Con la V nel cuore

Io c’ero quella volta lì. Avevo 17 anni, era il maggio del 2004 e in seguito ad una estate drammatica ci ritrovammo in A2 e a giocarci la finale playoff per tornare subito nella massima categoria contro Jesi, con il fattore campo contro.

Andai così al Pala “Ezio Triccoli”, partendo da Termini domenica mattina insieme ad Alessandro, altro virtussino dislocato fuori Bologna per assistere a Gara-1 che perdemmo dopo aver tentato una rimonta disperata nel finale.

Il viaggio di ritorno verso Roma fu però il giro d’Italia. Non essendoci un treno da Jesi verso la Capitale, salimmo sul pullman con i Forever Boys e risalimmo verso Bologna. Arrivati a Casalecchio fummo accompagnati alla stazione centrale da una famiglia di Granarolo e prendemmo l’espresso delle 0.43 per Roma.

Turni per dormire facendo guardia allo scompartimento e all’altro, doppia sveglia puntata per non farci trovare impreparati alla fermata Termini e per non correre il rischio di svegliarci a Reggio Calabria. Fu un viaggio tanto scomodo quanto lungo.

Andò così quella trasferta, negativo fu l’esito di quella serie poiché perdemmo e ci toccò un altro anno in A2. L’anno dopo non andai a Montegranaro ma conquistammo la promozione e da domani saremo nuovamente in campo per tornare in A dopo una stagione infinita e logorante.

Sì, perché nel frattempo lo scorso anno, il 4 maggio, complice un finale convulso e disastroso la Virtus è tornata in A2 e mai dimenticherò il magone di quella sera di 13 mesi fa mentre preparavo la valigia per tornare a Roma e mi veniva da piangere per l’epilogo di quel campionato.

Ho letto una lettera di Valentina Calzoni pubblicata giorni fa su Bologna Basket dal titolo “V come amore”, e un po’ tutti noi ci siamo ritrovati in quelle parole. Soprattutto in quel “noi vogliamo vincere” che suona come l’urlo di battaglia di un popolo che è abituato ad altro. Manca poco.

Noi ci crediamo.

Avevo scritto queste righe il 12 giugno, poco prima che la serie finale con Trieste iniziasse. Volevo pubblicare questo post ma poi mi sono impigrito e non l’ho più fatto, anche a causa di un tempo che scarseggia sempre più. L’ho tenuto da parte e speravo di tirarlo fuori presto, come cappello a qualcosa di celebrativo che fortunatamente mi ritrovo a fare adesso.

Dopo 13 mesi ed una stagione interminabile, la Virtus è di nuovo in A. Questa è la notizia di giornata, e questo è un altro di quei momenti che fra anni mi ricorderò di Toronto, per il coinvolgimento emotivo e per le sensazioni provate.

Una annata di cui porterò tanti ricordi, dallo scetticismo iniziale figlio dell’amarezza ancora non svanita, a quel sentimento che è cresciuto mese dopo mese grazie ad una squadra che ha fatto un miracolo vero nel riavvicinare il popolo virtussino alla sua squadra.

I playoff, ed il percorso nella fase finale, sono stati due punti che hanno creato una sinergia rara fra tifosi e giocatori. Una voglia feroce di arrivare in fondo ed una sequenza di emozioni inaspettate.

La squadra è cresciuta partita dopo partita, un escalation di istanti che hanno fatto maturare i giocatori fino al punto di sembrare veramente imbattibili. Il pubblico si è stretto come non mai, complice il ritorno nel vecchio e amato PalaDozza di Piazza Azzarita, a tormentoni come l’”Amour Toujours” di Gigi D’Agostino, colonna sonora d’annata o alle maglie nere seguendo l’hashtag #allinblack.

Si è creata una magia che ha spinto la squadra fino al successo finale maturato oggi contro Trieste. Un 3-0 secco che lascia spazio a poche chiacchiere, considerando anche l’impresa di sbancare il palasport giuliano dopo che per 22 partite nessuno era uscito da lì con un successo in tasca.

Ho seguito i playoff con una passione crescente, sempre al lavoro e mai a casa, e senza la possibilità di vedere nulla. Mi sono fatto accompagnare dalle cronache di Radio Bologna Uno e dai boati del pubblico in sottofondo, ed oggi, a otto minuti dalla fine, mi sono andato a rinchiudere nella cabina radio perché l’ansia mi stava divorando e non potevo più rimanere in mezzo alla gente, nel caso specifico ai colleghi.

