Il Pirata

Dieci anni fa ci lasciava Marco Pantani, uno dei campioni sportivi italiani più amati dal pubblico. Dopo Alberto Tomba è stato certamente l’ultimo atleta azzurro che è riuscito ad incollare gli spettatori alla tv, in attesa di un’altra grande impresa, aspettando una pagina di storia. Ho due personali ricordi che mi legano a questo sfortunato campione, due momenti che di fondo riassumono la parabola del Pirata: il punto più alto e la fine.

Estate del 1998, è il 27 luglio, caldo, afa, accendo la televisione, mi sintonizzo su Raitre e dopo un po’ mi addormento sul divano incredibilmente. L’evento è già di per se clamoroso poiché in vita mia penso sia accaduto non più di tre volte, ma ad un punto vengo improvvisamente svegliato da mia nonna che mi indica la tv e mi dice di guardare. Pantani è partito, sta assaltando nel vero senso della parola il Tour de France. Ha 5 minuti scarsi da recuperare sul rivale, il tedesco Ullrich, ma sul colle de Galibier si alza sui pedali e se ne va in solitaria a 50 km dall’arrivo. Mia nonna si sente autorizzata a svegliarmi perché è chiaro a tutti, anche ai non appassionati, che stiamo davanti ad un’impresa monumentale. Mi  rendo conto dell’unicità del momento e come tutti gli italiani incollati alla tv spingo Pantani che non molla e stravince la tappa, raggiungendo il traguardo de Les Deux Alpes con nove minuti di vantaggio su Ullrich, è l’apoteosi.

Il Pirata riscrive la storia e ipoteca il Tour, il giorno successivo compro il Corriere dello Sport, una copia che diventerà ben presto un pezzo di storia. Il titolo recita: “Un uomo solo al comando” con il ciclista a braccia larghe mentre taglia il traguardo. È una prima pagina mitica che conservo con cura e attenzione e proprio ieri, aprendo il cassetto, l’ho voluta rivedere.

Il secondo ricordo è quello più triste e drammatico. E’ la sera di San Valentino del 2004, è sabato ed io appartengo alla schiera dei teenager sfigati che senza ragazza se ne stanno a casa non avendo l’amata da portare a cena fuori. Ho da poco finito di vedere su Sky l’anticipo di Serie A, cambio canale e passo su Italia 1 dove la versione serale di Guida al Campionato dà in anteprima la notizia della morte di Pantani. Un colpo inatteso, un momento di vuoto totale. Sono abbastanza incredulo e faccio fatica a credere a ciò che ho appena sentito, metto il televideo e la notizia viene battuta e riportata: è tutto maledettamente vero. Sono ancora seduto sul divano, come sei anni prima quando mi esaltavo nel vedere questo uomo sfidare le salite e le montagne, mando un sms a Dario, il mio compagno di classe che da un anno ha iniziato ad andare in bici sul serio. So che sta fuori, so che è uscito e che non può sapere ciò che sta succedendo. È incredulo anche lui, mentre tutti i telegiornali parlano di questa morte. Finisce la vita di un uomo sfortunato, grande e solo, inizia la caccia allo scoop, un decesso avvolto ancora nel mistero, una vicenda mai del tutto chiarita sulla quale la madre di Pantani, la signora Tonina, si batte da anni.

Ho visto storie di sport e grandi atleti, campioni eccezionali e vittorie memorabili, allo stesso modo però, devo dire che il coraggio, la voglia e l’ostinazione con cui ho visto scattare Pantani in quel pomeriggio di luglio non l’ho mai ritrovata in nessun altro atleta.

E ora mi alzo sui pedali all’inizio dello strappo

Mentre un pugno di avversari si è piantato in mezzo al gruppo

Perché in fondo una salita è una cosa anche è normale

Assomiglia un po’ alla vita devi sempre un po’ lottare

E mi rialzo sui pedali con il sole sulla faccia

E mi tiro su gli occhiali al traguardo della tappa.

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