Lettere dal futuro – Il festival del cazzeggio

Che poi, in fondo, la colpa è mia, ma fino a un certo punto. Nel senso, io sarò pure il capo-banda dei cazzari, ma pure i zuzzurelloni che mi circondano non sono da meno, basta dargli l’assist ed ecco cosa ti combinano…

Nell’ordine, la mia lettera e le risposte di David e Alfredo.

 

Caro David, come stai?

È tanto tempo che volevo scriverti e finalmente sono riuscito a trovare l’ispirazione giusta e l’umore adatto per prendere carta e penna e raccontarti un po’ di cose.

Sono ormai 4 mesi che sono tornato qui a Toronto, tutto procede nel modo migliore, il programma è cominciato da poco, ma presto inizieremo uno speciale che andrà in onda ogni settimana e stiamo lavorando moltissimo in questi giorni per essere pronti.

Nel frattempo mi hanno raggiunto finalmente Maria Grazia e la piccola Elena. Cresce di giorno in giorno come puoi immaginare, ma avere qua entrambe è davvero tutta un’altra cosa. Finalmente siamo riusciti a ultimare questo altro trasloco, loro sono arrivate venti giorni fa e inevitabilmente ora si aprirà un’altra parentesi.

Fermata è contenta di essere qui, per quanto ovviamente la sua prima preoccupazione sia quella di accudire Elena, penso che fra un po’ di tempo, quando ci saremo veramente sistemati del tutto, anche lei troverà qualcosa. Onestamente abbiamo già delle idee e io ho qualche contatto ma è abbastanza prematuro parlarne ora.

Per il resto, ti dico che la casa nuova in cui stiamo è veramente bella. Grande, luminosa, dotata di ogni comfort e arredata in maniera semplice, adesso che Maria Grazia è qui avremo anche modo e tempo di sistemarla e renderla ancor più piacevole. Il distacco dall’Italia per loro non è stato indolore ma credo sia normale, tutti sappiamo che era comunque la soluzione migliore e poi, di certo, Elena crescerà parlando 3 lingue perfettamente: italiano, inglese e presumo il siciliano…

Tu cosa mi racconti? Che mi dici? L’hotel Malaga di Fiuggi immagino vada a gonfie vele! Sono curioso di avere qualche tua notizia, ma soprattutto voglio sapere come prosegue la gravidanza di Rossella. Quando dovrebbe partorire? Come sta il piccolo Gianfranco?

Giorni fa ripensavo ad Alfredo, e con massima sincerità ti confido che io la mossa di aprire sto ristorante vegano a Bombay con il suo amico, Alessandro, il Macaco, bè non è che l’abbia proprio capita. Però, ti dico anche che da lui sono giocate da fuoriclasse assoluto che ti devi aspettare e sappiamo che spesso ha fatto centro.

Vorrei dilungarmi, farti altre mille domande, però fremo dalla voglia di imbucare questa lettera e di ricevere quanto prima la tua risposta.

Caro Catto del mio cuore, ti abbraccio forte e ti mando un saluto grande da parte mia, di Fermata ed Elena.

A presto,

Matteo

 

Caro Matteo,

la tua lettera mi riempie il cuore. Avrei voluto scriverti in questi giorni ma qui in hotel fino a ieri c’è stata parecchia confusione. Come sai qui a Fiuggi abbiamo ospitato il congresso del Partito della Nazione e in albergo ho avuto parecchi congressisti.

Il piccolo Gianfranco cresce bene, anche se mio cugino sta facendo di tutto per farlo diventare della Roma. L’altro giorno ho tentato di parlargli e gli ho detto: “wèèè franchino, lo sai che papà non è di nessuna squadra, però se tu vuoi proprio essere tifoso diventa dell’Inter come Zio Matteo e Zio Alfredo, o al massimo della Juventus per fare contento Nonno Stefano e Zio Antonio. Ma della Roma no, dai retta a papà!”

Rossella sta bene, è all’ottavo mese. Insomma ci siamo. Sarà una femmina e ho deciso di chiamarla Stefania come primo nome. Come secondo nome Giorgia. E come terzo nome Marta! Lo so tre nomi sono tanti, ma mi sono impuntato, è stato un capriccio nonostante le vane proteste di Rossella.