Il finale punto a punto è culminato con la tripla di Spissu dall’angolo del +4, momento in cui so bene che mi è venuto quasi da piangere.

E poi? Avrei voluto abbracciare qualcuno ma non c’era nessuno e mi sono sentito paradossalmente solo come non mai in un momento di gioia ed esaltazione. Forse perché le emozioni, in fondo, vanno assaporate e condivise, o anche perché ero contento per il bambino che esattamente 16 anni fa, il 19 giugno 2001 festeggiava lo scudetto numero 15 e il Grande Slam della Virtus Kinder di Messina e Ginobili.

Ero contento per la squadra, ma in fondo per me, e mi sono rivisto lì mentre con la canotta numero 7 di Abbio cerco di schiacciare nella palestra della scuola “Lombardo Radice”, dandomi la spinta finale nel terzo tempo con il piede sul muro per arrivare al ferro.

Oggi ha vinto la Virtus e tutti quelli che hanno una V nel cuore.

Fino al confine

Da giorni continuo a vedere su Youtube video relativi alla finale di sabato sera, così come scorrendo la timeline di Twitter leggo messaggi e prese in giro ai poveri tifosi juventini. Tutto è normale, e di fondo giusto, trovo assurdo invece chi ci rimane male o chi dà degli sfigati ai tifosi avversari e a chi sabato scorso ha tifato Real e festeggiato, come il sottoscritto.

È fuori luogo l’ondata di persone, giornalisti, appassionati e tanti altri che reputano questo modo di fare sbagliato e insensato, in nome di un finto fair play e di un ambiguo amor di patria.

Il tifo, non ha nulla di razionale, è passione, emozione e fazione. Chiedere agli italiani di essere sportivi o di essere felici per un successo del vicino è veramente andare contro la nostra storia e ciò che siamo. Ma non solo a livello di tifo, ma proprio dal punto di visto antropologico.

Siamo un paese che non si sopporta in maniera cordiale, a volte anche meno, popoli che si detestano da secoli, e il fiero campanilismo di un tempo, quello che si annida dai tempi dei Comuni, risiede oggi nello sport nazionale per eccellenza.

Siamo così, e chiederci un cambio di mentalità è francamente ridicolo. Chi è juventino è triste per l’ennesima sconfitta europea, chi tifa altre squadre, in particolare le storiche rivali, ancora gira per strada con un sorriso felice.

La Juve è antipatica a tutti per quello che rappresenta, non perché vince. In Italia, da decenni, negli stadi di tutto lo stivale, se una squadra vince con una svista o un aiuto, dalla tifoseria avversaria si alza puntuale il coro “Come la Juve, voi siete come la Juve”. Questo coro dice tutto e azzera ogni discorso. Per il tifoso italiano non juventino, i bianconeri da sempre rappresentano qualcosa di non corretto, anti-sportivo e non legale.

Per cui, diventa ancor più difficile avere simpatia per loro anche in un contesto europeo. Non ho mai tifato una italiana nelle coppe e lo dico in modo chiaro: sostenere chi odio ogni domenica è insensato e non coerente, tifo per chiunque, ma non per chi da anni mi prende in giro o si prende gioco di me. È umano ed una logica e naturale reazione.

Ho tifato contro la Juve e quindi per il Real, come due anni fa per il Barcellona, come nel 1998 sempre il Madrid, quando esultai per la rete di Mijatovic, poche settimane dopo il famoso scippo del fallo di Iuliano su Ronaldo. Avrei dovuto tifare per loro in quella occasione? Per chi in maniera palesemente schifosa e pilotata aveva provato a non far competere la mia squadra fino in fondo per quel titolo? No. La riposta è no.

Ho “tifato” per loro, fra mille virgolette, nel 2003 perché davanti alla Juve c’era il Milan, per me senza dubbio il nemico numero uno e la squadra che venti giorni prima ci aveva eliminato.

Mai sostenuto una italiana e mai lo farò, nemmeno se avesse un ritorno per me o l’Inter. Capitò nel 1995 in Ajax-Milan, quando un successo dei rossoneri ci avrebbe potuto portare in Europa aprendo un posto in più per la Uefa. Tifai contro per 90 minuti ed esplosi al gol di Kluivert. Avevo 8 anni.

