La mia estate – “Allora, ho visto i treni per Burlington…”

Ad inizio 2016, parlando con la Bionda, le dissi che questo anno sarebbe dovuto essere, almeno così lo prevedevo, per forza di cose, assestante. Recentemente ho dovuto correggere il tiro e l’ho definito didascalico. Questa estate è stata infatti ricca di insegnamenti, importanti o banali, ma tante piccole cose mi hanno evidenziato in molte circostanze la realtà dei fatti. Un esempio è la “Ragazza di Richemont”.

C’è poco da fare, uno ci può mettere tutta la volontà del mondo, ma se le cose non devono andare non vanno. A volte infatti, penso che impegnarsi sia importante ma quando il tutto non dipende da noi, bisogna anche lasciar stare la situazione, sedersi un attimo e vedere il flow. Tutto qui, perché poi si sviluppano dinamiche su cui non abbiamo semplicemente voce in capitolo.

Prima di arrivare però a questa beffa, una delle tante targate estate 2016, il 10 giugno inizia l’Europeo che suscita in me qualcosa di nuovo e mai vissuto, ossia lo smisurato ed estremo senso di appartenenza, di vibrante patriottismo che si prova quando c’è la Nazionale ma si vive fuori.

Mi piacciono le cause perse, gli under-dog, le sfide in salita, per questo l’Italia di Conte mi attira e in breve tempo mi trascina, anzi, sono uno dei pochissimi che crede in questo gruppo.

Mi invento qualunque cosa per vedere la partite degli Azzurri che capitano sempre in mezzo alla settimana e per via del fuso in orari lavorativi. Passiamo agevolmente il girone e nel frattempo la colonna scelta da Sky, “Happy” di Luca Carboni diviene la mia sigla mattutina, la prima canzone che parte dal mio I-pod mentre cammino verso l’ufficio.

Nel frattempo l’appuntamento del venerdì al Crocodile inizia a raddoppiare. Infatti se il venerdì si può bere liberamente fino alle 22, il mercoledì non c’è questo limite ed il prezzo di 2,50 dollari vale fino alle 2. Il caldo, il patio, ma soprattutto il gruppo di persone che raggiungono me e il mio compare diventa intanto sempre più grande. Il livello di aggregazione raggiunge vette notevoli, viene creato un gruppo su Facebook che in breve tempo conta 28 persone, tutte quelle che puntualmente si radunano intorno i tavoli del Crocodile. Occupiamo larghi spazi generando una discreta caciara ed è decisamente bello e divertente.

Parte di questo gruppo è francese, molti sono amici diretti del “Ragazzo di Versailles” ed in alcuni momenti mi sento uno dei protagonisti di Ritals, una simpatica web serie sugli italiani a Parigi. La frequentazione diventa assidua e noi non saltiamo un appuntamento, ma a proposito di Francia, contatto la “Ragazza di Richemont” che non vive a Toronto, ma a Burlington e lavora a Hamilton. Un po’ come se io vivessi a Roma, lei a Fiuggi ma ogni giorno deve raggiungere Frosinone per andare in ufficio. Il problema non è certamente quello delle distanze, i due weekend successivi alla nostra conoscenza lei è impegnata: con un farewell party prima e poi con un music festival per il quale aveva preso i biglietti da tempo.

Il tempo passa e conoscendo come vanno storicamente per me queste cose, si insinua nella mia mente uno strano senso di beffa. Vecchi retaggi mentali tornano a galla seppur con meno vigore, quando decidiamo di vederci fissiamo l’incontro per sabato 18 giugno. Io decido di andare a Burlingotn, e già l’idea di andare in trasferta, con il treno da Union Station mi esalta forse tanto quanto l’uscita perché rimango fondamentalmente un esaltato che vive di metafore.

La mattina così mi sveglio, controllo per bene gli orari dei treni, mi segno i due più adatti e le scrivo. La risposta però, non è delle migliori, perché nel frattempo la ragazza ha deciso di andare in Portogallo una settimana per raggiungere i genitori che sono sbarcati in terra lusitana da poche ore. L’improvvisa voglia è incontenibile, e mentre si scusa in tutti i modi prepara la valigia. Qualche ora dopo mi comunica che sta andando all’aeroporto e che tornerà otto giorni dopo, promettendomi che rimedierà. Non posso fare altro che prendere atto del tutto, augurarle buon viaggio, imprecare per ore contro il destino cinico e baro e vivere il mio sabato in modo totalmente diverso.