Non sai chi ho incontrato la settimana scorsa a Roma Est?! Francesca… che brivido caro Matteo! Aveva dieci chili in più come minimo. Non l’ho vista bene. Era in compagnia di un cagnolino che mi ha detto essere il nipote di Willy… te lo ricordi Willy? Attualmente lavora in uno studio di tatuaggi, si occupa della contabilità. Il tatuatore è il cugino di suo marito. Inoltre è diventata pure Assessore all’urbanistica di Ciampino.

Mi fa molto piacere che Fermata e la piccola Elena ti abbiano raggiunto. Il quadro è completo Mattè e non sai quanto sia felice per te! Dammi tempo di sistemarmi con Rossella e la piccola in arrivo e il prossimo anno ti vengo a trovare insieme a Gianfranco.

Che dirti di Alfredo? Non ne ha mai sbagliata una lo sappiamo. Alfredo è uno di quelli che c’ha quel qualcosa in più, c’ha il tocco, c’ha quella scaltrezza giusta!

Va bè, adesso ti saluto. Ci risentiamo presto.

Un abbraccio forte

David

PS: ma insomma La Bionda il prossimo mese è stata invitata da alcune università americane per delle lezioni di linguistica?!! Sta cazzo de Bionda… Forse andrà con lei anche Antonio, tanto ormai che è diventato Preside può fare un pò come cazzo gli pare a scuola!

 

 

Caro Anthony,

come va? Innanzitutto devo dire che ho condiviso questa tua svolta anglosassone. Hai fatto bene a dare un tocco inglese al nome. Certo, forse hai un po’ esagerato nel voler mutare anche il cognome in «Master Andrew». A me piace ricordati come il vecchio «Anto», ma apprezzo anche «Anthony» e rispetto la tua scelta.

Da quando sei diventato preside della British School di Via Veneto non ci siamo più visti. Ho letto sul sito del Ministero dell’Istruzione che parteciperai attivamente a un remake, in lingua inglese, di «Caro Maestro» di Marco Columbro. Una scelta azzardata, che forse io non avrei preso. Le telecamere lasciale a quel coglione del Ciofi. Ormai, penso tu lo ricordi, sono quasi dieci anni che non ci parliamo. Tornato dal Canada se la prese per quella storia del soprannome «Ciofarri» e montò un pandemonio infinito. Naturalmente il Catto gli fece sponda e i nostri rapporti si esaurirono.

Mi hanno riferito che è tornato in Canada per l’ennesima volta, non si rassegna. Dicono vada in giro a millantare una casa luminosa e un buon impiego. In realtà so che se la passa malissimo ed è tornato ospite del povero Mathieu, che ormai è costretto pure a sorbirsi la compagna e la figlia Elena. Bel nome, almeno quello…

David lo sento ogni tanto. I rapporti si incrinarono dopo che mi chiese una consulenza per il rilancio del vecchio Hotel Siviglia. Gli consigliai di mantenere il nome, ma optò per «Malaga». La classica mossa del paesano che vuole smarcarsi dal peso della tradizione. Pare che la cugina, ormai sindaco da 10 anni, l’abbia aiutato un paio di volte con soldi pubblici. La storia era uscita anche su «Oggi Fiuggi», ma poi è riuscito a insabbiarla con la complicità del padre.

Di me cosa vuoi che ti dica: la decisione di trasferirsi in India è stata automatica dopo la conversione all’induismo. Onestamente il buddhismo non mi rappresentava più, avevo bisogno di altro. Fabi continua a sopportarmi e prendersi cura dei nostri tre figli. Ho smesso anche di fare reportage dall’estero, meglio aprirsi un ristorante vegano qui a Bombay, dove peraltro ho ritrovato un vecchio amico.

Salutami tanto la Bionda, ho visto che è entrata nel dipartimento dell’istruzione dell’amministrazione Clooney e che fa di continuo la spola fra Italia e USA.