Oggi ne ho 30 e continuo a fare esattamente la stessa cosa. Nel frattempo ho gioito per i successi dell’Inter, quelli che gli juventini cercano di replicare, ma mai avrei chiesto e sperato in un loro supporto nel 2010. Fa parte di un codice piuttosto chiaro, e così come non ci rimango male se qualcuno tifa contro l’Inter, allo stesso tempo mi sembra assurdo che la contro parte ci rimanga male se tifo Real.

Sono contento che abbiano perso. E lo dico perché so quale delusione stanno vivendo, e saperli così è bellissimo. Non è sadismo, o cattiveria: è tifo, punto.

Per gli interisti, soprattutto in questi anni neri, poter difendere l’orgoglio di essere gli unici ad aver compiuto l’impresa del triplete ha un significato profondo che forse ci giustifica ancora più degli altri. Non capisco infatti tutta l’attenzione e la gioia dei tifosi napoletani, e nemmeno il caso Higuain è sufficiente per spiegare tale approccio alla sconfitta della Juve, ma va bene così. Come detto, ognuno è libero di fare ciò che vuole, mentre qualcuno la dovrebbe smettere di fare morali da quattro soldi.

Come la stampa italiana che da febbraio abbina il nome della Juve a quello triplete per ricordarsi poi, a fine anno, che non è così semplice portare tre trofei a casa, un pensiero che dovrebbe ogni volta dare ulteriore prestigio e valore all’impresa a tinte nerazzurre del 2010.

Evito di fare esagerazioni additando la stampa come “serva”, o schiava del potere juventino, no, non lo è, ma di certo loro vengono sempre trattati diversamente, con i guanti e pompati all’inverosimile.

Peccato però che poi finisca come tutte le altre volte: con gli altri che alzano le coppe, loro che piangono e noi che festeggiamo. E sì, perché è meglio vivere di ricordi per ciò che si è fatto, piuttosto che di illusioni per quello che non si riesce mai a fare.

#Finoalconfine.

Pure stavolta. Come sempre.

Tutto quello che ci serve

Scrivo a qualche ora da Inter – Napoli, perché in fondo penso che si possa iniziare a commentare questa stagione, ma soprattutto le ultime settimane ed il triste epilogo di una annata buttata via quando Ferragosto distava otto giorni.

L’ennesimo fallimento di questi ultimi anni post-tripletiani è stato un manuale di scelte scriteriate e mosse scellerate, un bignami di tutto quello che non si deve fare o quanto meno ripetere.

Mentre si riconcorrono le voci su chi sarà il nuovo allenatore, penso che sia opportuno distribuire responsabilità e colpe un po’ a tutti, perché nessuno si può salvare da questo altro calvario, se non i tifosi che hanno battuto un record dopo l’altro per affluenza e calore.

La madre delle disgrazie rimane quella di domenica sette agosto, quando Mancini firma la rescissione. Un fulmine a ciel sereno per la rapidità e i modi, ma era chiaro il malessere del tecnico, soprattutto nel momento di transizione (anche questo piuttosto repentino) fra Thohir e Zhang,

La prima domanda che ancora mi pongo è perché un presidente in uscita, o prossimo a diventare socio di minoranza, debba decidere questo cambio e raddoppiare il disastro con un sostituto impalpabile?

Io spero che Zhang gli abbia dato un permesso come per dire: “Vai avanti tu su questo aspetto, tu sai meglio di me e io mi fido di te”. La storia ci ha detto, qualora fosse andata cosi, che Zhang ha fatto male a fidarsi perché Thohir, oltre ad avere per mesi preso tutti in giro su “Mancini come punto fisso” ha dimostrato di non aver capito l’Inter ed il calcio italiano dopo tre anni di presidenza. De Boer è stata una decisione sua, attratto da quel mondo Ajax che funziona in Olanda ma non in Italia, e da un personaggio che era condannato fin dall’inizio a fallire, e forse avrebbe sbagliato tutto, non così miseramente, anche se fosse salito in sella due mesi prima.

Il Pioli “Salvatore”, quello scelto con il casting, era disponibile anche a quel tempo, si decise di virare su altro, sulla novità, sul colpo a sorpresa, sulla pazzia.

Da lì in poi eè stato un lungo percorso di figuracce, dove sono state inanellate partite penose, con De Boer lasciato in pasto a tutti, e una società che oltre a fare proclami sul futuro non riusciva a fare quadrato.

Fuori De Boer dentro Pioli. Un partenza con normali alti e bassi, poi la rincorsona grazie ad un calendario in discesa ed un campionato che alla fine della prima di ritorno era già deciso con 3 retrocesse e 10 squadre in vacanza. Una vergogna, una tristezza inaudita.

