La lista “prima dei 30”

1 Vivere da solo.

2 Tornare a New York.

3 Aver lavorato almeno per una volta con un contratto superiore ai 12 mesi in un posto gratificante.

4 Vedere ancora il Palio di Siena.

5 Scrivere un libro.

6 Essere stato in tutti i continenti almeno una volta.

7 Fare una maratona intera.

8 Dormire in spiaggia.

9 Vivere all’estero (anche in compagnia) per un periodo.

10 Rileggere la Divina Commedia.

Alle 12.22 del 19 gennaio 2013, oltre quattro anni fa, scrivevo questo elenco in risposta ad un post di David.

Una lista di cose da fare prima dei 30. Ad una settimana dal compleanno che mi conduce nella nuova decina, è curioso rileggere questi dieci punti e fare un successivo resoconto.

Sette cose le ho fatte, me ne mancano solo tre: una (il Palio di Siena) è fattibile anche ad agosto, le altre due sono più complicate per un discorso di tempo. La maratona richiede un allenamento ed una preparazione importante, essere stato invece in tutti i continenti necessita di soldi e tempo, ma ho la profonda convinzione che succederà presto.

Quanto al resto? Ho fatto tutto e sinceramente ho portato a termine le cose più importanti e quelle che avevano per me un valore maggiore, anche a livello simbolico, come tornare a New York o rileggere la Divina Commedia.

Ripensando a quel gennaio 2013 di tempo ne è passato e sembrano ben più di 4 anni, ma soprattutto tante cose sono accadute nel frattempo. Basti pensare che in quel momento nemmeno sapevo di andare a Dublino: sarei partito due mesi dopo e da lì in poi la storia avrebbe preso lentamente, ma in modo quasi inesorabile, tutto un altro indirizzo.

Questa lista mi soddisfa, mi dice che ho fatto quello che volevo e che desideravo. Ci ho creduto e provato, e questo rimane il merito maggiore e non posso che essere contento.

Anche per questo, in fondo, vivo l’avvicinamento ai 30 in modo sereno, senza nessuna strana “crisi esistenziale” o fastidio. Va bene così, anche perché, al di là di tutto, continuerò a parlare da solo dentro casa, ad aspettare sempre con lo stesso patema le partite dell’Inter, a prendere in giro la gente, ad essere irrimediabilmente italiano e a pensare: “Guarda che faccio da cazzo questo” quando sono sulle scali mobile e incrocio lo sguardo di qualcuno.

Continuerò ad essere me stesso insomma, e come dicevo recentemente, mi sembra una buona cosa.

 

Sono quello che ero

Più mi avvicino ai 30 anni, e più mi capita di rendermi conto di alcune cose, come ad esempio il fatto che sono ancora il bambino che ero. Nel modo di vivere, di stare al mondo, di credere.

Ancora oggi rivivo spesso dinamiche e momenti che mi catapultano indietro, ad anni passati e lontani, mentre qui, da questa parte di mondo, tutto è diverso e per niente paragonabile. Almeno, così sembra.

Sono quel bambino di tanti anni fa perché forse non cambiamo mai. Ci evolviamo, ma una parte di noi, una fetta prominente resta. A chi più, a chi meno. Io, indubbiamente, appartengo alla prima categoria. Forse, perché sono un tipo identitario. Sono quello. Sono così. Proverei a spiegarlo ma chissà se ce la faccio: spesso rinuncio, a volte non credo di essere chiaro e di veicolare il messaggio che voglio.

Ancora oggi, però, sono quello di 20 e passa anni fa. Mi interesso poco alle chiacchiere, alle polemiche, ai discorsi vuoti, alle teorie già sentite e che so che non porteranno verso nessuna destinazione. Non mi interessavano le polemiche da bambino, non mi importava se era rigore o il pallone era andato fuori, mi interessava giocare. Ero felice solo quando giocavo, o forse, lo ero in un modo impareggiabile. Non paragonabile. È così anche oggi. Ancora adesso.

Finisce che nei meeting divago, penso ad altro, non riesco a concentrarmi. E fremo per tornare a fare il mio lavoro. Quello che mi piace, quello che mi assorbe e mi diverte. Che fortuna, che privilegio. Lo so che è cosi. E forse lo ripeto talmente tante volte per mostrare al Fato che sono sempre riconoscente e che quindi potrebbe lasciarmi tutto ciò in usucapione per il resto dei miei giorni.

A scuola mi annoiavo, mi accendevo a intermittenza quando sapevo che serviva. Quando qualcosa mi interessava. Ero pratico già da bambino e da adolescente. Sapevo che la matematica non mi sarebbe mai servita, ero consapevole che gli integrali erano inutili, senza fini concreti, e quindi una perdita di tempo. Una poesia di Leopardi era musica, introspezione, pensiero. Vita. E oggi ancora ripenso a quello perché certi versi ti aiutano a capire e a dare una profondità che una formula fredda e sempre uguale mai ti dirà.

