Non esiste proprio

Che poi, ripensando a tutte queste cose, qualunque problema sembra niente. Aria. Aria nemmeno fredda e che quindi non ti infastidisce.

Pensi che il 2017 era iniziato male.

Pensi al volo su cui non ti hanno fatto salire, pensi alla disorganizzazione e all’incompetenza della gente, a Francoforte, ad una notte buttata e ad un viaggio durato oltre 30 ore.

Pensi che Toronto non ti piace, ma a gennaio, dopo 10 giorni a Roma, fa veramente schifo. Ragioni sulle spese in arrivo e sui 958 dollari che hai dovuto sborsare appena rientrato a casa.

Sai che ti aspettano tante altre difficoltà, un mese di ristrettezze, di lavoro, di fatica. E poi, ti dicono che tua nonna sta male e che da un momento all’altro ha bisogno di una persona come supporto fisso.

E poi c’è la neve, quando non c’è, piove. Se le temperature salgono sopra la zero non vedi mai il sole e a oggi, ho perso il numero dei giorni dall’ultima volta che ho visto un po’ di giallo in cielo.

Pensi a tutto questo, e a tante altre cose, sembrano grandi, o di portata media, pensi che lunedì, ad esempio, dovrai incazzarti a partire dalle 9 per difendere dignità, diritti e salario.

Pensi che qua ti hanno sempre raccontato come sia importante e riconosciuta la meritocrazia. “Pare vero…”, ti dici in maniera laconica.

Ecco, pensi a tutte queste cose, pensi e ripensi, e poi?

A confermare che il 2017 sia cominciato male ci hanno pensato anche i terremoti, la valanga, i tanti morti, ma anche l’estrattore della cucina che non si può sistemare, le bolle addosso e gli insetti.

Poi ti alzi la mattina, tipo questa mattina, fuori non c’è il sole come al solito, per cambiare e spezzare la routine ti mangi a colazione una piadina, ed una banana a seguire.

Capisci che anche le banane ti cominciano a dare fastidio e dici: “Cazzo, pure le banane mo’?” Beh, pare proprio di sì, le conferme, ormai, sono molteplici a tal riguardo.

Ti prepari, piove, ti passa il tram davanti, in lontananza, e lo vedi sfilare via.

Sulla metro però, a un punto, vedi una notifica di Whatsapp e ti pare strano che ci sia, visto che non hai fatto l’accesso wi-fi in nessun altra stazione dopo Bloor.

Apri la notifica e il messaggio da parte di tuo padre è piuttosto lungo, quello di 10 minuti prima era una risposta a un video scherzoso. Scorri e poi ti perdi. Capisci, ma non capisci. Rileggi, vai su e ti guardi intorno. Non sarà vero, non può essere mica vero. E per tutto il giorno continuerai a pensare che non è successo.

“Se ne è andato”.

Ma come, pensi, ma quando? Dove? Perché? Che cazzo dite? Questa sequenza la ripeti a ritmo quasi vertiginoso. Sapevi dell’intervento, sapevi che aveva avuto problemi al cuore, ma sapevi anche tutto il resto e allora, cosa è sta roba?

Scendo a Davisville che non capisco nulla. È come se fossi in un luogo sconosciuto. Avverto un profondo senso di disorientamento. Sono spaesato. Salgo sul bus e continuo a guardarmi intorno come per cercare risposte, o forse conferme, non lo so nemmeno io. Il nostro corpo a certi stimoli reagisce in maniera assurda a volte.

Chiamo mio padre, sa poco, la linea funziona male, la chiamata diventa più complicata di quanto dovrebbe essere. Parla, io ascolto ma non sento. Ho una specie di sussulto solo quando menziona “la camera mortuaria” e allora mi dico quasi senza controllo: “Ma come camera mortuaria? Ma di che cazzo stiamo parlando dai?”

Mi sembra tutto talmente irreale che fatico a camminare. Vago come un busta vuota in una giornata di tramontana a Roma. Mi siedo, provo a capire ciò che non esiste.

Sento una specie di sensazione ovattata. Penso a lui, ma anche agli altri, ma più di tutti ad Antonio. Mi torna in mente la storia della salsiccia di Natale, e mi viene da ridere, forse anche da piangere, non lo so.

Lavoro ma sono guidato da altro, ho 200 cose da fare come ogni maledetto giovedì e non mi tengo in piedi. Eppure, questa terribile giornata deve finire e finirà. Non vedo l’ora di mettermi sul letto. Penso questo come altro pensiero e lo abbino a quello principale, ossia al “Non può essere mica vero dai…”

Invece lo è.

E tutte le cose che hai pensato prima, ed elencato all’inizio, sono il nulla.

