Sola non la lascio mai

L’ultima volta la ricordo bene: 3 novembre, un sabato di autunno che stava per concludere una delle settimane più brutte della mia vita. Per 90 minuti mi dimenticai di tutto ed intorno alle 23 ero contento, e se c’era una cosa al mondo che poteva risollevarmi era veramente solo quella: battere la juve, nel suo nuovo stadio per primi, e farlo in rimonta con una partita incredibile in cui Tagliaventus fece di tutto per farcela perdere.

L’ultima volta a Milano invece era aprile 2010, l’ultima curva prima del rettilineo che ci fece entrare nella leggenda. Li ero contento, per tanti motivi, e lei c’era ancora. Se ne sarebbe andata due anni dopo, prima di quell’altra vittoria appena citata.

Ne è passato di tempo e prima o poi il numero giusto sulla ruota esce ed io ero convinto che potesse essere proprio oggi. Ancora di più dopo l’imbarazzante giovedì europeo. L’Inter è così, la sua soave follia consiste in questo, in quel modo unico di saper sorprendere sempre e comunque. Ieri mi è tornato il novembre 2003 quando in sette giorni vincemmo 6-0 con la Reggina, perdemmo in casa 5-1 contro l’Arsenal e poi schiantammo la juve a Torino senza mezza squadra per 3-1. Sentivo delle analogie con quella settimana, ma soprattutto sapevo che sarebbe stata ben altra storia rispetto a giovedì.

Meritata, giusta e conquistata nel modo più bello. Giocando meglio, correndo tanto, lottando e non mollando anche dopo l’ingiusto svantaggio. La squadra sta crescendo, nel possesso e nel creare occasioni da gol. Ha concesso poco oggi a una juve stanca, sbadata, a tratti quasi svogliata, forse un po’ troppa presuntuosa. Tutti hanno giocato una grande partita, inimmaginabile quella di Icardi che ha infiammato San Siro, tornato per una sera ai fasti di qualche anno fa per pubblico ed entusiasmo trascinante.

Bello, tutto molto bello per dirla alla Pizzul, come la presenza di alcuni eroi leggendari in tribuna, Gabigol che si è goduto lo spettacolo, Materazzi che alza la sua maglia al centro del campo mentre i tifosi juventini lo bersagliano. Bella la coreografia realizzata dai bambini all’ultima festa della Nord, ma soprattutto il gusto di vincere in rimonta ribaltando tutto in pochi minuti e annullando subito il vantaggio prima di finire in un burrone emotivo.

Che possa essere l’inizio di un nuovo viaggio ce lo auguriamo tutti, la qualità c’è, la voglia speriamo, serve tempo, inevitabilmente, e di tempo non ce ne è, ma vittorie come queste cambiano certe prospettive e devono essere sfruttate per fiducia e consapevolezza, due ingredienti necessari ma che si ottengono solo con giornate così.

Una magnifica domenica di fine estate che ci fa ben sperare, concediamoci qualche bel pensiero per un po’ di ore, c’eravamo quasi dimenticati del sapore di batterli, godiamocelo per un po’ adesso, anche perché è gustoso come poche cose al mondo.  

InterJuve2-1000x600

Da Berna a Birmingham

Da Berna a Birmingham. La traiettoria è questa, inizia il 10 maggio del 1989 e termina il 19 maggio del 1999. Dieci anni, in mezzo un dominio mai visto prima, un impero calcistico difficile da poter replicare, quasi impossibile da superare.

Dalla Svizzera al centro dell’Inghilterra, due finali di Coppa delle Coppe, in campo la Sampdoria di Boskov e la Lazio di Eriksson. La storia inizia con una sconfitta però e finisce con un successo, l’ultimo timbro italiano sul decennio di gloria del nostro calcio dominante.

Gli Anni 80 stanno per finire, l’Europeo di Germania è alle spalle e la nostra Nazionale non ha brillato, sullo sfondo però c’è già la Coppa del Mondo che ospiteremo, nel frattempo le italiane continuano a faticare nelle competizioni europee. L’ultimo successo è datato 1985, la Coppa Campioni della Juventus nella maledetta notte dell’Heysel.

