“FabioVolizzando”

Pur essendo un attento e valido osservatore, anche di me stesso, lascio sempre spazio a chi sa farmi notare qualcosa, con la costante che quel dettaglio in realtà lo avevo già rilevato o ancor di più, evidenziato magari a qualcun altro.

Recentemente infatti ho notato che mi sto “FabioVolizzando” su un tema ben preciso. Come il celebre conduttore, scrittore, attore etc… non perdo occasione per rimarcare la mia estrazione, il mio percorso, le mie origini.

Se Fabio Volo da anni ci ammorba con la storia del forno, del pane e di questo suo background, ultimamente mi sono reso conto di aver sottolineato in diverse occasioni sempre lo stesso fatto.

Come parziale giustificazione c’è il fatto che la GMG di Cracovia ha creato diversi collegamenti con quella del 2000 a Roma, e quindi in alcune circostanze mi sono ritrovato a parlare di Tor Vergata, della mia città, di quella università e del fatto di essere appunto un ragazzo di periferia. Il concetto di borgata, qui, è di difficile comprensione, pertanto è meglio rinunciare.

Ha notato questo pure un’altra persona, quasi in concomitanza me lo ha indicato, e abbiamo anche scherzato sulla coincidenza o meglio, sulla convergenza telepatica. In diverse interviste ho ricordato degli aspetti relativi alle mie origini e esperienze, in primis per ricalcare questo aspetto, ma anche per un altro motivo, molto più intimo e con un valore assoluto diverso.

Questo mestiere, soprattutto negli ultimi anni, è diventato a uso e consumo di pochissimi, e quando parlo di mestiere, intendo un lavoro che ti fa vivere, in modo almeno dignitoso. Chi accede alla “Casta” del giornalismo deve fare percorsi ormai quasi obbligati e soprattutto carissimi. Master e scuole specializzate che pochi possono permettersi, mondi che sono di fatto delle “mazzette” legali, spese enormi per comprarsi contatti o un piccolo pezzo di futuro.

Entrare in questo mondo implica un giro del genere, pochissimi sono quelli che accedono in maniera alternativa, o senza svenarsi. Io, ad esempio, sono uno di quelli, il mio caro amico Alfredo è un altro.

Non a caso però, in entrambi i percorsi, con le dovute differenze, c’è pure molto estero, un po’ come se paradossalmente, uscendo dall’Italia, la strada fosse meno legata in modo indissolubile ai soldi per potersi permettere certi corsi.

Questa differenza, allo stesso tempo, ti riempie di una soddisfazione diversa, perché fare questo per merito, coraggio e capacità, senza essere passati per alcuni passaggi, attualmente quasi obbligatori, ha un valore maggiore.

Ogni percorso segnato dall’impegno e dalla ostinazione ha un profumo più intenso, e il voler ribadire questo concetto quando capita è una tentazione a cui ancora non so sottrarmi. Perché il concetto è sempre quello in fondo: non sono nessuno, non sono figlio di nessuno, non conosco nessuno, non ho speso 20 mila euro per corsi e master di formazioni, e mi sono fatto il culo.

È una di quelle cose per cui vale la pena essere orgogliosi e ripetitivi, soprattutto quando il percorso te lo sei fatto davvero da solo, anche a costo di essere per un po’ una specie di Fabio Volo che ci parla sempre di forni, pane e impasti.

P.S. Se poi quelli che fanno altri percorsi hanno più chance di fare magari questo mestiere a vita, a differenza mia, beh è un’altra storia. “E che ci fai”, come dice il Catto.   

Tra beffe e coincidenze. “Perché noi siamo il Torino”

Volevo scrivere questo post ma non sapevo da dove cominciare, o meglio non sapevo come impostarlo, tanto ero consapevole che sarebbe stato criptico e di difficile interpretazione, eppure cercavo lo spiraglio giusto comunque. Ci pensavo fin quando oggi pomeriggio, intorno le 5.30 sotto la metro, alla mia fermata di Dundas, controllo la mail e vedo un messaggio da parte del ragazzo del Basso Lazio. Il nostro vagabondo, il nostro scalatore che va come un etiope e macina km.

Mentre scorrevo le sue parole sul mio display, sorridevo per svariate ragioni e qualcuno si sarà anche domandato il perché del mio divertimento ma non ho badato troppo alle mie espressioni facciali e mi sono riletto la mail di David. Ridevo per alcune sue frasi, e poi per una serie di coincidenze assolutamente folli. Ho smesso da tempo di credere che esistano delle coincidenze, almeno io continuo a sostenere che mi capitino cose abbastanza strane e non perché presto attenzione a sfumature e dettagli, ma proprio perché sono talmente grandi che non posso non coglierle.

Pensavo quindi al Catto che gioca la sua partita mentre io disputo la mia, sui rispettivi percorsi ci hanno tagliato la strade due canadesi, piuttosto normale nel mio caso, molto meno nel suo.

