nel concreto.

Due mesi alle spalle e molti altri davanti: sfruttare quanto di buono sa offrire questo mondo qua e lavorare sodo, tanto il guado è stato attraversato e indietro, dopo anni così, non si torna più.

Ripenso a due anni fa, al viaggio a Reggio Emilia e al concerto di Ligabue, quando ero consapevole che sarebbe stata l’ultima recita di un qualcosa: la fine di una fase, l’inizio di altro.

Non mi sbagliavo.