La beffa non mi sorprende, ma mi irrita. Non sono infastidito per come sia andata, ma per come vadano puntualmente certe situazioni che a volte sfondano il muro del credibile. Mi metto l’anima in pace ma con un po’ di difficoltà. Intanto teniamo il ponte radio accesso malgrado le cinque ore di fuso ed il wi-fi che non può soccorerla costantemente.

In tutto questo, mentre la “Ragazza di Richemont” si aggira per Lisbona, io perdo anche la mia spalla, poiché il “Ragazzo di Versailles” torna in Europa per tre settimane di vacanza. L’attenzione si sposta così su Italia – Spagna ma soprattutto sulla Partita contro la Germania in scena sabato pomeriggio 1 luglio. Per la prima volta, grazie anche all’orario, decido di andarla a vedere a Little Italy, non tanto per condividere l’atmosfera con gli emigrati ma per trovare qualche italiano vero. Sono 120 minuti di noia e sofferenza, io sono invece sempre più infastidito dai finti italiani da cui sono circondato. Sì, i nipoti di chi è venuto qui nel secondo dopo guerra e che guardano la partita vestiti di azzurro ma gridano in inglese. Avverto uno strano sentimento, in primis quello di essere il tifoso con la T maiuscola ma anche come uno di quelli più coinvolti perché io so ad esempio cosa significhi la Nazionale in Italia e soprattutto la partita contro la Germania.

Al gol tedesco, la reazione rabbiosa si sfoga contro questi italoidi che sembrano disperarsi ed io inizio a mandare affanculo chiunque, issandomi sul gradino di colui che ha il diritto di essere più arrabbiato. Continuo a ripetere “Ma che cazzo ne sapete voi!?” e forse ho ragione, perché al pari di Bonucci la mia esultanza è ben altra roba rispetto alla loro. Mi tremano le costole per due minuti a forza di gridare e la cassa toracica mi fa male per quasi tutti i supplementari. Dietro di me intanto si è posizionato un giovanotto che sostiene la Germania pur non essendo teutonico.

È con la ragazza, ma da un commento a mezza bocca, oltre tutto sul fallo del rigore l’ho sgamato e penso: “Hai scelto il posto meno adatto, bello…” Dopo il gol del pari, capisce chi ha davanti e si allontana di qualche passo per salvaguardarsi. I rigori sono uno stillicidio raro, il finto tedesco accenna ad esultare, quando sbagliano loro e noi rimaniamo a galla io sono già da un pezzo in piedi su una ringhiera di un ristorante e mi tengo ad un palo di sostegno della copertura esterna, un palo che tento di sradicare diverse volte preda di una rara trance agonistica. Resta il fatto che la roulette gira sul bianco e non sull’azzurro. Vincono loro, il pupazzo dietro di me esulta, io mi giro per aggredirlo immediatamente, non tanto per la vittoria ma perché è un deficiente visto che in una città enorme e internazionale come Toronto ha deciso di vedere una partita del genere a Little Italy. Una pizza in faccia se la merita, se l’è guadagnata direi.

Scappa, faccio per corrergli dietro ma è andato ormai, realizzo che sto facendo una stupidaggine, anzi una cazzata vera e propria, cambio direzione e prendo la strada verso casa. L’amaro in bocca è enorme, abbiamo sognato un po’, ma ora c’è spazio solo per una cocente delusione.

Mi rintano in quella tanto familiare idea che tutto stia andando male e soprattutto allo stesso esatto momento. Fortunatamente però, la sensazione ed il tunnel mentale in cui sono entrato sono piuttosto brevi rispetto al solito, ma anche questo, in fondo, non è proprio un caso.

La mia estate – “Forse non sono stato chiaro…”

La mia prima settimana tornato a Toronto coincide con l’ultima in Canada della “Ragazza di Woodbridge” pronta invece a fare la rotta inversa per trascorrere un anno a Roma. Giovedì 19 maggio mi trovo cosi per l’ultima volta a viaggiare verso il nord della città, stavolta però, non mi fermo come di consueto alla stazione metro di Wilson ma proseguo fino a Yorkdale, dove si trova uno dei più grandi centri commerciali di Toronto. È il momento dei saluti e degli in bocca al lupo. So bene che la sto per vedere per l’ultima volta, ne sono pienamente consapevole e di fondo ne sono felice. Mi è chiaro che la sua partenza sarà soltanto un bene, poiché è diventata per forza di cose un personaggio che genera più problemi e fastidi che altro. Allontanarla non è stato sufficiente, serve che lei se ne vada dall’altra parte del mondo, nella mia città, proprio come un anno prima, due giorni dopo che l’avevo incontrata.

