Faccio un salto in America, anzi due

Certo, dopo l’ultimo post che altro vuoi scrivere? Niente. Anche perché rimango dell’idea di aver pubblicato qualcosa di fantastico e unico, per quanto molti possano pensarla diversamente e non condividere. Rimane indubbiamente il mio post migliore in sette anni. Sublime per tutto quello che sono riuscito a dire, liberatorio per il flusso dirompente che ad un punto ad iniziato ad avere.

Mentre pensavo a PF e Quattrodenari, perché l’ultima situazione ha qualcosa di analogo, soprattutto nel bad-timing della scelta, e del momento sfortunato con congiunzioni astrali non favorevoli, riflettevo sulle ultime due settimane, da mercoledì 13 maggio, che sono in fondo una summa della mia vita. Da protagonista assoluto e conoscitore discreto delle mie vicende, negli ultimi 12 giorni tutto mi è sembrato molto in linea con me stesso, calzante alle perfezione.

Disguidi, ritardi, beffe, fastidi, pensieri, ipotesi, speranze, sfortune, dettagli minimi che prendono una strada errata, tutte quelle cose che sommate creano un mosaico a me molto familiare. E mentre riflettevo su tutto questo e la constatazione è stata un amaro: “Non vinco veramente mai”, mi sono sentito meglio. Una ammissione che mi ha quasi tranquillizzato. Bene, bene così, ora procediamo. Perché il peggio, ovviamente, deve ancora venire. E ve lo scrivo stasera e ve lo confermerò fra un paio di settimane quando accadrà. Salvatevi sta frase.

 

Era una premessa dovuta prima di spendere qualche riga sul week-end a Rochester. Dieci anni dopo ho rimesso piede negli States, in una cittadina dello stato di New York, a tre ore di macchina da Toronto e ad un’ora e mezza dalle Cascate del Niagara. Due giorni sereni, di sole, di americanismo profondo. Dalle bandiere a stelle e strisce che si vedono ovunque, a dei classici paesaggi statunitensi, perché in fondo è così, l’America vera, è questa, non è New York, Boston o le goderecce Miami e Los Angeles. Sono queste case fatte di carta pesta, i canestri affianco al garage, il prato tagliato perfettamente, l’attesa della parata patriottica per il Memorial Day ed il barbecue sul retro da utilizzare il sabato sera con gli amici, esperienza che ho appunto vissuto.

Poi che altro? Sì, l’università di Rochester è magnifica, quei classici campus che vedi nei telefilm e ti esaltano al solo pensiero, mi sono ingozzato di hamburger ed hot-dog, avevo trovato moglie da Bill’s, un fast-food lungo lago e alla dogana non abbiamo ottenuto il visto che cercavamo. Strano. Un dettaglio, un piccolo codice modificato a febbraio ha fatto saltare tutto rendendo il viaggio inutile. Quella sensazione di beffa e rodimento, molto familiare che capitava puntualmente a qualche esame, oppure nella consegna dei documenti per la tesi. Per questo motivo, domani torno in America. Faccio un salto al volo e vediamo che succede. Così, per mettere un po’ di pepe ulteriore ad una settimana che onestamente non ne necessitava ma è tutto molto “da Matteo Ciofi” quello che sta succedendo. Tutto.

E sono veramente curioso di vedere fin dove si spingerà questo flusso, questa corrente, campo ormai solo per vedere con quale scientifica puntualità avverranno delle cose che io già so da prima, ma mi diverto così, a vivere solo per una ulteriore constatazione.

Ormai il livello è questo. Che bello.

 

NYC

Cinque anni fa questa serata qui era la vigilia del viaggio per antonomasia, quello che mi avrebbe portato oltreoceano nella capitale del mondo, nella città dei sogni. La mattina del 16 ero appena tornato da Milano dopo un viaggio in pullman drammatico ma la prima coppa Italia di Mancini l’avevamo conquistata, quel trofeo che sarebbe stato l’inizio di un ciclo ancora non terminato. Stanco da ore di pullman andai comunque in palestra, a pranzo da Pans and Company su Via Tiburtina e poi passò mio padre a prelevarmi da casa di mia nonna. Fra una valigia da chiudere e l’ultima cosa da tirare fuori dall’armadio, quella sera vidi la Fortitudo vincere uno scudetto pazzesco deciso da un tiro di Douglas che soltanto l’Instant Replay giudicò valido e quindi utile per la vittoria della F scudata. Amareggiato da questo, chiusi il bagaglio e feci finta di dormire perché l’emozione e le suggestioni erano troppe per prendere sonno. Questo viaggio era il regalo per i miei diciotto anni da parte dei miei genitori e con loro partii verso lo stato a stelle e strisce. La mattina successiva un Vito nero era sotto casa nostra pronto per condurci a Fiumicino, volo verso Zurigo e poi un altro aereo direzione America. Ricordo tanto, o meglio, ricordo tutto di quel meraviglioso viaggio, l’arrivo al JFK, il taxi e poi il tragitto verso la City, quel ponte che appena scollinato ti introduce in un mondo a parte. Resta certamente il viaggio più bello, quello più desiderato e certamente più costoso, un’esperienza magica. Trovarsi a New York equivale a sentirsi protagonisti di un film, sentirsi su un set cinematografico per tutto il tempo del proprio soggiorno. A New York per la prima ed unica volta in vita mia ho percepito quella sensazione di trovarmi al centro del mondo, dove tutto gira e corre ma soprattutto dove puoi vedere ogni cosa. Non c’è nessuna immagine che potrei scegliere per immortalare quella settimana, ho soltanto una miriade di foto dentro di me, in particolare quella percezione di alzare lo sguardo sulla quinta strada o in qualche altra via e vedere i grattacieli che ti sormontano e dei quali non vedi la fine. Quella settimana è stata magnifica e ringrazio ancora oggi chi mi ha permesso di fare questo viaggio, di vivere da vicino un mondo che è diverso dal nostro per ritmi e dimensioni, colore e vita. Desidero tornarci, qualcuno dice che lo farò il prossimo anno considerando che in famiglia ci sarà una ricorrenza importante e questa potrebbe spingerci nuovamente di là, a Fiabilandia, nella mia città preferita.