L’ultima stagione degli anni Ottanta segna però un cambio di marcia, una svolta che ribalta il panorama calcistico continentale. Il Milan di Berlusconi ha vinto lo scudetto nel 1988 strappandolo al Napoli di Maradona, dopo il tricolore il presidente rossonero punta dritto all’Europa. Gullit e Van Basten trascinano il Milan alla Coppa Campioni contro la Steaua Bucarest travolta al Camp Nou per 4-0. La macchina perfetta messa a punto da Sacchi inizia a spaventare l’Europa che è ancora orfana delle inglesi, fuori dopo la drammatica notte di Bruxelles. Senza le squadre di oltremanica che avevano vinto a ripetizione a cavallo degli Anni 70 e 80, mancano rivali importanti, ma il vuoto non è stato monopolizzato da nessuna nazione fino al 1989 appunto.

Il Milan sale in cima all’Europa, la settimana prima il Napoli si aggiudica la Coppa Uefa contro lo Stoccarda; il 10 maggio a Berna invece la Samp viene battuta dal Barcellona. Tre italiane in finale in ciascuna competizione, un episodio che capiterà ancora, l’en plein sfuma solo per il mancato successo doriano, ma è solo questione di tempo.

La stagione che conduce a Italia ‘90 è un altro dominio totale: il Milan rivince la Coppa Campioni (ancora oggi è l’ultima squadra ad averne vinte due fila) contro il Benfica, la Samp ai supplementari supera l’Anderlecht in una partita che sembra stregata e vendica la sconfitta dell’anno prima, mentre la Juve batte in una finale tutta italiana la Fiorentina in Uefa.

Il monologo italiano si interrompe ai Mondiali con i rigori in semifinale contro l’Argentina, ma la supremazia italiana non si ferma, si arresta, solo per un po’.

Nel 1990-91 un’altra finale di Uefa è tutta tricolore: l’Inter batte la Roma, ma ai quarti su 8 squadre 4 sono italiane considerando anche l’Atalanta ed il Bologna. In Coppa Coppe la Juve esce in semifinale contro il Barça che perderà la finale contro il Manchester United, mentre il Milan non riesce a calare il tris ed esce ai quarti nella controversa notte dei lampioni di Marsiglia.

Il territorio preferito delle italiane sembra essere la Coppa Uefa, nel 1992 infatti un’altra squadra di Serie A, la sesta diversa in 4 edizioni, raggiunge l’atto conclusivo. Il Torino perde la coppa senza essere sconfitto. Finisce 2-2 contro l’Ajax al Delle Alpi e 0-0 in Olanda, con la corsa granata che si infrange su tre legni. Il Genoa è l’altra sorpresa della competizione ed abdica soltanto in semifinale, sempre contro i lancieri.

In Champions League, questa è intanto la nuova denominazione della Coppa Campioni, c’è la Sampdoria alla sua prima partecipazione in questa competizione. La marcia della squadra di Boskov è praticamente perfetta, e senza alcun timore reverenziale i blucerchiati avanzano fino alla finale di Wembley. I sogni di Vialli e Mancini però naufragano ancora una volta per mano del Barcellona, come tre anni prima. Ai supplementari un siluro su punizione di Koeman regala la prima Coppa Campioni ai blaugrana. In Coppa Coppe la Roma va a casa ai quarti contro il Monaco, la campagna europea italiana si chiude con due finali e zero successi per la prima volta dopo tre stagioni consecutive.

È un caso, perché il 1992-93 ristabilisce nuovamente il dominio italiano: il Milan torna in finale di Champions, stavolta però il Marsiglia vince e lo fa sul campo con Bolì, la Juve conquista la Coppa Uefa, il Parma vive il suo miracolo di provinciale e stende l’Anversa in finale di Coppa Coppe a Wembley. Tre finali, due successi, ma è solo il prologo della stagione successiva, quella che porta oltretutto ai Mondiali di USA ‘94.

Come quattro anni prima le italiane danno il loro meglio e arrivano in fondo a ogni competizione. Il Milan alza la Champions contro il Barcellona schiantato 4-0, l’Inter batte il Salisburgo in Coppa Uefa dopo aver superato il Cagliari in semifinale, il Parma arriva ancora all’atto conclusivo della Coppa Coppe ma viene beffato dall’Arsenal 1-0.

Il calcio italiano è al suo apice, per qualità e continuità, il Mondiale si trasforma in un’avventura ricca di imprevisti e colpi di scena. Baggio trascina gli azzurri in finale ma ancora una volta i rigori negano alla Nazionale il successo.