Il niente davanti a chi se ne va così. All’improvviso. Quando l’intervento era stato fatto e il peggio sembrava passato. E pensi che andarsene in questo modo, non è giusto, non è ammissibile.

Non esiste proprio.

 

“FabioVolizzando”

Pur essendo un attento e valido osservatore, anche di me stesso, lascio sempre spazio a chi sa farmi notare qualcosa, con la costante che quel dettaglio in realtà lo avevo già rilevato o ancor di più, evidenziato magari a qualcun altro.

Recentemente infatti ho notato che mi sto “FabioVolizzando” su un tema ben preciso. Come il celebre conduttore, scrittore, attore etc… non perdo occasione per rimarcare la mia estrazione, il mio percorso, le mie origini.

Se Fabio Volo da anni ci ammorba con la storia del forno, del pane e di questo suo background, ultimamente mi sono reso conto di aver sottolineato in diverse occasioni sempre lo stesso fatto.

Come parziale giustificazione c’è il fatto che la GMG di Cracovia ha creato diversi collegamenti con quella del 2000 a Roma, e quindi in alcune circostanze mi sono ritrovato a parlare di Tor Vergata, della mia città, di quella università e del fatto di essere appunto un ragazzo di periferia. Il concetto di borgata, qui, è di difficile comprensione, pertanto è meglio rinunciare.

Ha notato questo pure un’altra persona, quasi in concomitanza me lo ha indicato, e abbiamo anche scherzato sulla coincidenza o meglio, sulla convergenza telepatica. In diverse interviste ho ricordato degli aspetti relativi alle mie origini e esperienze, in primis per ricalcare questo aspetto, ma anche per un altro motivo, molto più intimo e con un valore assoluto diverso.

Questo mestiere, soprattutto negli ultimi anni, è diventato a uso e consumo di pochissimi, e quando parlo di mestiere, intendo un lavoro che ti fa vivere, in modo almeno dignitoso. Chi accede alla “Casta” del giornalismo deve fare percorsi ormai quasi obbligati e soprattutto carissimi. Master e scuole specializzate che pochi possono permettersi, mondi che sono di fatto delle “mazzette” legali, spese enormi per comprarsi contatti o un piccolo pezzo di futuro.

Entrare in questo mondo implica un giro del genere, pochissimi sono quelli che accedono in maniera alternativa, o senza svenarsi. Io, ad esempio, sono uno di quelli, il mio caro amico Alfredo è un altro.

Non a caso però, in entrambi i percorsi, con le dovute differenze, c’è pure molto estero, un po’ come se paradossalmente, uscendo dall’Italia, la strada fosse meno legata in modo indissolubile ai soldi per potersi permettere certi corsi.

Questa differenza, allo stesso tempo, ti riempie di una soddisfazione diversa, perché fare questo per merito, coraggio e capacità, senza essere passati per alcuni passaggi, attualmente quasi obbligatori, ha un valore maggiore.

Ogni percorso segnato dall’impegno e dalla ostinazione ha un profumo più intenso, e il voler ribadire questo concetto quando capita è una tentazione a cui ancora non so sottrarmi. Perché il concetto è sempre quello in fondo: non sono nessuno, non sono figlio di nessuno, non conosco nessuno, non ho speso 20 mila euro per corsi e master di formazioni, e mi sono fatto il culo.

È una di quelle cose per cui vale la pena essere orgogliosi e ripetitivi, soprattutto quando il percorso te lo sei fatto davvero da solo, anche a costo di essere per un po’ una specie di Fabio Volo che ci parla sempre di forni, pane e impasti.

P.S. Se poi quelli che fanno altri percorsi hanno più chance di fare magari questo mestiere a vita, a differenza mia, beh è un’altra storia. “E che ci fai”, come dice il Catto.   

Due anni di Canada

Due anni fa esatti era il mio primo giorno di lavoro qui in Canada. Ero arrivato la sera prima, lunedì 12 gennaio, e stanco del viaggio e tramortito dal fuso-orario, ricordo di essere crollato sul letto dopo un filetto di manzo con dei fagiolini bolliti a cena.

La camera era al piano terra di una casa grande, bianca e luminosa, all’incrocio con Englinton Park, nella parte nord della città.

Sono trascorsi 24 mesi ma a me sembrano molti di più, non esagero se dico il doppio. La quantità di cose che ti ritrovi ad affrontare e vivere in contesti e situazioni del genere, è talmente grande che nella vita normale, nella routine quotidiana, potrebbero succedere solo in un lasso di tempo maggiore di un altro paio di anni.

Due anni di Canada sono un pezzo di vita significativo. Molto è cambiato da quel 12 gennaio, inevitabilmente anche il sottoscritto, come è giusto e ovvio che sia.