Le considerazioni che facciamo entrambi a fine giornata sono uguali, e le pensiamo senza rivolgersi all’altro, ignari completamente di quello che sta succedendo dall’altra parte del mondo. Il tutto si consuma con un finale da Torino. E quindi con quella amarezza e quel fastidio, quel senso di beffa strano, come quando dici “Ho visto tutto, che altro può succedere?” E invece devi fare marcia indietro e aggiornare il tuo quadernone di situazioni al limite dell’improbabile.

Tutto questo succede in una settimana in cui io ho cambiato la foto copertina su Twitter mettendone una che a me fa molto ridere perché la trovo ironica, amara ma vera: “La vita è come Juventus – Torino. E tu tifi Torino”. Una settimana in cui decido di cominciare a leggere il libro regalatomi proprio da David su Gigi Meroni…che il mio amico vergò nella prima pagina con una bella dedica molto calzante. Siamo il Torino. E se sei il Torino, aspettati situazioni al limite del paradossale e con colpi di scena che non ti agevoleranno.

D’altra parte, appunto, sei il Torino, e quindi, che cazzo pretendi?

Cinque mesi

Mentre il quinto mese si completa e scorre via in un piovoso e umido venerdì di metà giugno, mi rendo conto che per la prima volta in cinque occasioni, faccio fatica a riordinare tutto e a dire quello che è capitato dal giorno in cui ho pubblicato il post dal titolo “Quattro mesi” a oggi.

Di fondo, non ci sono stati eventi particolari, o forse sì se considero Rochester e la frontiera superata un paio di volte in 4 giorni, il punto però non sta lì, risiede nelle riflessioni esterne al lavoro, nei discorsi più di vita e di emozioni. E’ stato il mese in cui è venuta a galla una quantità di materiale emotivo che non credo abbia eguali in tempi recenti. Un mese pieno di riflessioni, e di flessione, mentale più che fisica. Un mese che ha segnato comunque almeno 4-5 momenti importanti e che mi ha riportato ad affrontare, sotto aspetti diversi, annose questioni.

È stato un mese molto più femminile, o meglio, più a tinte rosa, forse perché quelle nerazzurre sono andate in vacanza con la fine del campionato lasciando molto più spazio al resto.

I post scritti in queste ultime settimane vivono di luce propria, non c’è molto da aggiungere e non serve nemmeno tornare su alcuni aspetti sviscerati in varie salse. C’è da proiettarsi verso l’ultimo mese, perché quello precedente sta sfilando via e porta con sé tante cose, attimi, idee e convinzioni.

Ma anche incazzature e speranze. Penso che per ottimizzare o sviluppare gli ultimi giorni, per indirizzarli in un certo modo, avrei bisogno di altri due mesi qua, almeno due, invece ne ho davanti solo uno e tempus fugit.

Se torno alla stretta attualità posso dire di aver ottenuto il visto per i prossimi tre anni, di essere andato in America, di aver osservato le Cascate del Niagara by-night, di aver scoperto il banco dei salumi freschi da Metro, di aver tifato Barcellona come e più di un catalano, di essere stato solo una volta da Honest Ed’s e di aver traslocato in un appartamento del centro. In più ho capito quello che farò, almeno, così pare, per i prossimi mesi.

E poi? Beh sì, ho preso palo con un tiro da fuori area, però mi è venuta una voglia strana, di tirare verso il bersaglio grosso con più frequenza, magari una deviazione, una papera del portiere, un colpo di vento, che ne so, magari capita pure che segno, non necessariamente nella partita dell’anno ma comunque in una gara combattuta.

Vediamo, vediamo…anche perché quel giovanotto da Hong Kong mi sta stimolando e caricando in ogni modo essendo molto ispirato e particolarmente coinvolto in queste vicende.

 

Dalla tv al cinema il passo è breve, si sa, e allora mi sono messo a fare anche un po’ l’attore.

«Otto cose che ho imparato in Brasile»

di Alfredo Spalla

Ci siamo. È arrivato il momento di tirare qualche somma, far sapere a tante persone che sto bene e dire ciò che sento otto mesi dopo essere partito per il Brasile. Naturalmente grazie a David e Matteo, ai quali ho gentilmente chiesto questo spazio in prestito. Chi mi segue nonostante la distanza sa che, con una certa frequenza, scrivo su alcuni giornali e siti. Spesso parlo del Brasile, ma quasi mai riesco a raccontare il mio Brasile, la mia esperienza di vita. Beh, finalmente posso farlo. E in totale libertà. Per l’occasione ho scelto di fare un post che renderà felici gli amanti di Google Analytics e mi aiuterà a riassumere otto cose che ho imparato negli otto mesi lontano da Frascati. (Attenzione, post ad alto rischio di retorica!)