Archiviata l’avventura americana, i club italiani riprendono a dominare, il Milan va in finale di Champions per la terza volta di fila ma viene giustiziato dall’Ajax del futuro rossonero Kluivert, la Samp esce in semifinale di Coppa Coppe ai rigori contro l’Arsenal, mentre ancora una volta la Coppa Uefa regala un derby tutto italiano con Juventus-Parma, autentiche protagoniste di quella stagione. Vincono i gialloblu, alla terza finale europea di fila.

La stagione 1995-96 diventa inaspettatamente uno spartiacque del pallone continentale, il 15 dicembre del ’95 infatti con la sentenza Bosman la Corte di Giustizia delle Comunità Europee stabilisce la libertà dei calciatori professionisti aventi cittadinanza dell’Unione europea di trasferirsi gratuitamente a un altro club alla scadenza del contratto con l’attuale squadra. La decisione stravolge il mondo del calcio poiché una delle conseguenze della sentenza stessa è anche l’abolizione del tetto al numero di calciatori stranieri nel caso specifico in cui questo aspetto discriminasse dei cittadini dell’Unione Europea.

Mentre inizia questa fase di transizione giuridico-sportiva, nel 1996 in Champions League il Milan lascia il passo alla Juve che torna a giocare la massima competizione e vince subito, il Parma esce ai quarti di Coppa Coppe contro il PSG che alzerà in seguito il trofeo, in Coppa Uefa, per la prima volta dopo sette edizioni, nessuna italiana si gioca il titolo, con Milan e Roma che salutano anzitempo ai quarti.

È solo un passaggio a vuoto però, perché l’anno dopo l’Inter va in finale e perde in casa ai rigori contro lo Schalke 04. La Juve difende la sua Champions e cade contro il Borussia Dortmund nell’epilogo di Monaco di Baviera, mentre la Fiorentina va fuori contro il Barcellona di Ronaldo in semifinale di Coppa delle Coppe.

Le italiane continuano a recitare il ruolo di protagoniste ma la supremazia inizia ad essere meno totale, nel 1997-98 però c’è l’ennesimo duello tricolore in finale di Uefa con l’Inter del “Fenomeno” che vince la sua terza coppa in 8 edizioni battendo 3-0 a Parigi la Lazio. La Juve raggiunge nuovamente la finale di Champions, la terza consecutiva, ma scivola contro il Real; in Coppa Coppe invece, l’incredibile favola del Vicenza di Guidolin termina in semifinale a Londra dopo aver fatto tremare realmente l’Ital-Chlesea.

Il 1998-99 è la stagione che conclude questa parabola decennale, è il punto finale. Il Parma vince la Coppa Uefa a Mosca, la Lazio alza il suo primo titolo europeo contro il Maiorca a Birmingham, mentre Juve e Inter vanno a casa entrambe per mano dello United che nel mese di maggio conquisterà uno storico treble.

È la seconda edizione della Champions League con due squadre per ciascuno dei campionati  principali, ma è anche l’ultima edizione della Coppa Coppe. Il calcio europeo cambia formato, e quello italiano perde colpi. La Serie A continua a rimanere il campionato di riferimento, ma la spinta propulsiva cala, in maniera quasi naturale. La Nazionale sfiora il successo a Euro 2000 mentre l’Under 21 porta a casa il titolo di categoria, il quarto in 8 anni che si va aggiungere a quelli del 1992, ‘94 e ‘96, tanto per rimarcare la superiorità del pallone nostrano sotto ogni livello nella decade dei Novanta.

Il calcio prende un’altra strada, tornano a essere protagoniste le due grandi di Spagna, le inglesi si riaffacciano in Europa, il continente vive una fase di grande cambiamento politico ed economico con l’ingresso della moneta unica il primo gennaio del 2002.

Perdiamo lentamente terreno in Europa, solo il Milan all’inizio del nuovo millennio riesce ad avere un minimo di continuità con tre finali di Champions in 5 edizioni. Quella del 2003 contro la Juve, dopo aver eliminato l’Inter nel primo storico Euroderby, sembra un ritorno al passato ma è solo un episodio. Il gioco cambia, i soldi in ballo iniziano ad arrivare da nuovi contesti e da diverse latitudini, il calcio si avvia a essere quello dei top team, della Champions che divora tutto e degli sceicchi.

L’Europa League, la vecchia e ambita Coppa Uefa, solo per i club italiani diventa un peso, in Champions l’Inter nel 2010 compie un exploit incredibile ma rimane un caso isolato fino alla Juve del 2015 che sorprendentemente arriva in fondo prima di crollare davanti al Barcellona.

