La mia estate – “Allora, ho visto i treni per Burlington…”

Ad inizio 2016, parlando con la Bionda, le dissi che questo anno sarebbe dovuto essere, almeno così lo prevedevo, per forza di cose, assestante. Recentemente ho dovuto correggere il tiro e l’ho definito didascalico. Questa estate è stata infatti ricca di insegnamenti, importanti o banali, ma tante piccole cose mi hanno evidenziato in molte circostanze la realtà dei fatti. Un esempio è la “Ragazza di Richemont”.

C’è poco da fare, uno ci può mettere tutta la volontà del mondo, ma se le cose non devono andare non vanno. A volte infatti, penso che impegnarsi sia importante ma quando il tutto non dipende da noi, bisogna anche lasciar stare la situazione, sedersi un attimo e vedere il flow. Tutto qui, perché poi si sviluppano dinamiche su cui non abbiamo semplicemente voce in capitolo.

Prima di arrivare però a questa beffa, una delle tante targate estate 2016, il 10 giugno inizia l’Europeo che suscita in me qualcosa di nuovo e mai vissuto, ossia lo smisurato ed estremo senso di appartenenza, di vibrante patriottismo che si prova quando c’è la Nazionale ma si vive fuori.

Mi piacciono le cause perse, gli under-dog, le sfide in salita, per questo l’Italia di Conte mi attira e in breve tempo mi trascina, anzi, sono uno dei pochissimi che crede in questo gruppo.

Mi invento qualunque cosa per vedere la partite degli Azzurri che capitano sempre in mezzo alla settimana e per via del fuso in orari lavorativi. Passiamo agevolmente il girone e nel frattempo la colonna scelta da Sky, “Happy” di Luca Carboni diviene la mia sigla mattutina, la prima canzone che parte dal mio I-pod mentre cammino verso l’ufficio.

Nel frattempo l’appuntamento del venerdì al Crocodile inizia a raddoppiare. Infatti se il venerdì si può bere liberamente fino alle 22, il mercoledì non c’è questo limite ed il prezzo di 2,50 dollari vale fino alle 2. Il caldo, il patio, ma soprattutto il gruppo di persone che raggiungono me e il mio compare diventa intanto sempre più grande. Il livello di aggregazione raggiunge vette notevoli, viene creato un gruppo su Facebook che in breve tempo conta 28 persone, tutte quelle che puntualmente si radunano intorno i tavoli del Crocodile. Occupiamo larghi spazi generando una discreta caciara ed è decisamente bello e divertente.

Parte di questo gruppo è francese, molti sono amici diretti del “Ragazzo di Versailles” ed in alcuni momenti mi sento uno dei protagonisti di Ritals, una simpatica web serie sugli italiani a Parigi. La frequentazione diventa assidua e noi non saltiamo un appuntamento, ma a proposito di Francia, contatto la “Ragazza di Richemont” che non vive a Toronto, ma a Burlington e lavora a Hamilton. Un po’ come se io vivessi a Roma, lei a Fiuggi ma ogni giorno deve raggiungere Frosinone per andare in ufficio. Il problema non è certamente quello delle distanze, i due weekend successivi alla nostra conoscenza lei è impegnata: con un farewell party prima e poi con un music festival per il quale aveva preso i biglietti da tempo.

Il tempo passa e conoscendo come vanno storicamente per me queste cose, si insinua nella mia mente uno strano senso di beffa. Vecchi retaggi mentali tornano a galla seppur con meno vigore, quando decidiamo di vederci fissiamo l’incontro per sabato 18 giugno. Io decido di andare a Burlingotn, e già l’idea di andare in trasferta, con il treno da Union Station mi esalta forse tanto quanto l’uscita perché rimango fondamentalmente un esaltato che vive di metafore.

La mattina così mi sveglio, controllo per bene gli orari dei treni, mi segno i due più adatti e le scrivo. La risposta però, non è delle migliori, perché nel frattempo la ragazza ha deciso di andare in Portogallo una settimana per raggiungere i genitori che sono sbarcati in terra lusitana da poche ore. L’improvvisa voglia è incontenibile, e mentre si scusa in tutti i modi prepara la valigia. Qualche ora dopo mi comunica che sta andando all’aeroporto e che tornerà otto giorni dopo, promettendomi che rimedierà. Non posso fare altro che prendere atto del tutto, augurarle buon viaggio, imprecare per ore contro il destino cinico e baro e vivere il mio sabato in modo totalmente diverso.