Oh, Antonhy, ma ti ricordi quando uscimmo insieme la sera del 5 giugno 2015? Chi l’avrebbe mai detto che il giorno dopo la Juventus di Allegri avrebbe vinto la sua prima Champions. Quanta gloria per voi, al netto di Calciopoli numero 5…

Alfredo

Auguri Uomo

Mi dirigo verso l’Aula Verde ma tu mi precedi, apri la porta e fai passare prima Laura, la tua compagna di liceo, mi fai cenno di andare, entro, ti ringrazio e scendo i gradini. Per caso, ci ritroviamo seduti sulla stessa fila, in mezzo a noi c’è ancora Laura, siamo di sotto, a pochi passi dalla cattedra, aspettiamo la lezione di geografia. Davanti a noi c’è un personaggio pantagruelico che viene da Nemi, al suo fianco un ragazzo che tiene ineducatamente un cappellino chiaro con la bandiera dell’Italia. Collo abbronzato, sguardo fisso da predestinato, piglio di chi la sa lunga. Anche lui è un paesano, non di Nemi, ma è di Fiuggi.

Involontariamente si inizia a parlare, tutti insieme, è il nostro primo giorno di università. È il 2 ottobre 2006. Dopo la lezione delle 11 di letteratura italiana, siamo stipati ora nell’aula accanto. Si solidarizza facilmente, tutti nella stessa barca, fra preoccupazioni, disorientamento ed eccitazione. Stranamente ci tratteniamo, perché entrambi, io l’ho pensato e tu avrai fatto lo stesso, vorremmo dare un buffetto di striscio al collo di quel ragazzo davanti a noi, gridandogli: “A Cattooo!”, ci verrebbe spontaneo forse, pur non avendolo mai visto. In pochi minuti, mentre attendiamo il professore, scopriamo di scrivere per lo stesso giornale, di essere entrambi interisti e di avere la medesima aspirazione professionale. Eppure, così tanti punti in comune dovrebbero portare a un feeling immediato, ma non succede. Anzi, nei giorni successivi, ci si vede poco. Io sono il soldato che segue tutto quello che deve, tu il fantasista, l’artista, un dandy borgese, un frascatano inebriato dalla bellezza dell’università e dalla novità di fare un po’ come si vuole, senza obblighi e giustificazioni.

Quando ci incontriamo fra le pause spesso è l’ora di pranzo, fra prati e sole, io me ne vado a casa a mangiare, perché la vicinanza me lo permette e gli orari anche, e mentre tu insisti affinché io rimanga lì, io quasi stizzito, invece, vi saluto.

L’anno vola fra sussulti, incontri occasionali, i primi personaggi, la partita di calcetto a Via Ciamarra a metà marzo e qualche battuta. Passa l’estate, inizia un altro anno, parti per l’Erasmus, ci saluti prima del mio esame di storia moderna modulo A, torni dopo mesi e sbuchi ad ottobre, prima di una delle lezioni di storia contemporanea, in Aula Rossa. Lì, comincia qualcosa. Veramente. Iniziamo a percorrere tanta strada, fra parentesi brasiliane ci si scopre, ci si trova. Il contesto aiuta, il tempo anche. È tutta una escalation, un crescere, uno stringere rapporti, uno scambio intervallato da momenti goliardici e risate. Tanti scorci, le emozioni cominciano a diventare una presenza fissa, lo sfondo perfetto, e insieme ne viviamo parecchie, ma soprattutto ne condividiamo molte. Inutile sceglierne qualcuna, sarebbe un dispetto per le altre, il privilegio è stato averle assaporate: una corsa, una coppa, un piatto cucinato a sei mani, un lettone.

Giorni fa mi sono appuntato mentalmente questa lettera. L’ho scritta dopo che mi hai dato uno spunto, un messaggio su Whatsapp, chiedendomi un suggerimento su un articolo. Per un attimo mi sono fermato, mi sono guardato intorno e ho pensato: “Sto in una redazione di una tv a Toronto, lui mi scrive da San Paolo e mi chiede un’opinione per un doppio pezzo per due delle testate più importanti italiane…ma quel giorno, quel primo giorno, seduti dietro al Gallo, ai lati di Laura, ce lo saremmo mai immaginati?