 

È il calcio di oggi, che ci vede spettatori e quasi mai protagonisti. Con la Nazionale al suo minimo storico dal punto di vista qualitativo, gli stadi vuoti e non solo per il timore della violenza o per le strutture fatiscenti. L’Italia del pallone è relegata dietro ad altri tre paesi, ha perso dal 2010-11 un posto in Champions e non ha più una potenza economica tale da poter competere con i capitali di altri club. Nel frattempo si sta aprendo a nuovi investitori: americani, indonesiani, cinesi, che non sembrano però avere la stessa capacità di Barca o Real per non parlare dei petrodollari degli sceicchi.

Rimane il ricordo, quello sì, di un’era già lontana ma che non può essere sperduta nella memoria. Gli Anni 90 sono stati il punto massimo del nostro movimento, e questi dati finali lo sintetizzano in modo chiaro:

In 11 stagioni, con 33 finali da disputare, le italiane sono presenti in 24 occasioni. Sono 14 i trofei vinti, 4 invece le finali tutte italiane e sempre in Coppa Uefa. Il 1990 è l’anno in cui tutte e tre le competizioni vengono vinte da una squadra italiana, mentre sono quattro le stagioni in cui portiamo almeno un club in finale di ogni coppa (1989, 1990, 1993, 1994).

Le italiane giocano 7 finali di Champions consecutive fra il 1992 ed il 1998, e altrettante di Coppa Uefa fra il 1989 ed il 1995. Per 4 anni di fila riusciamo addirittura a portare sistematicamente una italiana sia in finale di Champions League che in Coppa Uefa (1992-1995) ma soprattutto in 11 anni ben 10 diverse squadre italiane vanno in finale, ed altre 4 raggiungono una semifinale (Bologna, Cagliari, Genoa e Vicenza).

Non bisogna aggiungere altro, è il decennio dell’Italia, la decade dello strapotere del pallone tricolore sui campi di tutta Europa. 

Non vi posso spiegare certe cose io

A me i cappelli non stanno bene, di ogni tipo, ho la testa piccola, la faccia lunga, non fanno per me e lo so, di conseguenza evito di indossare roba del genere e penso a questo ogni volta che vedo qualcuno con qualcosa di platealmente sbagliato. In particolare quelli con gli occhialoni. Sì, quelli grossi, con la montatura nera, quelli trendy, da nerd, ma che sono brutti, ed essendo brutti come oggetto in se stesso, stanno male a chiunque, senza nessuna eccezione al mondo e questo mi stupisce sempre, facendomi pensare che siano davvero orrendi.

È una battaglia mia personale, ognuno è libero di fare quello che vuole ma poi esistono limiti, un confine che non si può varcare, ma la moda a quanto pare governa e quindi finisce lì, anche in Italia, dove lo stile vince sempre sulla moda, dove il bello è bello, e il soggettivo spesso ha abdicato all’oggettivo, al gusto, al concetto più profondo di bellezza. Be, tutto questo era per dire quello che penso con questo preciso ordine quando vedo gente mal combinata, vestiti in modo terribile, ma da questa parte di mondo è una battaglia fin troppo persa, anche se io mi accanisco con quelli che vogliono essere fashion e fanno ridere, con quelli che pensano di essere stilosi, o quelli che prendono noi italiani come esempio e poi fanno scempi da arresto.

Siamo diversi e c’è poco da fare, esistono campi culturali, e modi di pensare che non sempre si possono allineare. Certi divari rimangono e malgrado la globalizzazione, Facebook, Whatsapp, lo streaming e Youtube, e quello che volete, esistono punti di contatto e visioni vicine e lontane. È in parte meraviglioso vedere come alcuni aspetti vadano poi di pari passo, come si creino gruppi, “clan”, ma non perché ci sia cattiveria o incomprensioni, ma proprio perché esistono fatti antropologici che non puoi cancellare. E allora c’è poco da capire se ho fraternizzato con portoghesi, francesi, e una italo-argentina, semplicemente perché il sangue che ti scorre dentro somiglia a quello loro, tendi a vedere la vita con gli stessi occhi e per questo ti invitano a mangiare la pasta la domenica a pranzo alle 13.30, un orario molto mediterraneo, molto sud europeo e sei contento. Così porti il Cinzano perché sei italiano, e fra un rosso e un bianco passi poi nella corsia dei vermut e ti esalti alla vista dell’etichetta rosso blu del Cinzano. Che bello. E lo prendi, perché sei in fondo un ragazzo di borgata anni ‘70, da bar con il bancone di alluminio. Vallo a spiegare a questi qua. Per tutte queste ragioni, a volte non puoi essere capito, figuriamoci apprezzato, ma è normale e giusto, nel senso che dopo tanto tempo non è più un aspetto che mi sorprende ma con il quale convivo pacificamente. Di certo so che a me piacciono le persone a cui scorre il sangue nelle vene, ma il sangue quello vero, a me piace la gente come noi.