La beffa non mi sorprende, ma mi irrita. Non sono infastidito per come sia andata, ma per come vadano puntualmente certe situazioni che a volte sfondano il muro del credibile. Mi metto l’anima in pace ma con un po’ di difficoltà. Intanto teniamo il ponte radio accesso malgrado le cinque ore di fuso ed il wi-fi che non può soccorerla costantemente.

In tutto questo, mentre la “Ragazza di Richemont” si aggira per Lisbona, io perdo anche la mia spalla, poiché il “Ragazzo di Versailles” torna in Europa per tre settimane di vacanza. L’attenzione si sposta così su Italia – Spagna ma soprattutto sulla Partita contro la Germania in scena sabato pomeriggio 1 luglio. Per la prima volta, grazie anche all’orario, decido di andarla a vedere a Little Italy, non tanto per condividere l’atmosfera con gli emigrati ma per trovare qualche italiano vero. Sono 120 minuti di noia e sofferenza, io sono invece sempre più infastidito dai finti italiani da cui sono circondato. Sì, i nipoti di chi è venuto qui nel secondo dopo guerra e che guardano la partita vestiti di azzurro ma gridano in inglese. Avverto uno strano sentimento, in primis quello di essere il tifoso con la T maiuscola ma anche come uno di quelli più coinvolti perché io so ad esempio cosa significhi la Nazionale in Italia e soprattutto la partita contro la Germania.

Al gol tedesco, la reazione rabbiosa si sfoga contro questi italoidi che sembrano disperarsi ed io inizio a mandare affanculo chiunque, issandomi sul gradino di colui che ha il diritto di essere più arrabbiato. Continuo a ripetere “Ma che cazzo ne sapete voi!?” e forse ho ragione, perché al pari di Bonucci la mia esultanza è ben altra roba rispetto alla loro. Mi tremano le costole per due minuti a forza di gridare e la cassa toracica mi fa male per quasi tutti i supplementari. Dietro di me intanto si è posizionato un giovanotto che sostiene la Germania pur non essendo teutonico.

È con la ragazza, ma da un commento a mezza bocca, oltre tutto sul fallo del rigore l’ho sgamato e penso: “Hai scelto il posto meno adatto, bello…” Dopo il gol del pari, capisce chi ha davanti e si allontana di qualche passo per salvaguardarsi. I rigori sono uno stillicidio raro, il finto tedesco accenna ad esultare, quando sbagliano loro e noi rimaniamo a galla io sono già da un pezzo in piedi su una ringhiera di un ristorante e mi tengo ad un palo di sostegno della copertura esterna, un palo che tento di sradicare diverse volte preda di una rara trance agonistica. Resta il fatto che la roulette gira sul bianco e non sull’azzurro. Vincono loro, il pupazzo dietro di me esulta, io mi giro per aggredirlo immediatamente, non tanto per la vittoria ma perché è un deficiente visto che in una città enorme e internazionale come Toronto ha deciso di vedere una partita del genere a Little Italy. Una pizza in faccia se la merita, se l’è guadagnata direi.

Scappa, faccio per corrergli dietro ma è andato ormai, realizzo che sto facendo una stupidaggine, anzi una cazzata vera e propria, cambio direzione e prendo la strada verso casa. L’amaro in bocca è enorme, abbiamo sognato un po’, ma ora c’è spazio solo per una cocente delusione.

Mi rintano in quella tanto familiare idea che tutto stia andando male e soprattutto allo stesso esatto momento. Fortunatamente però, la sensazione ed il tunnel mentale in cui sono entrato sono piuttosto brevi rispetto al solito, ma anche questo, in fondo, non è proprio un caso.

La mia estate – “Parola d’ordine: retrocessione”

La mia estate inizia un giovedì pomeriggio di aprile, precisamente il 7 aprile, data già presente nel mio immaginario per una vecchia storia dell’università, una surreale conversazione di anni fa fra me, David e il Presidente il quale ci salutò dandoci appuntamento proprio al 7 aprile successivo, data che puntualmente ogni volta ritiriamo fuori.

