Paralipomeni

Tanto è così, è tutto un dimostrare, un dover dimostrare, meritarsi qualcosa, guadagnarsi uno spazio, un posto, i soldi. Bisogna rimboccarsi le maniche dicono, lo ripetono a noi, poi però c’è il fortunato di turno che ti supera e nemmeno te ne accorgi, ha il telepass, quello delle conoscenze, delle porte aperte senza sforzarsi, il passepartout. A te, al massimo, rimane da suonare qualche altro campanello, in attesa di altri no, di nuovi rifiuti e vecchie scuse, aspettando di colpire un altro palo, o anche una traversa, tanto, abbiamo già il callo.

Sudare per arrivare, correre più forte per ottenere, meglio dimostrare che mostrarsi, quello lo fanno gli altri, chi vive di condimenti e contorni perché il piatto piange e allora, è tutta una vetrina, una interminabile giostra su cui roteare pavoneggiandosi del nulla, social network e giochi di luce, “Facciamone un’altra, che dobbiamo venire meglio”.

Piove di nuovo, troppo per essere del tutto ottimisti, un colpo di coda dell’inverno, un’inzuccata allo scadere del freddo e le finestre si richiudono, avevamo già deposto il cappotto, peccati di gioventù, errori che spesso facciamo. Troppo lontani gli amori sotto l’ombrellone e i tormentoni estivi, è lunga ancora, c’è da pedalare e impegnarsi, la grattachecca su Lungotevere è più che distante ma nel frattempo le palestre si ripopolano e i bicipiti si gonfiano, in vista delle prossime e future esposizioni. Move on.

In bocca sapore di ferro e sangue, certe scuse hanno fatto il loro tempo come le Superga, anche se fra un po’, magari, torneranno buone. È tutto un divenire, le mail che aspetti non arrivano, il telefonino non suona più come prima, il termometro della situazione è anche questo e non ti rimane che restare in sospeso, a guardare la grandine sul balcone, perché in fondo sai che c’è qualcosa ti manca, e tu, mi ricordi il mare.

26.25 (A Catto, ma che ne sai tu…)

Ti ricordi quella strada, eravamo io e te,

e la gente che correva, e gridava insieme a noi.

Certo che sognarsi di essere su una sedia a rotelle indossando delle discutibili Clarks azzurre non è il modo migliore per avvicinarsi a una maratona, soprattutto se la cosa ti inquieta e ti fa svegliare alle 2,43 e non prendi più sonno perché ti domandi il motivo per cui nella frase “A casa” c’è il raddoppiamento fono-sintattico e in “La casa” no.

Vabbè, alzarsi alle 6,45 di una domenica mattina con la pioggia fuori e sapere di dover andare a correre è un segno evidente di forti disturbi o di una palese pazzia, quella sensazione che ti fa dire “Ma chi me lo fa fare?”. E invece no, prima delle 8 raccatti il tuo amico Gallo alla metro e ti avvii verso Via Cavour insieme a tanti altri invasati. Piove, tira vento, troppa gente, a un punto diluvia e ti metti sotto un tendone del ristorante “da Massenzio” che ti protegge da una doccia universale. Si parla, si sdrammatizza, si invoca a gran voce il sole e alle 9 bum! Inizia la maratona, quella seria, quella di 42 km. Poco dopo ti incammini, schiacciato fra un popolo di corridori, amatori e perditempo. Mezz’ora di ritardo e poi si parte, il Sindaco dà il via anche alla stracittadina e a questi 5 km in allegria mentre il meteo concede in tempo una pausa, quasi miracolosa.

Si comincia, in realtà si cammina, almeno per il primo kilometro chiuso in 6.36, un tempo ridicolo, imbottigliati nel gruppone con persone che pensano a foto e a salutare alcune telecamere. Il Gallo sbuffa e bestemmia, io gli do ragione, nel frattempo si perde il cane per strada, all’altezza del Teatro Marcello continuiamo a lamentarci, a dribblare gente, a fare lo slalom costantemente per evitare quelli che l’hanno presa un po’ alla leggera e ci ostacolano prima di infastidirci qualche metro più avanti.