Una settimana dopo, su questa replica della vicenda Fermata datata 2008-09, si pone però una pietra tombale. Sì, perché la ragazza inavvertitamente sbaglia a dire qualcosa, o meglio, fa saltare stupidamente un altarino che la smaschera nella sua pochezza, palesando il suo infinito egoismo. È lunedì, sono appena tornato dalla spiaggia dove sono stato per la seconda volta e in una conversazione su Whatsapp (che intanto ho reinstallato…) la sistemo rapidamente e le chiedo cortesemente di non cercarmi più. Inevitabilmente la questione mi accompagna per giorni, più che altro per il fastidio e il rendermi conto della bassezza di certa gente. Mi autocondanno a posteriori per il tempo datole in modo immeritato per diversi mesi ma evito anche di andare oltre. So molto bene che è una lezione importante, dal valore smisurato. La voglio vedere cosi, e me la tengo in tasca. Il risentimento svanisce in modo piuttosto rapido, probabilmente lo zero a cui si è ridotta in un attimo mi fa passare tutto con velocità inattesa. Il punto esclamativo sulla vicenda lo devo mettere giorni dopo però, in seguito al mio silenzio che lei non recepisce nel modo corretto.

Vengo infatti ricontattato e le rinnovo il mio invito a non scrivermi. Molto elegantemente le dico che non ho tempo per i bambini, quelli stanno fra di loro, e non con gli adulti. Il mio messaggio di risposta inizia con un “Forse non sono stato chiaro…” incipit che ancora fa ridere un paio di miei colleghi. L’infilzata questa volta basta e avanza. La “Ragazza di Woodbridge” sparisce per sempre dal radar, inghiottita dalla vita romana così affascinante per i giovani nordamericani e non riemerge più con mio immenso piacere. So bene, e lo dico oggi, che una situazione del genere attualmente non potrebbe più accadere. È successa come detto praticamente a distanza di sette anni, e ciò significa che se da Fermata in fondo non avevo imparato bene la lezione, un decennio dopo quando le dinamiche si sono fondamentalmente riproposte, non sono stato bravo a mettere le cose sul binario giusto. Ho sbagliato una volta, l’ho fatto una seconda, oggi non succederebbe più. Una delle conquiste di questa lunga storia o semplicemente di questa vicenda è proprio un approccio diverso a certe situazioni, come questa appena menzionata.

Fra i due ultimi nostri contatti però vengo a conoscenza della sliding door incontrata casualmente e non riconosciuta a fine aprile. E sì, giovedì 2 giugno infatti, complice la visita di un nostro collega di Montreal, ci riuniamo in un bar al termine della giornata lavorativa. Ad un punto, in modo casuale e forse inopportuno, esce fuori una conversazione dalla quale capisco con un pezzo dell’orecchio destro qualcosa di molto chiaro. Emerge infatti che la “Compagna di banco” ha iniziato a frequentare qualcuno, anzi, la situazione sembra essere già decollata nel modo migliore. La cosa mi turba, in parte ammetto che mi infastidisce anche. Non riesco a carpire il nome del ragazzo in questione, ne sento uno ma per una serie di ragioni non credo che sia lui l’indiziato. Torno a casa e scrivo immediatamente alla mia “Sorella acquisita” di Toronto e le dico cosa ho appena appreso, anche se in realtà l’aspetto più importante della vicenda è proprio il nome della controparte. Non mi serve molto per capirlo. Ventiquattro ore più tardi infatti è venerdì e andiamo come di consueto al bar. Si proprio quel bar su Adelaide e Duncan, con quel mio collega francese, quello della prima volta. Proprio loro infatti hanno ormai iniziato a essere appuntamenti fissi del venerdì dopo lavoro. Una tappa che ormai inizia a trascinarci in modo tale difficile da poter descrivere e giustificare.

Siamo nel caro e familiare Crocodile quando gli chiedo chi sia il neo-ragazzo della mia “Compagna di banco”. La risposta è abbastanza clamorosa perché il nome è quello che io avevo sentito la sera prima ed escluso a priori. Un personaggio ambiguo a dir poco, molto lontano da lei. Eppure è incredibilmente lui. Mentre sorseggio un doppio Cuba Libre, drink che è diventato il nostro cocktail ufficiale, riavvolgo rapidamente il nastro e la mente mi torna alla sera della prima partita di calcetto. Ripenso a noi due che incontriamo uno all’incrocio, il rapido e freddo saluto fra tutti, mi fermo e mi domando: “Ma come cazzo è possibile? Cioè, quella sera era il 26 aprile, oggi è 2 giugno, ma tutto questo quando e come è successo? Io sono stato a Roma poco dopo per 9 giorni, ma come si è potuto sviluppare il tutto?” La domanda mi accompagna per giorni fin quando mi toglierò il dubbio più avanti, a luglio.