È ovvio che per “la mia estate” intenda qualcosa di non strettamente legato al calendario e nemmeno al meteo, ma a qualcosa di più personale senza scomodare esistenzialismi vari. Tutto nasce in modo piuttosto accidentale, e si racchiude in un rifiuto, quello che arriva dalla mia “Compagna di banco” che dice di no ad un bicchiere di vino da condividere dopo il lavoro.

 

La storia della mia estate inizia lì, e questa è la storia che proverò a raccontare.

 

Lascio la redazione, cammino verso casa mentre inizia a piovere all’improvviso, fortunatamente il percorso non è lungo e la pioggia è leggera. Varco la porta e mi siedo sul letto, mi addormento nel giro di cinque minuti. Non sono stanco, ma sento una fatica inspiegabile, una cascata di non so cosa mi è caduta addosso, ho un buco allo stomaco e tutto questo si rivela in una stanchezza strana. Mi addormento. Mi risveglio verso l’ora di cena stranito dalla quantità di ore che ho dormito in una parte della giornata non propriamente adibita a quel tipo di attività. Inizio a elaborare quello che è successo qualche ora prima e so bene, fin da subito, che c’è molto di più, molto sta venendo a galla, qualcosa di più antico e sopito ma mai sparito. So perfettamente che quello che è successo certifica la mia retrocessione, un parallelismo che nelle settimane precedenti avevo spesso citato, probabilmente sapevo che qualcosa stava per succedere. Il pomeriggio del 7 aprile è come il gol che arriva da un altro campo e azzera le tue minime speranze di salvezza. Mi sento esattamente così e inizio a ragionare su questo fatto. Sono molto meno lucido del solito, un dettaglio che per forza di cose significa tanto. Considerando l’orario, scrivo al “Ragazzo di Hong Kong”, al quale racconto il fatto, attaccandolo anche ad un certo punto, addossandogli delle responsabilità, parole dette tante volte ma che mai si sono rivelate reali.

Da quel momento in poi stacco tutto in senso pratico e non solo. Disinstallo Whatsapp che mi permette di isolarmi e mi trincero in un silenzio lungo che interrompo con una email soltanto, indirizzata alla Bionda. In quei giorni inizio a prendere coscienza di tante piccole sfumature e diverse realtà. Di base però, non ho voglia di ascoltare nessuno, perché preferisco evitare chiacchiere superflue e frasi retoriche. Entro in una acuta fase di egoismo, inteso come occuparmi proprio solo ed esclusivamente di me stesso. La modalità però mi piace fin da subito.

Venerdì 8 aprile, il giorno dopo, mentre sono al bagno della redazione, un mio collega francese, all’improvviso e senza un motivo valido, in italiano mi dice: “Andiamo al bar”. Rispondo sì senza pensarci, alle 5 salutiamo tutti e ci dirigiamo verso Adelaide e Duncan, in un posto in cui il venerdì fino alle 22.00 ogni cosa da bere costa 2.50 dollari. Uno dei protagonisti di questa storia è anche lui, il “Ragazzo di Versailles” con il quale mi dirigo verso il posto che sarà luogo centrale di questa estate, ma io sono ignaro ovviamente di tutto.

Nel frattempo, l’azione più sensata che mi ritrovo a fare è comprare il biglietto per andare a Roma a maggio. Sono incastrato da una serie di cavilli che mi obbligano ad usare le mie ferie entro il 31 maggio e dopo qualche ora passata a perlustrare su Volagratis diverse destinazioni statunitensi e centro-americane, decido di comprare il biglietto per tornare a casa 9 giorni. La data è il 5 maggio, coincidenza che certamente non mi esalta ma il prezzo è troppo vantaggioso e così lo prendo. Quattro mesi dopo torno a Roma e l’idea si rivelerà più che azzeccata.

Domenica 17 aprile intanto  a Toronto inizia di fatto la primavera, è una splendida giornata di sole, la prima veramente calda che ci spinge ad un brunch per pranzo e a distenderci su un parco davanti casa mia prima di concludere quel week-end con un funerale che riguarda un po’ tutti.