David allunga un po’, gli sto dietro, usciamo dal serpentone umano, ci buttiamo sul marciapiede, i sanpietrini intanto brillano di acqua e il rischio di andare lunghi è concreto, un pericolo in più. Costeggiamo il Circo Massimo, prendiamo il largo, c’è più spazio dopo il secondo km e andiamo anche se ogni tanto dobbiamo frenarci, ripartire e schivare personaggi inopportuni. Su Viale Aventino riesco anche a pensare all’ultima volta che ero passato lì, in compagnia, a fare il turista a settembre: caldo, afa, pantaloni corti.

Prima di rigirare per involarci verso il Circo Massimo, il mio compare aumenta il suo vantaggio, io accorcio, mando affanculo uno che fa una manovra folle e rischio di tamponarlo pericolosamente, supero tre ragazze in gran forma e confido a David che spero di rivederle il 31 maggio ai 5 km della Single Run. Gli ucraini imbandierati strillano invocando la libertà per il loro paese, io supero diverse persone e mi imbatto nella salita finale su Via del Circo Massimo. Accuso la pendenza, il cronometro mi dice che non manca tanto, il tempo è buono, scollino e mi lascio andare nell’ultima discesa, vedo il traguardo, accelero, guadagno qualche secondo e taglio il finish con un buon 26.25 (buono visto le 7 corse in tre settimane), mentre David mi ha preceduto con un minuto di vantaggio e mi attende. Cinque alto, punto ristoro per l’acqua, un po’ di stretching e subito due battute sul caos, troppe persone, troppi ostacoli, bello correre per Roma ma scomodo farlo con miliardi di cristiani tra le scatole.

Giretto per gli stand e poi via verso la metro di Circo Massimo: è andata, la pioggia ci ha graziati, forse ci ammaleremo uguale o forse no, chissà, alle 11,00 ci salutiamo e ognuno si imbarca verso casa, la prossima tappa è la corsa sull’Appia il 13 aprile, poi la Single Run sabato 31 maggio, il nome di quest’ultima dice tutto, ma come ha chiosato il Catto “Ormai c’è rimasto solo da correre…”

 

P.S. Ho contattato La Bionda appena tornato a casa per farmi spiegare il discorso notturno sul raddoppiamento fono-sintattico, la riposta è che tutto dipende dal monosillabo A che è cogeminante, a differenza dell’articolo LA. Quante ne sa.

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Senza averti qui

Tre anni senza sono tanti. Ovvio, detta così sembra qualcosa di irreparabile, no, per carità, però è per dire che tre anni esatti senza averti qui non sono mica pochi. Certo, ci sono state le due famose settimane a Pechino nel settembre 2011 o quelle a dicembre 2012 qui a Roma, a casa, poca roba però se paragonate a questo infinito lasso di tempo. Tre anni senza il Tattico, senza il Saggio compagno, 36 mesi senza lo scudiero o il generale in base alle situazioni, tre anni più solo. Questo è certo.

Non è facile ora ripercorrere certi momenti anche perché onestamente non mi interessa troppo, so che malgrado la distanza ti ho sempre sentito vicino, costantemente presente al di là delle 7 ore di fuso orario, del lavoro o degli impegni. Per questo mi sono impegnato, ho sempre voluto tenerti dentro, coinvolgerti e raccontarti, anche senza risposte, consapevole però che il messaggio era stato recapitato e letto. Elaborato e compreso. Ecco, appunto, io so che stai lì e soprattutto che ci sei.

Ci sono stati momenti complicati ma tu c’eri anche se io pranzavo e tu cenavi, pure se io andavo a dormire e tu eri pronto a vivere una nuova giornata. C’eri e ci sarai. Penso di averti detto tutto negli anni, l’unica cosa che non ti ho mai raccontato è che quando ci sono parentesi grigie o attimi di tristezza e difficoltà, penso a te e in quel pensiero ritrovo sollievo, pace, mi rassereno. Penso a quello che diresti, faccio i conti conoscendo le tue risposte, sorrido perché so già la battuta, l’associazione logica e mentale. La rima. Mi è successo giorni fa e di fondo mi è tornata in mente una frase, quella che era alla fine dei tuoi ringraziamenti della tesi magistrale: “Because when I suffer, I don’t know why but in my thoughts I find relief thinking of you”. Perfetta, giusta, semplicemente calzante. Questo è ciò che capita a me pensando a te.