Sapevo questo, sapevo tutto.

Sapevo di essere nettamente più bravo degli altri, il sistema non mi permetteva di dimostrarlo. Correre in corsia era utile per chi non sapeva orientarsi e infatti dopo si è più o meno perso. Ero così e mi divertivo da solo. Un po’ asociale e un po’ conseguenza di essere figlio unico. Mi annoiavo e sognavo, la mia fantasia era sempre brace viva. E più mia madre voleva che fossi come tanti altri, sotto ogni aspetto, e più in fondo non lo ero. Non sono mai stato figlio della massa, figlio del popolo sì, della massa mai.

Troppo diverso, squadrato, troppo caratteristico e appunto identitario. Io sono così, dicevo. Lui è cosi dicevano, e dicono tuttora, quei pochi che mi conoscono davvero.

E chissà, alla fine magari la fortuna è aver proprio preservato quel pezzo di infanzia e tenerla ancora illuminata, salvarne il concetto e lo spirito. In mezzo a tutti, ma sempre un singolo. Individualista ma al servizio del gruppo, fra confini mentali tracciati e compromessi respinti. Senza l’obbligo di dover piacere e con poco tempo per le opinioni altrui su la mia essenza che poi, in fondo, quanti la conoscono?

La libertà ancora oggi, a due settimane dai 30, forse risiede in tutto questo. Motivo per cui, è uno sbarramento cronologico che non mi tocca minimamente.

Il bello di Toronto

Vabbè ma ci sarà anche qualcosa di buono o positivo in questa città no?

Ma come no, certo che sì, se non fosse che si tende sempre a sottolineare gli aspetti negativi, soprattutto se questi superano i lati positivi. Ciò nonostante, la primissima cosa che mi viene in mente è il fatto che Toronto sia al 100% una città internazionale, come pochi posti al mondo. Questa caratteristica deriva da diversi fattori, in primis che il Canada è una nazione giovane, terra di conquista e costruita letteralmente da immigrati. Ognuno ha un background diverso, il canadese è questo, di fondo non esiste, è un costante mix di provenienze e lingue e la città ancora oggi, rispecchia questa natura.

Toronto è infatti tutto quello che Roma non è, nel bene e nel male. Se Toronto è internazionale, la mia città è l’opposto, una metropoli che in realtà è una enorme città popolare, senza vocazione europea, dove la gente viene solo per turismo, ma non per investire, studiare o crearsi una carriera. Negli ultimi anni lo scenario sta peggiorando costantemente, ma l’anima di Roma è diametralmente opposta a Toronto, dove si parlano 30 lingue diverse, vedi di tutto e conosci in ogni momento gente che viene da qualunque angolo del globo: una cosa magnifica che arricchisce in modo quasi sconsiderato.

Un’altra caratteristica che mi piace di Toronto è il modo in cui è costruita. A livello urbanistico, tutte le città nordamericane si basano sul concetto di vie lunghissime parallele e trasversali che si intersecano per formare una mega griglia. Una peculiarità possibile grazie al fatto che sono tutti luoghi nati in tempi recenti ma un elemento che aiuta e rende tutto facile: dagli spostamenti, all’orientamento.

Lo skyline della città è molto bello. Soprattutto il colpo d’occhio visto dall’isola che si distende di fronte alla riva dell’Ontario. I grattacieli, soprattutto quando non sei abituato, hanno un fascino incredibile. Altezza, luci, colori, una spinta costante verso l’altro, come ad allungarsi perennemente oltre ogni confine. Un qualcosa che almeno il primo anno e mezzo mi portava a camminare sempre con il naso all’insù rapito da questi scenari, per noi totalmente inusuali.

Il tram è il mezzo che a me piace di più qui a Toronto. Forse perché è un qualcosa che non ho mai usato troppo, ma che per me, nella mia mente malata, evoca lo stadio. A Roma e a Milano, è il mezzo quasi obbligatorio per andare allo stadio se vuoi usare i mezzi pubblici. Il tram, qui si chiama streetcar, passa con grande frequenza arando solo le strade che sono parallele al lungo lago. Il mio tram di riferimento è quello che percorre Dundas e spesso mi porta alla metro per andare al lavoro. Vecchiotti, piccolini, di legno, con la cordicella tesa da tirare per prenotare la fermata, per me hanno un loro indubbio fascino.

Toronto, come ogni città nordamericana è un posto a cui nessuno frega di come ti vesti, ognuno è libero e tutti fanno come vogliono. Questo dettaglio a me non cambia nulla, ma mi piace vedere  -forse mi diverte- persone che se ne fregano di ogni cosa e si vestono in modi improponibili. Conta poco, ma sai che nessuno ti giudicherà per i tuoi abbinamenti cromatici.