Inizio nel frattempo a giocare a calcetto, la prima partita è a 8, ed è l’ultima di un torneo. Mi diverto molto, riassaporo dopo anni il gusto di infilarmi gli scarpini e tirare due calci ad un pallone, farlo poi così lontano da casa ha un qualcosa di esotico che mi attira. Un mio collega che organizza questi tornei mi chiede se voglio prendere parte a quello successivo che comincia a fine mese, accetto senza esitazioni ed entro a far parte della squadra per un torneo di calcetto di dieci partite che finirà ai primi di luglio. La formula di questa lega prevede però la presenza anche di una donna in campo, una cosa molto canadese. La ragazza in questione, ironia della sorte, sarà quasi sempre la mia “Compagna di banco”, sempre presente da tempo a queste partite.

Martedì 26 aprile c’è l’esordio, perdiamo subito e non gioco nemmeno troppo bene. Durante la gara e dopo, mentre torniamo a casa, la mia “Compagna di banco” dice una serie di frasi strane. Ambigue o comunque insolite per lei. Dovendo fare entrambi lo stesso percorso verso casa, ad un punto mi chiede in modo del tutto inavvertito, prendendo spunto da una conversazione molto generica, di un mio eventuale interesse per una stagista che lavora da noi da qualche mese. Nego tutto, infatti non ho alcun motivo di raccontarle l’assurdo pomeriggio di fine febbraio quando ci sono uscito e lei la sera stessa doveva andare ad incontrare per la prima volta i suoi nuovi suoceri. Sorvolo con grande maestria e andiamo avanti, ma la domanda improvvisa mi spiazza per diverse ragioni e mi fa pensare per la prima volta a qualcosa di diverso, non solo a me, poiché racconterò il fatto ad altre due persone che arriveranno alla mia stessa conclusione. Tuttavia, arrivati praticamente all’incrocio davanti casa sua, ci imbattiamo in una persona di nostra conoscenza, più sua che mia a dire il vero. Due battute e via. Ci salutiamo, lei entra nel suo portone io proseguo per la mia destinazione. In realtà ho appena assistito ad una sliding door, non lo so, non me lo immagino, ma un mese dopo lo capirò in modo casuale e rimarrò molto sorpreso, quasi esterrefatto.

Il giorno dopo esco intanto con una ragazza italiana conosciuta sulla community Internations, quelle realtà virtuali utili a mettere in contatto italiani espatriati. È una serata piacevole, un unicum per certi versi, realizzo come sia bello poter parlare con una persona italiana all’estero. Ci aggiriamo per Little Italy e dopo una pizza, torniamo a casa. Penso che la rivedrò, ci diamo appuntamento per quando tornerò da Roma. Non la rivedrò mai più invece, ma la sentirò un’altra volta perché mi chiederà un aiuto per un suo amico.

La sera prima di partire per Roma, è un mercoledì e la Serie A di basket arriva all’epilogo finale. C’è poco da decidere per le posizioni alte della classifica, tutto invece è da stabilire per la retrocessione e la Virtus dopo un campionato scellerato ne è drammaticamente coinvolta. La domenica prima ho visto la partita in casa contro Torino, prima battaglia per la sopravvivenza, stravinta ma non sufficiente per essere salvi. Tutto si decide a Reggio Emilia in una impresa che appare titanica. La storia è ciclica e mi torna in mente quando nel 1993 la Fortitudo si salvò clamorosamente a Reggio guidata da Alibegovic, in una partita epica. Mi auguro che possa accadere qualcosa di analogo. Non posso seguire la partita perché buona parte della sfida coincide con il consueto meeting del mercoledì alle 3. Lascio la mia postazione con la Virtus davanti nel punteggio di poco. Finita la riunione, mi alzo per ultimo, so che nel giro di pochi secondi aprirò la pagina dei risultati della Lega Serie A e sarà come una roulette russa con la sensazione però che i colpi a vuoto saranno molti meno di quelli che ti fanno fuori. È così, Reggio Emilia vince, la Virtus per la prima volta in 89 anni di gloriosa storia precipita sul campo in seconda divisione. La tristezza e il groppo in gola mi pervadono, parto il giorno per Roma con un peso sull’anima di cui avrei fatto a meno e che mi riporta al terribile biennio cestistico 2003-2005.