La rivelazione mi turba, ma mi dà una spinta insolita. Una specie di reazione nervosa, non tanto di fastidio quanto di risposta mentale insolita. È la sera infatti in cui conosco attraverso amicizie comuni la “Ragazza di Richemont” con la quale converso amorevolmente. Mi chiede se può aggiungermi su Facebook, acconsento, le chiedo il numero e rimaniamo d’accordo per rivederci presto. Vado a casa soddisfatto e soprattutto mi dò una ideale pacca sulla spalla per come ho ribaltato il mood della serata che era iniziata in salita e con una rivelazione strana, ma che si è conclusa con un atteggiamento ed un piglio ben differente, qualcosa che solitamente non mi è mai appartenuto, soprattutto davanti ad una inerzia palesemente contraria.

Non me ne rendo conto, penso sia una roba capitata casualmente, il risultato o la miscela di un semplice fenomeno di causa-effetto.

Mi sbaglio però, perché invece è l’inizio di un viaggio.    

La mia estate – “Parola d’ordine: retrocessione”

La mia estate inizia un giovedì pomeriggio di aprile, precisamente il 7 aprile, data già presente nel mio immaginario per una vecchia storia dell’università, una surreale conversazione di anni fa fra me, David e il Presidente il quale ci salutò dandoci appuntamento proprio al 7 aprile successivo, data che puntualmente ogni volta ritiriamo fuori.

È ovvio che per “la mia estate” intenda qualcosa di non strettamente legato al calendario e nemmeno al meteo, ma a qualcosa di più personale senza scomodare esistenzialismi vari. Tutto nasce in modo piuttosto accidentale, e si racchiude in un rifiuto, quello che arriva dalla mia “Compagna di banco” che dice di no ad un bicchiere di vino da condividere dopo il lavoro.

 

La storia della mia estate inizia lì, e questa è la storia che proverò a raccontare.

 

Lascio la redazione, cammino verso casa mentre inizia a piovere all’improvviso, fortunatamente il percorso non è lungo e la pioggia è leggera. Varco la porta e mi siedo sul letto, mi addormento nel giro di cinque minuti. Non sono stanco, ma sento una fatica inspiegabile, una cascata di non so cosa mi è caduta addosso, ho un buco allo stomaco e tutto questo si rivela in una stanchezza strana. Mi addormento. Mi risveglio verso l’ora di cena stranito dalla quantità di ore che ho dormito in una parte della giornata non propriamente adibita a quel tipo di attività. Inizio a elaborare quello che è successo qualche ora prima e so bene, fin da subito, che c’è molto di più, molto sta venendo a galla, qualcosa di più antico e sopito ma mai sparito. So perfettamente che quello che è successo certifica la mia retrocessione, un parallelismo che nelle settimane precedenti avevo spesso citato, probabilmente sapevo che qualcosa stava per succedere. Il pomeriggio del 7 aprile è come il gol che arriva da un altro campo e azzera le tue minime speranze di salvezza. Mi sento esattamente così e inizio a ragionare su questo fatto. Sono molto meno lucido del solito, un dettaglio che per forza di cose significa tanto. Considerando l’orario, scrivo al “Ragazzo di Hong Kong”, al quale racconto il fatto, attaccandolo anche ad un certo punto, addossandogli delle responsabilità, parole dette tante volte ma che mai si sono rivelate reali.

Da quel momento in poi stacco tutto in senso pratico e non solo. Disinstallo Whatsapp che mi permette di isolarmi e mi trincero in un silenzio lungo che interrompo con una email soltanto, indirizzata alla Bionda. In quei giorni inizio a prendere coscienza di tante piccole sfumature e diverse realtà. Di base però, non ho voglia di ascoltare nessuno, perché preferisco evitare chiacchiere superflue e frasi retoriche. Entro in una acuta fase di egoismo, inteso come occuparmi proprio solo ed esclusivamente di me stesso. La modalità però mi piace fin da subito.