Da quando sono in giro, storicamente fraternizzo sempre con gli stessi popoli, spagnoli in primis, sud europei in generale, con l’aggiunta degli slavi ma su questo non ho spiegazioni plausibili, o almeno non me le sono mai riuscite a dare. Credo di avere un qualcosa di simile a loro, di genetico credo, o semplicemente il “demonio pieno di rabbia” come mi ha scritto qualcuno qualche giorno fa, oltre alla pazzia imprevista tipica dei balcanici.

Tuttavia adesso la preoccupazione più grande sono gli Europei e come vederli. Il fuso orario gioca contro, il blocco di livesx.tv è un dramma di dimensioni apocalittiche perché mi toglie la chance di vedere qualcosa in replica come se fosse in diretta. Se penso alla copertura che avrei potuto avere con Sky in Italia, se penso alle 41 partite su 64 viste ai mondiali e alla fame che mi aspetta invece ora, mi deprimo in un secondo. In compenso ci sarà quel tifo diverso, quel sentirsi parte di una comunità, il tifare Italia ma non nel proprio paese, la classica reazione dell’espatriato, vissuta casualmente e in modo ben diverso, in una camera d’albergo di Vienna nel giugno 2010, quando salutavamo mestamente il Sud Africa.

“Salgono su certi treni, loro malgrado. Solo per paura che la vita li lasci a piedi”. Ho letto questo tweet giorni fa e suonava in maniere perfetta con quello a cui ho dovuto assistere ultimamente, in modo del tutto casuale. Gente che entra in storie senza senso, con quella paura di rimanere appunto a piedi che a me fa venire i brividi e non perché ormai sono abituato all’opposto, ma proprio perché non capisco come la gente non capisca, e non è un gioco di parole, ne tanto meno una sciocca ripetizione del verbo capire. Alla fine penso questo, credo che la gente si annoi e a un punto senta di dover fare qualcosa. Una relazione è la cosa apparentemente più sensata, più facile, quella che riempie maggiormente il tempo. Sono sempre convinto che sia un discorso di paura, di timori, in particolar modo se il tempo continua ad andare. E allora va bene un po’ tutto, abbassi sempre più l’asticella e qualcosa viene fuori, a me questo mette paura, mi spaventa vedere gente fare cose così. Terribile. Ma tant’è e quindi it is okay, peggio per voi, non posso essere io a insegnarvi a stare al mondo, che poi non è tanto un giudicare, è tanto per fare delle considerazioni, alla fine, onestamente sono anche affari vostri, che cazzo me ne frega a me? Nulla. Eppure non mi capacito del perché la gente sia schiava di certe paure. Un mistero.

Martedì abbiamo perso nuovamente al torneo di calcetto, su tre gol ne ho fatto uno (anche bello, al volo), ne ho propiziato un altro da corner, perché le persone ancora non ha capito come si tirano gli angoli a calcetto, e un altro me lo hanno annullato senza un motivo chiaro, un fallo di confusione mentre io, alla Hernan Crespo, l’avevo già messa dentro. Il punto è che il livello di un partita di questo tipo lo capisci subito da una cosa: da quante persone giocano con la testa bassa o alta. Io appartengo alla seconda categoria semplicemente perché così si gioca a calcio, a qualunque livello. Se tu prendi il pallone e per portarlo avanti lo devi guardare, non vedi la porta, non vedi i tuoi compagni e soprattutto non vedi me che con un dito, o un braccio, ti detto il passaggio, lo spazio, dove sto andando, dove devi darmi il pallone e qui finisco. Se invece tieni la testa su, vedi tutto e ogni cosa sarà più facile, il gioco di squadra ne beneficerà e ci si diverte anche un pochino di più. Poi però, penso che anche a questi mica posso spiegare io come si fa, e mi viene in mente quella cosa che fa tanto ridere ad Alfredo: vorrei giocare con un altro me in squadra.