Pioli ha fallito il quarto secco con la Lazio di Coppa Italia, la partita con la Juve in cui tutti hanno fatto una figura pessima per le polemiche inutili, e ha toppato la sfida interna con la Roma con l’esperimento del “quadrato” a centrocampo che ha solo creato confusione.

Svanito il sogno di rimonta Champions, una utopia che per alcune settimane aveva dato benzina extra all’ambiente, la squadra si è dissolta del tutto, dopo un normale e accettabile pareggio a Torino.

Sconfitta con la Samp e poi burrone emotivo con il primo tempo di Crotone che rimane per me quello peggio giocato, considerando anche il non-valore degli avversari, degli ultimi 25 anni.

La squadra si è persa, Pioli non ha saputo tenere la barra dritta e motivare un gruppo che svanita l’impresa terzo posto si è lasciato andare.

Pioli ha delle colpe su questo e non si può negarlo, sempre meno però di chi ha ripetutamente mostrato di non essere professionista. Crotone rimane l’esempio più eclatante per me, perché anche se non lotti per la tua maglia, o per il tuo stipendio, farlo per te stesso, perché ti stai facendo umiliare da un avversario in un certo senso impresentabile e dovresti avere almeno una reazione personale, anche di nervi.

Questo vuoto che si annida in chi scende in campo ultimamente è un segnale pericoloso e davvero scoraggiante. Vedere gente priva di tutto è quanto di peggio, perché sì, le grandi squadre sono fatte sempre anche da grandi uomini e gente di personalità e carisma, valori che qua scarseggiano in maniera evidente.

Rimango dell’idea che arrivare in Europa sia un dovere, sempre e comunque e le sciocchezze sul fatto che questo poi cambi la stagione e provochi fastidi sono inaccettabili.

Per preparare un preliminare con lo Stjarnan non devi iniziare un mese prima, perché vale, anche per la qualità dell’avversario, come una amichevole in Trentino con una compagine di dilettanti.

Si parla ormai da settimane del dopo-Pioli, proprio perché questo crollo verticale ha dimostrato che ha perso la briglia della squadra e non può più rimanerne al comando.

I nomi sono i soliti, sfortunatamente sono pure difficili, per varie ragioni. A me il più fattibile per ovvi motivi sembra Simeone, che ha forse terminato il suo ciclo a Madrid. Vorrei lui sopra chiunque altro perché la storia ci ha spiegato spesso che all’Inter funziona la dittatura e non la democrazia. Il sergente di ferro e non lo zio buono.

Da Herrera a Bersellini, passando per Mourinho, Trapattoni e Mancini, la guida di una Inter vincente ha sempre fatto rima con condottieri e Simeone incarna al meglio ciò di cui l’Inter ha bisogno. Carisma, prestigio, esperienza, credibilità e appartenenza: Simeone è l’uomo che serve, con quelle qualità utili anche per colmare le palesi lacune societarie.

Sì, perché di questa dirigenza è dura fidarsi. Per come non è stato protetto De Boer, per come è stato scelto Pioli, per come si sia pe permesso a Icardi di pubblicare una biografia senza controllo, per mille voci che mai sono state messe a tacere prontamente, per tanta confusione e ruoli indefiniti come quello di Gardini e quello molto superficiale e di pura rappresentanza di Zanetti.

A Ausilio intanto è stato rinnovato il contratto fino al 2020, colui che nonostante mille rivoluzioni negli ultimi anni è sempre rimasto e sembra intoccabile. Personalmente, qualche dubbio su di lui inizio a nutrirlo, forse sarebbe il caso di rimpiazzarlo e di ripartire veramente zero. Sfruttare la rivoluzione cinese sarebbe un bene, fare piazza pulita di un po’ di gente, anche dietro la scrivania, dopo il bel Bollingbroke o magari il fantasma Williamson.

Grandi squadre hanno come detto grandi uomini, ma non solo in campo, anche negli uffici, persone abili e in grado di guidare un club di tale valore.

Sorrido se penso ancora a chi buttava la croce su Branca, in questi anni abbiamo visto di tutto e ogni volta sembra che si riparta da zero per commettere in seguito gli stessi sbagli. Ci sono i soldi ora, e questo non è dettaglio, ma anche questa stagione ci ha già fatto capire come poi sia importante saperli spendere in modo adeguato.

Serve molto a questa Inter per tornare a certi livelli: investimenti, dirigenti, un allenatore e giocatori adatti. Serve molto per non dire tutto, così come un po’ di sano interismo, un po’ di senso di appartenenza che negli anni è andato a scomparire.