Venerdì 8 aprile, il giorno dopo, mentre sono al bagno della redazione, un mio collega francese, all’improvviso e senza un motivo valido, in italiano mi dice: “Andiamo al bar”. Rispondo sì senza pensarci, alle 5 salutiamo tutti e ci dirigiamo verso Adelaide e Duncan, in un posto in cui il venerdì fino alle 22.00 ogni cosa da bere costa 2.50 dollari. Uno dei protagonisti di questa storia è anche lui, il “Ragazzo di Versailles” con il quale mi dirigo verso il posto che sarà luogo centrale di questa estate, ma io sono ignaro ovviamente di tutto.

Nel frattempo, l’azione più sensata che mi ritrovo a fare è comprare il biglietto per andare a Roma a maggio. Sono incastrato da una serie di cavilli che mi obbligano ad usare le mie ferie entro il 31 maggio e dopo qualche ora passata a perlustrare su Volagratis diverse destinazioni statunitensi e centro-americane, decido di comprare il biglietto per tornare a casa 9 giorni. La data è il 5 maggio, coincidenza che certamente non mi esalta ma il prezzo è troppo vantaggioso e così lo prendo. Quattro mesi dopo torno a Roma e l’idea si rivelerà più che azzeccata.

Domenica 17 aprile intanto  a Toronto inizia di fatto la primavera, è una splendida giornata di sole, la prima veramente calda che ci spinge ad un brunch per pranzo e a distenderci su un parco davanti casa mia prima di concludere quel week-end con un funerale che riguarda un po’ tutti.

Inizio nel frattempo a giocare a calcetto, la prima partita è a 8, ed è l’ultima di un torneo. Mi diverto molto, riassaporo dopo anni il gusto di infilarmi gli scarpini e tirare due calci ad un pallone, farlo poi così lontano da casa ha un qualcosa di esotico che mi attira. Un mio collega che organizza questi tornei mi chiede se voglio prendere parte a quello successivo che comincia a fine mese, accetto senza esitazioni ed entro a far parte della squadra per un torneo di calcetto di dieci partite che finirà ai primi di luglio. La formula di questa lega prevede però la presenza anche di una donna in campo, una cosa molto canadese. La ragazza in questione, ironia della sorte, sarà quasi sempre la mia “Compagna di banco”, sempre presente da tempo a queste partite.

Martedì 26 aprile c’è l’esordio, perdiamo subito e non gioco nemmeno troppo bene. Durante la gara e dopo, mentre torniamo a casa, la mia “Compagna di banco” dice una serie di frasi strane. Ambigue o comunque insolite per lei. Dovendo fare entrambi lo stesso percorso verso casa, ad un punto mi chiede in modo del tutto inavvertito, prendendo spunto da una conversazione molto generica, di un mio eventuale interesse per una stagista che lavora da noi da qualche mese. Nego tutto, infatti non ho alcun motivo di raccontarle l’assurdo pomeriggio di fine febbraio quando ci sono uscito e lei la sera stessa doveva andare ad incontrare per la prima volta i suoi nuovi suoceri. Sorvolo con grande maestria e andiamo avanti, ma la domanda improvvisa mi spiazza per diverse ragioni e mi fa pensare per la prima volta a qualcosa di diverso, non solo a me, poiché racconterò il fatto ad altre due persone che arriveranno alla mia stessa conclusione. Tuttavia, arrivati praticamente all’incrocio davanti casa sua, ci imbattiamo in una persona di nostra conoscenza, più sua che mia a dire il vero. Due battute e via. Ci salutiamo, lei entra nel suo portone io proseguo per la mia destinazione. In realtà ho appena assistito ad una sliding door, non lo so, non me lo immagino, ma un mese dopo lo capirò in modo casuale e rimarrò molto sorpreso, quasi esterrefatto.

Il giorno dopo esco intanto con una ragazza italiana conosciuta sulla community Internations, quelle realtà virtuali utili a mettere in contatto italiani espatriati. È una serata piacevole, un unicum per certi versi, realizzo come sia bello poter parlare con una persona italiana all’estero. Ci aggiriamo per Little Italy e dopo una pizza, torniamo a casa. Penso che la rivedrò, ci diamo appuntamento per quando tornerò da Roma. Non la rivedrò mai più invece, ma la sentirò un’altra volta perché mi chiederà un aiuto per un suo amico.