Confermo e sottoscrivo.

Una bella storia

Se il gol di uno che di nome fa Eden ti manda in paradiso e ti permette di vincere il tuo primo storico titolo è evidente che doveva andare così, che il copione perfetto è stato rispettato e che il sogno può diventare definitivamente realtà.

Abbiamo assistito a qualcosa di veramente incredibile l’altro ieri, anche se in verità sono mesi, dallo scorso agosto, che domenica dopo domenica, una partita dopo l’altra, vediamo una squadra di semi sconosciuti mandare tutti al tappeto e conquistare lentamente una Premier strameritata.

È stato il successo del gruppo, mai come in questa caso. Nessuna stella, tanti buoni giocatori che hanno vissuto una stagione di grazia e la capacità di un bravo allenatore, un gentiluomo navigato che da vagabondo delle panchine sa ancora insegnare qualcosa e ancor di più sa stare su un campo di calcio.

Ha vinto il Leicester e ha trionfato Ranieri, ma soprattutto la sua ex squadra, il Chelsea, quelli che lo avevamo mandato via perché volevano vincere, come disse Mourinho nell’estate del 2004, gli ha regalato la più grande soddisfazione della sua carriera. Stranezze del pallone e ironie del destino.

Vincere un campionato è sempre difficile, farlo nella lega più competitiva lo è ancora di più, e anche per questo motivo la storia del Leicester assume dei contorni davvero clamorosi.

Lo scorso anno ad inizio aprile la squadra navigava nei bassi fondi della classifica, a sette punti dalla salvezza, dodici mesi dopo, era in testa con sette punti di vantaggio sulla seconda, gli stessi che lunedì gli sono bastati per festeggiare addirittura con due turni d’anticipo. Meraviglie che solo uno sport come il calcio sa regalare.

Molte persone hanno provato a forzare paragoni come spesso capita, dal canto mio penso che questa magnifica avventura non abbia eguali. Non è il Verona del 1985, ne tanto meno la Sampdoria del 1991 che nel frattempo si era già affacciata in Europa con due finali di Coppa Coppe di fila nel biennio precedente. Il Leicester non è nemmeno la Danimarca del 1992: un conto è imbroccare 5 partite consecutive, un altro è viaggiare con una tale costanza per otto mesi affrontando 36 gare.

La storia dei Leicester di conseguenza è bella perché assoluta ed unica, anche se bisogna uscire dall’equivoco di Cenerentola disperata e povera. Non è così poiché il presidente del club è il signor Vichai Srivaddhanaprabhasecondo Forbes il nono uomo più ricco di Thailandia e a capo del gruppo King Power, azienda leader a livello internazionale nella gestione di negozi duty free aeroportuali e sponsor principale ovviamente dei neo campioni d’Inghilterra.

Questo significa che il Leicester ha dietro un personaggio di un certo livello economico e non necessariamente il giocattolo verrà smontato subito. Qualcuno partirà, ovvio, ma considerando la base finanziaria alle spalle, gli introiti della Champions che giocheranno oltretutto da teste di serie e quindi con un girone non proibitivo, oltre ai soldi degli sponsor dopo questo miracolo, c’è da stare sicuri che questa macchina perfetta non si dissolverà in poche ore.

Per una impresa del genere ci sono volute tante situazioni e diverse coincidenze, la stagione perfetta dei Foxes ma anche il simultaneo fallimento delle grandi squadre.

Il Chelsea si è autoeliminato per colpa del suo spirito sedotto e dilaniato da Mourinho, lo United ha fallito un’altra stagione come nessuno poteva immaginare, il City per la prima volta si stava giocando la Champions seriamente, mentre l’Arsenal, come al solito, si è afflosciata su se stessa. Non a caso, l’antagonista dei Leicester è stato il Tottenham, tutto tranne che un club abituato a successi e trionfi, soprattutto recentemente.

Il disastro contemporaneo che ha inghiottito tutti i principali avversari ha spianato la strada a Ranieri che ha saputo correre come non mai, non lasciando niente agli altri e non dando mai l’impressione del braccino, in un finale in cui quel rischio era più che normale e comprensibile.

Ha vinto chi ha meritato, probabilmente non i più bravi ma chi ci ha creduto maggiormente e desiderato un successo che ha indirizzato questa squadra verso la leggenda.

Una bella storia di calcio, una di quelle favole che fanno bene e non solo al mondo dello sport.