C’è bisogno di tanto insomma, iniziare a lavorare sul domani con anticipo potrebbe essere un passaggio determinante, con la speranza che le lezioni passate siano state veramente comprese.

È tempo di una nuova fase, ma una vera, dopo tre proprietà e dieci allenatori in pochi anni, è tempo di ridare all’Inter ciò che merita e a chi la segue incondizionatamente qualche nuova emozione.

Sulla gestione Gabigol bisognerebbe scrivere un post lungo giorni, ma non ho troppo tempo per approfondire misteri di tale grandezza.

Non al secondo anello verde

Ho sentito abbastanza e letto fin troppo di una storia chiara e con responsabilità evidenti, motivo per cui credo sia in fondo anche difficile ricamarci sopra.

Nella vicenda Icardi-Inter-Curva ci sono alcuni verità incontestabili come le seguenti ad esempio.

Punto uno

Come si può scrivere una biografia a 23 anni? È evidente che stiamo parlando di un qualcosa di fuori luogo per temi e contenuti. Può essere una scelta pubblicitaria o economica interessante, ma il personaggio in questione fa la figura dello sciocco, poiché chiunque si sarà domandato: “Ma cosa avrai già da raccontarci?”. Il capolavoro letterario è quindi oggettivamente insensato.

Punto due

La società ha notevoli responsabilità su questa vicenda. Non ha vigilato in modo adeguato. Se nessuno sapeva che Icardi era in procinto di rilasciare una propria autobiografia è colpa dell’Inter. Ultimamente si sono incontrati spesso considerando le trattative di rinnovo ma è evidente che l’opera non è mai stata menzionata. Un libro del genere per forza parlerà di Inter, società per la quale il giocatore è attualmente tesserato. Il club avrebbe dovuto controllare ma non è successo. Male, anzi malissimo. Se nessuno sapeva non è una valida giustificazione. È superficialità. Icardi rimane il colpevole principale, l’Inter segue a ruota. Ora non so se qualcuno abbia buttato un occhio su quella di Zanetti tre anni fa. Non lo so, è pur vero che sul capitano storico, conoscendo il livello morale della persona, magari la tentazione di non controllare nulla c’è stata.

Punto tre

Appurato tutto questo e additati i responsabili con le dovute colpe, subentra la Curva.

La Nord viene additata nel passaggio del libro contestato in modo chiaro. La ricostruzione non sembra perfetta ma in realtà è un dettaglio. Sì, perché in fondo ci interessa relativamente stabilire chi era stato più cattivo in quel pomeriggio di Reggio Emilia, se i tifosi o Icardi stesso. Resta un fatto, il contentino di dare la maglia a un bambino, in quel contesto specifico, profuma di paraculata ma la storia finisce con uno scontro verbale accesso. Bello, brutto, giusto o sbagliato, è un episodio. Un confronto. E potrebbe finire tranquillamente lì.

Il problema invece è quello che viene raccontato nelle righe successive alla descrizione del misfatto. Icardi, parlando a non si sa chi, dice di far recapitare agli esponenti della Curva un suo messaggio e minaccia gli ultras nerazzurri. Nella sua versione sono infatti colpevoli di aver tolto la maglia al bimbo, e dice loro che a lui non costa nulla far arrivare dei criminali dall’Argentina per ammazzarli tutti. Il paragrafo termina con Icardi stesso che ammette di aver detto frasi offensive e esagerate.

Il fatto, datato febbraio 2015, non passa inosservato dai tifosi più accesi e non mi sento di condannarli. Al di là della ricostruzione, che per la Curva oltretutto non corrisponde al reale ma tenta di mettere in cattiva luce i tifosi, il problema consiste nella rivelazione delle minacce. Chiunque si sentirebbe toccato, o almeno infastidito da certe frasi. Anche il signore del primo anello rosso avrebbe una minima reazione se Icardi arrivasse a dire (esempio fantasioso): “Quelli mi fischiano sempre, li faccio ammazzare”

Magari il signore la farebbe finire lì, iniziando a considerare il 9 argentino un personaggio discutibile. La Curva invece la pensa diversamente e risponde.

Nel primo comunicato, con toni decisi ma mai volgari (il “pagliaccio” alla fine non mi sembra da catalogare come un insulto così offensivo) si espone la versione dei fatti della Curva e si lancia un appello: togliere la fascia da capitano al centravanti. Punto.