La sera prima di partire per Roma, è un mercoledì e la Serie A di basket arriva all’epilogo finale. C’è poco da decidere per le posizioni alte della classifica, tutto invece è da stabilire per la retrocessione e la Virtus dopo un campionato scellerato ne è drammaticamente coinvolta. La domenica prima ho visto la partita in casa contro Torino, prima battaglia per la sopravvivenza, stravinta ma non sufficiente per essere salvi. Tutto si decide a Reggio Emilia in una impresa che appare titanica. La storia è ciclica e mi torna in mente quando nel 1993 la Fortitudo si salvò clamorosamente a Reggio guidata da Alibegovic, in una partita epica. Mi auguro che possa accadere qualcosa di analogo. Non posso seguire la partita perché buona parte della sfida coincide con il consueto meeting del mercoledì alle 3. Lascio la mia postazione con la Virtus davanti nel punteggio di poco. Finita la riunione, mi alzo per ultimo, so che nel giro di pochi secondi aprirò la pagina dei risultati della Lega Serie A e sarà come una roulette russa con la sensazione però che i colpi a vuoto saranno molti meno di quelli che ti fanno fuori. È così, Reggio Emilia vince, la Virtus per la prima volta in 89 anni di gloriosa storia precipita sul campo in seconda divisione. La tristezza e il groppo in gola mi pervadono, parto il giorno per Roma con un peso sull’anima di cui avrei fatto a meno e che mi riporta al terribile biennio cestistico 2003-2005.

La settimana e poco più a casa scivola via quasi senza averne memoria. Incontro subito Andrea ed Aurora, la sua bambina nata il 9 aprile, trascorro più tempo possibile con Alfredo che è la mia priorità suprema dopo il dramma da poco avvenuto. Insieme andiamo anche al “Siviglia” di Fiuggi a trovare David, ritiriamo addirittura la pergamena della magistrale che mette veramente un punto finale e pratico a quel pezzo della mia vita e festeggio in famiglia il compleanno di mio padre l’8 maggio. Torno a vivere la strana ed antica sensazione di rivedere una partita dell’Inter dal divano di casa, poco dopo però mi ritrovo a tirare la zip della valigia per ripartire.

Mi aspetta Toronto ancora una volta ed una lunga estate senza pause, una interminabile corsa che finirà solo a Natale. Una maratona che però mai avrei pensato potesse farmi scoperchiare finalmente dei punti critici bene in vista dentro di me.

Venerdì 23

L’estate è finita, oggi arriva mio padre a trovarmi per una settimana, fuori piove, dopo mesi salterò per la prima volta l’appuntamento con l’immancabile Crocodile Bar versione Friday, lunedì invece secondo i piani andremo alle Cascate del Niagara.

Oggi all’improvviso è diventato autunno, ieri sera a mezzanotte facevano 25 gradi, e 30 erano quelli percepiti, attualmente fa 14 e piove, con un cielo coperto al punto tale che non sembra voler dare nessuna speranza di miglioramento.

Poco fa infatti mentre andavo al supermercato mi è tornato in mente il mio primo giorno a ottobre scorso, il primo dal mio ritorno dopo il Sinodo romano. Stesso cielo, stesso clima quasi. E ripensando a tutto quello che ci fu dopo mi sono stranito. In compenso, e questo è un bene da non sottovalutare, non ci saranno discussioni con la ragazza di Woodbrdige ma anzi, fra un po’ avrò la strana e insolita situazione di vedere mio padre aggirarsi per Lo Scannatoio, tirato a lucido per l’occasione.

Ho la netta sensazione che questa settimana sarà un bel ricordo, una di quelle cose che fra anni ripenseremo dicendo “Ma ti ricordi quando a Toronto…”

Si porterà via la mia roba estiva, consegnandomi invece due maglioni. Un passaggio che segna appunto la fine della estate che è stata, di San Matteo che se ne è andato e di due amici che hanno appena svoltato a 30.

Mi sta venendo l’abbiocco del venerdì pomeriggio dopo pranzo e magari stasera, nonostante dovrò ripiegare sul materassino da campeggio, vado a dormire un po’ prima del solito, prima dei soliti venerdì, visto che tutto il Crocodile sentirà la mancanza di uno dei suoi due capi assoluti e supremi.

 

P.S. Il post quello tipico, visto e rivisto, quasi scontato, del riepilogo “Estate 2016” arriverà fra un po’. Troppo è successo, o forse nulla, o magari sempre le solite cose, ma devo riordinare i pensieri e poi lo scriverò perché questa estate fra 20 anni me la ricorderò per avermi reso il classico personaggio da romanzo di formazione.

 

Una estate personale ed emotiva iniziata paradossalmente il pomeriggio di giovedì 7 aprile.