1. IL BRASILE NON È L’ITALIA

«Il Brasile non è l’Italia», l’affermazione, al limite del banale, è di quelle che ti farebbero esclamare: «Grazie al c….. che il Brasile non è l’Italia». Eppure, pensandoci bene, non è così scontata. Nel senso che il Brasile non è l’Italia nello stesso modo in cui il posto dove sei cresciuto non è lo stesso nel quale hai scelto di vivere. Per poter apprezzare una realtà differente, bisogna saper azzerare le proprie convinzioni, trascurare le proprie abitudini. Ho cominciato a sentire San Paolo un luogo familiare quando ho imparato a bere il caffè espresso più lungo del solito; quando ho rinunciato a cercare il Parmigiano D.O.P. e quando non mi sono più stupito davanti a una bottiglia di lambrusco venduta a 10 euro al supermercato. Per adattarsi ci vuole tempo: essere routinari non aiuta, essere italiani ancora meno. Siamo abituati bene, ma apriamo la mente con la stessa frequenza con cui Borghezio dice cose sensate.

2. LE PERSONE UMILI

Nella mia vita non mi ero mai relazionato con tanta frequenza con persone con un basso livello d’istruzione e/o con seri problemi economici. E non parlo di gente che guadagna 600 euro al mese con contratto a progetto, parlo di persone che lavorano 12 ore al giorno, guadagnano 270 euro al mese, mantengono famiglie numerose e vivono senza acqua corrente. Potersi confrontare, seppur superficialmente, con questa categoria di persone, mi ha insegnato che la forza di volontà non conosce fine. Capire, osservare, chiacchierare e non giudicare in base al portafoglio: non ci riescono nemmeno i brasiliani, che si danno del «povero» a vicenda. Riuscirci è stata una grande conquista personale.

3. A NOSSA CASA É ONDE A GENTE ESTÁ

C’è una canzone di Arnaldo Antunes, un cantautore brasiliano, che dice una cosa molto semplice e che nel tempo ho imparato a fare mia: «A nossa casa è onde a gente está, a nossa casa é em todo lugar» (https://www.youtube.com/watch?v=suJugh8-cts) . Tradotto brevemente: «La nostra casa è il posto in cui stiamo, la nostra casa è ovunque». Sarà che negli ultimi sei anni ho affrontato sei traslochi (Rocca di Papa; Campus; Via Gregoriana; Alphaville I; Alphaville II; San Paolo centro), ma sono giunto a questa semplice conclusione: ci sentiamo bene nel posto in cui viviamo l’amore. Il luogo fisico è abbastanza indifferente. In questo momento «la nostra casa», la mia e di Fabi, è a San Paolo, ma, come sapete, siamo piuttosto mobili. (sopra trovate il link del video, qui quello del testo della canzone: http://letras.mus.br/arnaldo-antunes/91579/ )

4. IL PORTOGHESE

Se c’è una cosa che ho imparato (e bene!), in otto mesi di Brasile, è il portoghese.

5. GLI ITALIANI

Nelle mie esperienze ho sempre cercato di evitare gli italiani all’estero. Chi viaggia con frequenza sa benissimo di cosa stiamo parlando. Un’altra cosa, però, è vivere all’estero. Nel bene o nel male siamo sempre una comunità, che si auto-sostenta anche all’interno di una città di 20 milioni di abitanti. Ci si aiuta a vicenda per il semplice fatto di avere la stessa cittadinanza. Non è poco, fidatevi.

6. NON FERMARSI MAI (E SAPERSI ACCETTARE)

Paradossalmente, il mio giorno più difficile in Brasile è stato il 14 luglio, la notte dopo la finale del Mondiale fra Argentina e Germania. Avevo appena concluso una grande esperienza professionale, ma ero già angosciato dal dover fare qualcosa di più. E non mi succedeva un mese dopo, ma a poche ore di distanza. Come ho detto a mia madre, penso che questa mia voglia di superarmi sia un grande dono, ma anche una condanna. In quest’aspetto penso di dover “maledire” mio padre: l’altro giorno via Skype mi raccontava, al limite dell’esausto, di sensazioni simili. Pretendere molto da se stessi non è sempre un bene, ma l’importante è sapersi accettare. 

7. UN ELENCO DI COSE PRATICHE (E MENO PRATICHE) CHE HO IMPARATO A FARE IN BRASILE

Crescere un cane; amare un cane; usare la carta di credito; girare video; montare video; parlare in radio; mangiare fagioli; usare la pentola a pressione; sopportare i centri commerciali; sopportare il caldo; convivere con il rumore; percorrere grandi distanze; usare Dropbox; rinunciare all’iPhone e passare a Samsung; sorridere alla cassa; risparmiare acqua; calcolare i fusi orari; scrivere di politica; trattare sui prezzi; mangiare meno pane; aspettare in fila; fare il churrasco il sabato; bere il succo d’arancia a pranzo; convertire rapidamente reais-euro; apprezzare il sushi.

8. A NON RISPONDERE A UNA DOMANDA IN PARTICOLARE

C’è un’ultima cosa che ho imparato a fare molto bene negli ultimi mesi, ovvero non rispondere alla domanda frequente: «Quando torni in Italia?». Ho imparato a prendere tempo, replicare con battute o mentire. La verità è che non rispondo perché non lo so nemmeno io. E perché per il momento non me lo chiedo ancora. Ma torno, state tranquilli che torno. Tchau!