Ho visto ultimamente gran parte della lunga intervista che raccolsi prima della tua ultima partenza, quando con una telecamera ti seguii per mesi per avere qualche aneddoto, per fissare su un video un lungo racconto, un pezzo unico, qualcosa che ho soltanto io. In quelle parole ci sono tutte le speranze, i ricordi e le emozioni, le battute e le idiozie vissute nel periodo precedente a Pechino, un documento inedito, impareggiabile.

Sono più solo sì, però ti aspetto sempre, egoisticamente, con simpatia e ironia, augurandoti nel frattempo di raggiungere tutto ciò che desideri e conquistare quegli obiettivi che in tutto questo tempo ti hanno spinto a non rallentare. Mi piace questa cosa, mi piace quando prima di andare a letto ti scrivo su WeChat, l’ultimo pensiero è per te, il punto finale della giornata, l’ultimo mio, il primo tuo. Molto romantico, quasi tenero, abbastanza “femminile”.

Prima o poi ci ricongiungeremo, avremo modo di fare mattina, parlando di tutto, di niente, di brividi, sparlando, giudicando, pontificando, quel posto qui accanto a me in questo lungo cammino, è sempre riservato. Per te.

Ciao Falco.

Bamboccioni mica tanto

Bamboccioni mica tanto. Almeno, non quelli che mi circondano. Il quadro è il seguente: Paolo e Christian si sono sposati lo scorso anno, quest’ultimo diventerà papà a ottobre, Chicco invece ha anticipato tutti e lo sarà già a maggio. Nel frattempo anche Daniele avrà un bambino e Davide ha fissato la data di nozze per settembre. Bamboccioni appunto, non sembrerebbe proprio. Fra matrimoni, unioni civili, cicogne che viaggiano sfidando l’autovelox, famiglie pronte a sbocciare e carrozzine a cui togliere solo il cellofan, mi sembra uno splendido panorama. Tutto molto bello direbbe Pizzul.

Amore e religione, casualità e meravigliosi incidenti di percorso, tutti dentro e via così, uno spaccato di Italia originale, in controtendenza e coraggiosa, che non abbassa la testa e ringhia ai luoghi comuni. Vi ammiro, avete il mio totale apprezzamento e sono fortunato ad avervi intorno, senza dubbio. Traguardi importanti sembrano scorgersi, almeno per loro, nel mio caso penso di aver accumulato un ritardo sostanziale sul gruppo della maglia rosa dal quale disto almeno 4-5 minuti, chissà in quale tappa ho perso terreno, forse un paio di anni fa, magari sulle prime salite, probabilmente sullo Zoncolan. Giri quanto ti pare, ti sforzi e rifiuti parallelismi, anche perché ti soccorre il monologo di The Big Kahuna a ricordarti che “A volte sei in testa. A volte resti indietro. La corsa è lunga e alla fine è solo con te stesso”. È vero, facciamo che va bene così. Why not? Fuochi d’artificio, battesimi e coccarde rosa (tendenzialmente), portoni decorati e profumo di latte. Sento questi aromi e immagino certe istantanee, tasselli colorati e libri su neonati. Grandioso.

Parlo di argomenti che mi sfiorano come i coltelli tirati dai lanciatori, secchi e precisi, hai paura che possano riguardarti ma hai fiducia e credi che ti “salverai”, ancora una volta. Mi viene in mente quando dicevo che mi sarei potuto sposare a fine 2015, ricordi, chiacchiere, l’altare mi pare lontano esattamente come quando lo immaginavo in quinto superiore, camminando per Via Gaeta con l’Invicta sulla spalle, pensando al compito di matematica. Altri tempi, lontani ma dilatati, non è il momento ancora, se sarà, capiterà fra un pezzo. Fidatevi.

Nuovi papà crescono, ma è già San Giuseppe, niente bignè e zeppole ma solo auguri a chi ha i capelli bianchi e parecchi consigli da dispensare, opinioni d’antan e la patente ancora di carta. Quella rosa.

Auguri a voi, auguri Babbo.