La settimana e poco più a casa scivola via quasi senza averne memoria. Incontro subito Andrea ed Aurora, la sua bambina nata il 9 aprile, trascorro più tempo possibile con Alfredo che è la mia priorità suprema dopo il dramma da poco avvenuto. Insieme andiamo anche al “Siviglia” di Fiuggi a trovare David, ritiriamo addirittura la pergamena della magistrale che mette veramente un punto finale e pratico a quel pezzo della mia vita e festeggio in famiglia il compleanno di mio padre l’8 maggio. Torno a vivere la strana ed antica sensazione di rivedere una partita dell’Inter dal divano di casa, poco dopo però mi ritrovo a tirare la zip della valigia per ripartire.

Mi aspetta Toronto ancora una volta ed una lunga estate senza pause, una interminabile corsa che finirà solo a Natale. Una maratona che però mai avrei pensato potesse farmi scoperchiare finalmente dei punti critici bene in vista dentro di me.

Siamo questo, niente di più.

Cresciamo da generazioni con i racconti drammatici dei terremoti che nell’ultimo secolo hanno straziato il nostro paese. Cresciamo con queste storie e quelle della Guerra, due cordoli che fortunatamente non si intersecano pur essendo disastri che hanno segnato la storia dell’Italia e la vita di molte persone.

Un evento potente e imprevedibile come un terremoto ci ricorda quasi subito che non siamo nulla, che di fondo, siamo costantemente appesi ad un filo e che tutto può essere spazzato via in un attimo: vite, case, pensieri che diventano già ricordi, spesso amari.

Ciclicamente ci ritroviamo a scavare fra le macerie, a piangere chi non c’è più e a sorridere per qualcuno che dopo ore, magari, è ancora vivo. C’è qualcosa che ritorna, la storia, il dramma, un filo rosso che ci unisce come popolo, quando serve. Mi commuove questo, non so perché, o semplicemente non me lo so spiegare. La solidarietà, la voglia di aiutarsi e di stare insieme che si vive in questi momenti è unica e sincera, per questo drammaticamente toccante.

Esistono ripetizioni che a volte ci portano a pensare che da certi incubi non ne usciremo mai. Penso alla gente dell’Aquila e a chi nel cuore della notte è stato svegliato ancora una volta, praticamente alla stessa ora, dal letto che si muoveva e dal lampadario che oscillava. La mente torna subito al passato, a sette anni fa, e alle 309 vittime che quel terremoto si è portato via. Quella scossa la avvertii anche io, a Roma, il letto si spostò per secondi interminabili, attimi in cui realizzi cosa sta succedendo ma non sai mai cosa fare. È tutto troppo improvviso e crudele che non esiste una reazione giusta o una azione opportuna da fare, aspetti solo che la terra si fermi e poi ti tocchi, ti guardi in giro per vedere se tutto è ancora al proprio posto.

Ricordo quella notte, come le giornate del settembre del 1997 con il terremoto in Umbria, la terra di tanti miei parenti e i luoghi delle mie estati abbattuti in un colpo solo.

È la storia dell’Italia, un tunnel dal quale sembra impossibile uscire e quando appare un po’ più lontano nella memoria, ritorna più rabbioso e forte che mai. Quattro anni fa, 27 morti in Emilia, oggi non si sa ancora, o meglio, il conto cresce drammaticamente ogni ora e la paura rimane per quello che potrebbe essere, per i corpi che mancano all’appello e per le decine di scosse di assestamento che arriveranno, sperando che siano solo conseguenze dello sciame sismico e niente di più grave.

Quando vivi lontano dall’Italia tutto è nostalgia. Anche una tragedia così ti tocca in modo diverso, forse in maniera più profonda,  so solo che è differente.

È stato un 2016 bagnato di sangue e lacrime come nessun anno precedente che io ricordi. Un 2016 macchiato dal terrorismo, da molteplici stragi, dalle giovani morti in Catalogna su un bus, dall’incidente ferroviario in Puglia, fino a questo ultimo terremoto, per non contare i drammi personali con il pensiero che corre ovviamente ad Alfredo.