Nella meraviglia di questo pensiero, ho deciso di scrivere questo augurio speciale, condiviso, libero e aperto. Partendo da ieri ma inevitabilmente proiettato a oggi, al compleanno e a tutto quello che verrà dopo. Eppure, sorrido nel pensare a questo, pur essendo “todo corazon” come dice l’inappuntabile Fabi, voglio che sia un augurio ironico e scanzonato, quelle vesti che ci appartengono e ci sono particolarmente familiari.

Sì, perché magari fra sei mesi io venderò castagne a Piazza di Spagna e magari tu insegnerai italiano a qualche giovanotto brasiliano per una manciata di reais, ma chissà, magari fra qualche anno, come dicevamo giorni fa, potremmo essere in un ristorante del centro a pasteggiare con vino rosso dicendo che in fondo:  “Quel vice-capo redattore là, è un po’ una testa di cazzo”.

Vedremo, lo scopriremo, io intanto vorrei mostrarti un nuovo contapassi e suggerirti delle ottime scarpe da corsa, perché la strada è lunga ma è davanti noi e bisogna solo lasciar andare le gambe.

Ma oggi è il 3 marzo, il tuo giorno e dinnanzi a te me quito la gorra, señor.

Auguri Uomo.

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«Otto cose che ho imparato in Brasile»

di Alfredo Spalla

Ci siamo. È arrivato il momento di tirare qualche somma, far sapere a tante persone che sto bene e dire ciò che sento otto mesi dopo essere partito per il Brasile. Naturalmente grazie a David e Matteo, ai quali ho gentilmente chiesto questo spazio in prestito. Chi mi segue nonostante la distanza sa che, con una certa frequenza, scrivo su alcuni giornali e siti. Spesso parlo del Brasile, ma quasi mai riesco a raccontare il mio Brasile, la mia esperienza di vita. Beh, finalmente posso farlo. E in totale libertà. Per l’occasione ho scelto di fare un post che renderà felici gli amanti di Google Analytics e mi aiuterà a riassumere otto cose che ho imparato negli otto mesi lontano da Frascati. (Attenzione, post ad alto rischio di retorica!)

1. IL BRASILE NON È L’ITALIA

«Il Brasile non è l’Italia», l’affermazione, al limite del banale, è di quelle che ti farebbero esclamare: «Grazie al c….. che il Brasile non è l’Italia». Eppure, pensandoci bene, non è così scontata. Nel senso che il Brasile non è l’Italia nello stesso modo in cui il posto dove sei cresciuto non è lo stesso nel quale hai scelto di vivere. Per poter apprezzare una realtà differente, bisogna saper azzerare le proprie convinzioni, trascurare le proprie abitudini. Ho cominciato a sentire San Paolo un luogo familiare quando ho imparato a bere il caffè espresso più lungo del solito; quando ho rinunciato a cercare il Parmigiano D.O.P. e quando non mi sono più stupito davanti a una bottiglia di lambrusco venduta a 10 euro al supermercato. Per adattarsi ci vuole tempo: essere routinari non aiuta, essere italiani ancora meno. Siamo abituati bene, ma apriamo la mente con la stessa frequenza con cui Borghezio dice cose sensate.

2. LE PERSONE UMILI

Nella mia vita non mi ero mai relazionato con tanta frequenza con persone con un basso livello d’istruzione e/o con seri problemi economici. E non parlo di gente che guadagna 600 euro al mese con contratto a progetto, parlo di persone che lavorano 12 ore al giorno, guadagnano 270 euro al mese, mantengono famiglie numerose e vivono senza acqua corrente. Potersi confrontare, seppur superficialmente, con questa categoria di persone, mi ha insegnato che la forza di volontà non conosce fine. Capire, osservare, chiacchierare e non giudicare in base al portafoglio: non ci riescono nemmeno i brasiliani, che si danno del «povero» a vicenda. Riuscirci è stata una grande conquista personale.