La Curva ha tutto il diritto di replicare su una questione nella quale viene tirata in ballo e su questo non penso si possa discutere. L’indomani però, giorno della partita, Icardi viene bersagliato dalla Nord. Una reazione facile da immaginare, i toni si inaspriscono, nel frattempo la partita inizia in un clima che non è certamente il migliore. Prima della gara invece, Zanetti si esprime a nome della società e annuncia provvedimenti, ma non potrebbe fare diversamente. Avrebbe potuto aspettare? Sì, ma non mi sembra questo il problema. Zanetti, anticipando una punizione a Icardi, ammette di fatto la colpa della società e la mancanza del club. La domanda a questo punto è anche un’altra: tutto ciò succede solo perché la Curva chiamata in causa reagisce e porta all’attenzione popolare il problema? Probabile. Rimane il fatto che la Curva fa da megafono, ma di nuovo, il problema non è questo. L’aspetto principale è quanto sia inopportuno tutto quello che si riconduce a Icardi. La biografia, cosa racconta, il rivangare vecchi episodi aggiungendo dettagli che indubbiamente avrebbero comunque causato dei dissapori.

L’Inter intanto gioca una partita mediocre. Sufficiente nel primo tempo, inammissibile nella ripresa, soprattutto dopo il gol. Perde meritatamente per quello che ha fatto durante i 90 minuti, non per il clima che magari non ha aiutato ma che ha pure una percentuale bassissima nella figuraccia nerazzurra. Spostare l’attenzione sul contesto o additare qualcuno come colpevole dell’insuccesso casalingo significa non voler riconoscere i problemi e le difficoltà tecniche e tattiche di una squadra in totale confusione.

La polemica non finisce, Icardi che ha sbagliato anche un rigore (forse condizionato? I numeri dicono anche che ne ha sbagliati 3 negli ultimi 4, quindi forse non è proprio un rigorista infallibile) rimane sul banco degli imputati. Il lunedì in un faccia a faccia di 70 minuti con la dirigenza non gli viene tolta la fascia ma viene multato. In più, in occasione della ristampa si impegna a modificare o addirittura a togliere (non è ancora chiaro) le pagine incriminate. Una scelta all’italiana, così, inutile e insensata visto che la bomba ormai è scoppiata e di danni ne ha fatti fin troppi.

La Curva nel frattempo rimane della propria posizione e delegittima simbolicamente Icardi che non sarà più considerato il capitano. Fine della storia.

Ho letto molte critiche alla Curva, colpevole di aver creato un clima da “guerra civile” e di non aver supportato la squadra. Mi pare una considerazione non obiettiva. Dare la colpa alla Nord mi sembra sbagliato anche solo per un motivo.

San Siro nella sua lunga storia ha distrutto a livello mentale ed emotivo decine di giocatori con mugugni e fischi e sappiamo bene che chi si infastidisce al primo tocco sbagliato non è certo il ragazzo che sta in curva, ma qualcuno che si siede nei restanti tre quarti del Meazza. Ora, condannare la Curva come colpevole del mancato sostegno mi sembra assolutamente folle. Non esistono “tifosi più tifosi” degli altri, ma di certo delle 800 persone che erano a Praga tre settimane fa per vedere una figura vergognosa, molti erano della Curva e non del primo anello arancio o rosso, o quelli che stanno davanti alla tv sempre (e per scelta) e si permettono oggi di accusare la Nord.

L’estremo sostegno della Curva, così come le meravigliose coreografie sono da anni un vanto per tutti i tifosi interisti. La Curva è stata condannata in passato per tanti episodi scellerati che tutti ricordiamo, additarla ora, per un fatto del genere, dopo che un ragazzo racconta delle sue minacce verso certa gente, a me sembra ingiusto e anche inappropriato.

Non devo difendere nessuno, non mi va e non ho interessi. L’unico che ho è il bene dell’Inter. Icardi non mi fa impazzire, ne come giocatore e ancor meno come personaggio pubblico, il teatrino estivo per il rinnovo è stato rivoltante ma nessuno gliel’ha fatto pesare e qualche ragione in tal senso ci sarebbe anche potuta stare. Se segnerà sarò felice, se andrà via domani non sarà un problema e non ne sarò di certo addolorato.

A me interessa l’Inter e che la mia squadra vinca, e in questa storia, onestamente, prima della Curva, ammesso che poi abbia veramente delle colpe, i responsabili vanno cercati altrove.

Ma non al secondo anello verde.