L’isola è il mio posto preferito qui. Uno potrebbe ironizzare dicendo che infatti non è propriamente Toronto, ma a mio avviso è un luogo paradisiaco, un’oasi davanti la città. Verde, tranquilla, enorme, curatissima, in mezzo al lago, una via di fuga dal caos cittadino, il rifugio perfetto durante la bella stagione, un posto che in Italia non esiste da nessuna parte.

Toronto è anche la NBA, il campionato professionistico di basket, ma anche la lega più nota e grandiosa in tutto il mondo. Ogni partita è un evento, un misto fra sport e intrattenimento, un inno alla concezione che hanno oltreoceano degli eventi sportivi. Forse mi esalterei per alcuni motivi più in un Partizan – Panathinaikos decisivo di Eurolega, ma il clima che si respira in una gara di NBA trascende dallo sport puro, è una esperienza che un appassionato dovrebbe vivere una volta nella vita. E per chi aveva come me il diario in secondo superiore di Vince Carter, stella dei Toronto Raptors, andare a piedi in mezz’ora al palazzo, all’Air Canada Centre, è semplicemente pazzesco.

A me piace molto fare la spesa, è una di quelle azioni di routine che faccio sempre con piacere, ma proprio fin da quando ero bambino. Poterlo fare anche di notte, o rientrando alle due il sabato sera al supermercato Metro è una bella cosa, una opportunità che spesso colgo e che mi trasmette uno strano senso di libertà.

Facesse meno freddo, ci fosse il mare e non la neve, fosse al massimo a 3-4 ore di volo dall’Italia, ci potrei pure vivere qui. Qualche anno in più intendo.

Terzo episodio, dicaaa…

Riflessioni febbrarine (Parte II)

“Romagna mia…”

Ieri mattina sotto la doccia cantavo “Romagna mia”, e dopo un po’ mi è venuta in mente la versione dei bolognesi – o degli emiliani in generale – che cambia alcune parole rendendo la canzone profondamente di scherno verso i vicini di casa romagnoli.

A me fa ridere questa cosa, così come mi hanno sempre affascinato e divertito le rivalità territoriali italiane. Poco dopo mi sono domandato se qui hanno qualcosa di vagamente simile e ovviamente mi sono risposto dicendo che per mille motivi non è proprio possibile e ho anche aggiunto: “Beh, che si perdono…”

Bevi un altro po’

La scorsa settimana riflettevo ancora una volta sulla stupidità di chi ad una certa età beve e non conosce i propri limiti. Perché ubriacarsi, spendere un sacco di soldi, andare oltre, infastidire la gente e non ricordarsi nulla inoltre il giorno dopo? Non si spiega. Non lo so. Capisco il ragazzino, il teenager, il 20enne, posso dare loro più giustificazioni, ma a una certa età, intorno la trentina, ecco, lì dovresti cominciare a conoscere i tuoi limiti e farla finita, o almeno metterti dei paletti. Per il bene tuo e la pace degli altri.

Scheletri negli armadi

Al giorno d’oggi rischiamo sempre di essere vivisezionati dai social. Ciascuno di noi ha qualcosa da nascondere, e tutti noi, in particolare coloro che hanno ruoli importanti o personaggi popolari, ogni giorno rischiamo di vedere la nostra immagine e non solo, disintegrata. Credo che paradossalmente la cosa migliore sia l’opposto, giocare d’anticipo e partire dal presupposto che nessuno di noi è perfetto e tutti siamo attaccabili. Pertanto conviene confessare le nostre magagne e raccontarci per quelli che siamo; è l’unico modo per essere sereni e dormire in pace senza il timore di questo genere di sorprese. Magari un giorno, quando condurrò Sanremo, andranno a spulciare nel mio passato e scopriranno non so che. Sì, che io sto dalla parte degli ultrà e ancora oggi è l’unico movimento in cui eventualmente mi riconosco. E che tutte le mie antipatie verso persone, cose, idee e altro, non le ho mai nascoste e sono quasi contento di ostentarle e ripeterle.

Polemiche da bar

A me questa settimana di polemiche ha irritato molto, soprattutto perché l’Inter ne esce non benissimo. Polemiche sterili, discussioni ridicole, su episodi dubbi sui quali io non mi sono nemmeno innervosito. Abbiamo perso una partita per una giocata fenomenale e fortunata di un avversario, teniamoci una buona prestazione e tante indicazioni incoraggianti. Il futuro ci appartiene ragazzi, non ci sono discorsi.

Abbiamo perso, capita. La Juve è più forte di noi e di tutti, ma non è detto che lo sarà ancora per molto tempo, anzi, dovessi scommettere, direi che manca poco.

Basta lamentele, pensiamo a giocare e a vincere, il resto sono chiacchiere da bar, quelle che a me non piacciono troppo.

Vabbè già che ci sto ecco il secondo episodio. Daje.