3. A NOSSA CASA É ONDE A GENTE ESTÁ

C’è una canzone di Arnaldo Antunes, un cantautore brasiliano, che dice una cosa molto semplice e che nel tempo ho imparato a fare mia: «A nossa casa è onde a gente está, a nossa casa é em todo lugar» (https://www.youtube.com/watch?v=suJugh8-cts) . Tradotto brevemente: «La nostra casa è il posto in cui stiamo, la nostra casa è ovunque». Sarà che negli ultimi sei anni ho affrontato sei traslochi (Rocca di Papa; Campus; Via Gregoriana; Alphaville I; Alphaville II; San Paolo centro), ma sono giunto a questa semplice conclusione: ci sentiamo bene nel posto in cui viviamo l’amore. Il luogo fisico è abbastanza indifferente. In questo momento «la nostra casa», la mia e di Fabi, è a San Paolo, ma, come sapete, siamo piuttosto mobili. (sopra trovate il link del video, qui quello del testo della canzone: http://letras.mus.br/arnaldo-antunes/91579/ )

4. IL PORTOGHESE

Se c’è una cosa che ho imparato (e bene!), in otto mesi di Brasile, è il portoghese.

5. GLI ITALIANI

Nelle mie esperienze ho sempre cercato di evitare gli italiani all’estero. Chi viaggia con frequenza sa benissimo di cosa stiamo parlando. Un’altra cosa, però, è vivere all’estero. Nel bene o nel male siamo sempre una comunità, che si auto-sostenta anche all’interno di una città di 20 milioni di abitanti. Ci si aiuta a vicenda per il semplice fatto di avere la stessa cittadinanza. Non è poco, fidatevi.

6. NON FERMARSI MAI (E SAPERSI ACCETTARE)

Paradossalmente, il mio giorno più difficile in Brasile è stato il 14 luglio, la notte dopo la finale del Mondiale fra Argentina e Germania. Avevo appena concluso una grande esperienza professionale, ma ero già angosciato dal dover fare qualcosa di più. E non mi succedeva un mese dopo, ma a poche ore di distanza. Come ho detto a mia madre, penso che questa mia voglia di superarmi sia un grande dono, ma anche una condanna. In quest’aspetto penso di dover “maledire” mio padre: l’altro giorno via Skype mi raccontava, al limite dell’esausto, di sensazioni simili. Pretendere molto da se stessi non è sempre un bene, ma l’importante è sapersi accettare. 

7. UN ELENCO DI COSE PRATICHE (E MENO PRATICHE) CHE HO IMPARATO A FARE IN BRASILE

Crescere un cane; amare un cane; usare la carta di credito; girare video; montare video; parlare in radio; mangiare fagioli; usare la pentola a pressione; sopportare i centri commerciali; sopportare il caldo; convivere con il rumore; percorrere grandi distanze; usare Dropbox; rinunciare all’iPhone e passare a Samsung; sorridere alla cassa; risparmiare acqua; calcolare i fusi orari; scrivere di politica; trattare sui prezzi; mangiare meno pane; aspettare in fila; fare il churrasco il sabato; bere il succo d’arancia a pranzo; convertire rapidamente reais-euro; apprezzare il sushi.

8. A NON RISPONDERE A UNA DOMANDA IN PARTICOLARE

C’è un’ultima cosa che ho imparato a fare molto bene negli ultimi mesi, ovvero non rispondere alla domanda frequente: «Quando torni in Italia?». Ho imparato a prendere tempo, replicare con battute o mentire. La verità è che non rispondo perché non lo so nemmeno io. E perché per il momento non me lo chiedo ancora. Ma torno, state tranquilli che torno. Tchau!

Ipse dixit: Alfredo

Stavolta non è come nel 2008, nel senso che quei mesi a Siviglia del nostro amico borghese ebbero un impatto diverso avendo un rapporto meno profondo e stretto, qui invece la storia è cambiata, sono trascorsi anni e la distanza e l’assenza pesano perché il legame è aumentato e allora, mentre è immerso nella faticosa avventura mondiale, concediamogli un meritato tributo con le sue frasi storiche che vengono tirate fuori ripetutamente, per non dire quotidianamente.