È stato un anno che finora ci ha ricordato e sottolineato con un vigore di cui avremmo fatto volentieri a meno, quanto siamo impotenti di fronte a certe cose, in balia di un destino imprevedibile, palline che ruotano casualmente su una roulette sperando sempre di capitare sul colore giusto.

Siamo questo, niente di più.

Il rumore dei nemici. Eccolo…

Quella che ti dice “mi manchi” e di tornare, e poi ha due ore di tempo e esce con chi ha visto per giorni, quell’altra che insiste nel dire che quello che fai non giustifica il tuo status di impiegato full-time in redazione, quell’altra che decide di sposarsi e te lo scrive partendo dal presupposto che non ti faccia piacere, in tutto questo, nel frattempo, cercano di fare accoppiare quell’altra sotto i miei occhi, e rischio di non vedere nemmeno Empoli-Inter. Bene.

Ecco, diciamo che il “rumore dei nemici” tanto caro al mio amico Mourinho, o il “Qui giochiamo in trasferta come di più non potrebbe essere” tanto caro a Caressa prima di Germania – Italia a Dortmund, sono due espressioni che inevitabilmente mi sono tornate in mente perché è esattamente così, senza nemmeno troppe esagerazioni.

Io non lo so, cioè io non so un cazzo, però ecco, non siamo partiti bene ma d’altra parte non avevo finito nel modo migliore e tutto ciò è una naturale prosecuzione delle puntate precedenti. Buttare il calendario del 2015 per appendere quello del 2016 quasi sempre cambia poco, forse nell’arredamento ma non nei fatti concreti.

Ieri sera tornando a casa mi interrogavo su una serie di questioni psedo-esistenziali, e sono arrivato a una serie di conclusioni piuttosto soddisfacenti, come ad esempio che le persone hanno paura, di tante cose, soprattutto della solitudine, di stare da soli, di rimanere da soli. E quindi agiscono facendo cose assolutamente inspiegabili.

Oggi invece ragionavo che mi piacerebbe avere una bella notizia, una cazzo di cosa positiva. Ormai sono entrato in una serie negativa clamorosa. Una rottura prolungata che a dicembre si è sublimata e che non sembra attenuarsi.

Tutto questo clima mi infastidisce naturalmente, a un punto mi compatterà come ovvia ed inevitabile conseguenza del “rumore dei nemici” di quel qualcosa che percepisci e ti stimola a dare tutto. Allo stesso modo, poi, ci sarà un obbligato collasso, anche perché mica si può combattere ogni minuto, o stare in silenzio perennemente, ruolo nel quale sono entrato da settimane, a parte il break natalizio a Roma.

Io dico che così non va bene, non va bene per un cazzo. Anzi, direi basta. Avessi una soluzione, o potessi fare qualcosa lo farei pure, ma la sensazione è che siamo entrati in un vicolo cieco.

Poco fa, pensando all’Epifania, mi è tornato in mente che sei anni eravamo da Teoria, a girare per la depandance con il mio Catto preferito a dire a tutti che stavamo per prenotare il viaggio a Bisanzio e Costantinopoli. Poi la chiamai per finire i minuti della “Tim Auguri” e il giorno dopo avremmo vinto a Verona, prima di una gita al pronto soccorso e di andare alla festa di Sara a San Lorenzo. Che fomento. Che paragone terribile con oggi, che roba impietosa sarebbe.

Volevo dirlo, mi andava, e l’ho fatto, poi pensate il cazzo che volete ma dopo giornate, ma che dico giornate, settimane così, ti attacchi a qualche memoria. Così, tanto per ricordarti quando un po’ di cose funzionavano.

Ripenso poi che il 2016 è iniziato ascoltando casualmente Masini che cantava “Vaffanculo” su Raiuno e temo che la coincidenza non fosse proprio strana. Anche perché nella frase: “Me ne andrò nel rumore dei fischi, sarò io a liberarvi di me” c’è un qualcosa di sinistro e di molto futuribile, un qualcosa che ha il sapore della previsione e della predizione per il sottoscritto da queste parti.