 

“Non se finisce mai…”: questa è un marchio di fabbrica, esclamata a fine giugno 2011 mentre con Fabi finivano di sistemare il grazioso appartamento al campus di Tor Vergata in vista di uno dei tanti traslochi. L’onere di essere uomo di mondo è anche questo: spostamenti, cambi, viaggi, pacchi e scatoloni. Lui con dei piatti in mano che si avvicina verso il divano guardando David con questa frase è una immagine storica.

 

“A Catto, ma che ne sai tu…”: siamo davanti ad un tormentone, forse l’ultimo vero tormentone. Frase rivolta al celebre velocipede fiuggino che ormai se la ripete da solo per quanto gli piace, il fatto che la usi come frase su WhatsApp certifica la passione di David per questa esclamazione, a dire il vero lui l’ha anche un po’ modificata e sviluppata con tanto di versione blasfema, rimane il fatto che non è una frase, ma una sentenza.

 

“Ma il Catto dorme con la vestaglia”: una delle mie preferite, preparando il Lettone, mentre armeggiava con un pupazzo ed un cappellino bianco del Real Madrid gli chiesi dove avrebbe dormito David e lui mi rispose spiegandomi il modo più che il posto. L’immagine del nostro amico sotto le coperte con la vestaglia per me è impareggiabile.

 

“Dai Catto, mi racconti un po’ di te, mi parli dei tuoi sogni, dei tuoi progetti”: altra frase cazzara, il bersaglio è sempre lui, evidentemente David lo ispira oltremodo. Siamo sulla piazza di Frascati, è fine luglio del 2010 e dopo una serata allegra passata in compagnia, mentre ci salutiamo, Alfredo abbraccia amichevolmente David e gli chiede di accompagnarlo alla macchina esortandolo a raccontargli qualcosa. Fantastica.

 

“Ma il Catto ha detto tutto ormai”: mano in tasca, l’altra (la destra) che volteggia a mezza altezza con le prima tre dita aperte, posizione stanca, postura discutibile e altra sentenza sul nostro amico, sempre in chiave ironica, certo, però l’obiettivo è lui. Su David non ci “crede” più tanto, lo reputa destinato al tramonto, questa frase lo certifica.

 

“Ma il Catto è pesante…”: questa fa il paio con la precedente, anche se cambia la posizione per dirla, mano sinistra in tasca, l’altra invece passata fra labbra e naso, inspirando, viene mostrato un falso e profondo scoramento, con un po’ di stanchezza, e poi giù ancora con l’ultimo giudizio che a volte si collega anche con un: “Sì, ma è trito ritrito”.

 

“Ma il Ciofi è un esaltato”: Napoli, gennaio scorso, ore 9 del mattino e io vengo bollato così perché non dormo mai e soprattutto perché “la volevo fare partire troppo presto” e di conseguenza vengo invitato a non insistere con un “Dai Mattè, dormiamo ancora un po’”.

 

“Ma la mela stanca”: altra frase celebre pronunciata ad ottobre del 2012. Cena a casa sua, dopo un pizza si comincia a parlare di succhi di frutta, dei gusti di ciascuno di noi e delle varie marche, ma lui, uomo di mondo, e dal palato fino, la chiude così prendendosela con il frutto più celebre nella sua versione green, per Alfredo la mela dopo un po’, come sapore, stanca.

 

“Catto sei terribile…”: Lettone, prime luci del mattino e mentre David si dimena inspiegabilmente, ecco un’altra storica frase, impareggiabile perché detta con il sonno addosso, la bocca impastata e soprattutto le braccia conserte. Un altro classico.

 

“Ma sta lì, con il braccio un po’ così…”: altro tormentone al quale deve essere aggiunto il gesto, quella specie di cigno fatto con il braccio con la dita raggruppate e il movimento del polso. Non è facile da spiegare ma chi sa ha capito. La frase indica chi non prende posizione o chi non si fomenta il giusto, chi tergiversa, cincischia e non si schiera. Ripresa da tutti, spesso vale solo il gesto senza le parole per quanto è ormai simbolica e identificativa.