Toronto ha determinato il passaggio dall’essere ragazzo ad adulto, un limite che non fa rima con l’età anagrafica ma con quello che ti riserva e concede la vita. Diventi più grande quando acquisisci la tua indipendenza economica e sociale. Quando di fatto sei costretto a cavartela da solo sempre, dalle stupidaggini alle questioni importanti, quando devi badare a te stesso al 100%.

Il Canada mi ha condotto attraverso questo passaggio, che ingenuamente pensavo di aver completato a metà 2015, poco prima di tornare a Roma. Pensavo qualcosa che non era vero, serviva ancora tempo e fatica, ma soprattutto vivere da solo definitivamente, uno step necessario per segnare un cambio così importante.

Non so quanto durerà ancora questa esperienza di preciso, so però quello che è stata in questi due anni guardandomi indietro. Tante competenze, insegnamenti, conoscenze, momenti e sensazioni. Un caleidoscopio incredibile.

Mi ha spiegato in diversi modi però che la vita è sacrificio, è fondamentalmente sacrificio, soprattutto se hai delle ambizioni e segui delle passioni ma non sei un “figlio di papà”, bensì un ragazzo qualunque di una delle tante borgate di Roma.

Mi ha dato tanto questa esperienza, mi ha già dato inevitabilmente la stragrande maggioranza di quello che aveva in serbo per me, allo stesso tempo però, io ho ricambiato con altrettanti sforzi, con fatica e tempo. Ho consegnato al Canada un pezzo di me, una parte notevole. Ma alla fine capisci che non può andare diversamente: per ottenere qualcosa di rilevante, e per ricevere un grosso bagaglio di vita e esperienza, devi mettere sul tavolo un corrispettivo di valore, altrimenti non può funzionare. Un qualcosa di grande, a fronte di uno sforzo minimo, non può esistere, non è una frase fatta ma è la pura e sincera verità.

Sarebbero potuti essere due anni sicuramente più semplici se il trattamento economico fosse stato diverso e più congruo. Non è stato così, ed è un peccato per quello a cui ho dovuto rinunciare, e perché avrei potuto godermela di più. Ma situazioni del genere ti insegnano a marcare bene le priorità. Ci sono cose più importanti e altre meno, e se i soldi sono pochi si bada alla sostanza e poco al resto. Diverse persone mi hanno invitato ad essere “più leggero”, a vivermela con più serenità… “E il cazzo che ve se frega?” penso sempre quando sento questo fiume retorico.

“Vivete voi qua, in una città carissima, con uno stipendio da fame e poi vediamo quanto sareste stati leggeri e quanto ve la sareste goduta”. A questa frase non ci arrivo mai però, perché a gente che parla tanto per fare qualcosa, non puoi spiegare che vita è qui, e quindi ogni parola è sprecata e di tempo da buttare non ne ho.

Questo, appunto, è un’altra cosa che ho capito qui, un aspetto a cui ho dato sempre più valore. Il tempo sì, quello che passa e se ne va.

Ne parlavo recentemente, questi anni, gli ultimi dei 20 non me li ridarà indietro più nessuno e io li ho impiegati qui. Lavorando, impegnandomi, provandoci e facendo molti sacrifici.

Nessuno sa se tutto questo sforzo, questo reale investimento, mi darà la possibilità di riscuotere più avanti. Sono sempre stato scettico su tale prospettiva ma la vita me lo svelerà piano piano.

Anni difficili, ma ricchi, e questo comunque li giustifica. Ho imparato tanto nel mio mestiere, sono una persona più efficiente e ancor più organizzata, impossibile non esserlo in un mondo che vive di schedule e meeting.

A livello lavorativo ho avuto una crescita esponenziale, ma allo stesso tempo so che il mio margine, per migliorare ulteriormente, almeno qui, è ormai molto ridotto.

Toronto non mi piace, non mi è piaciuta molto fin dall’inizio anche perché non c’è niente di bello se non l’isola davanti la città, una meraviglia. Ci sono due cose però che apprezzo: i supermercati sempre aperti ed il fatto che sia una metropoli davvero internazionale. Il fatto di poter incontrare ed essere in contatto con persone di ogni angolo del mondo è stimolante e affascinante, un concetto che in Italia non sappiamo minimamente cosa possa essere.

Mi sono mancate molte cose e a certe credo che uno non si abitui mai. La distanza è relativa, il problema rimane il fuso-orario, un limite che mi taglia fuori in molte circostanze. Ho passato intere settimane – e capita ancora oggi – senza parlare italiano per giorni, solo il weekend era (ed è) il momento per farlo, quando Skype mi connette con quel mondo che vive sei ora avanti a me.

Una marea di complicazioni ho dovuto fronteggiare, sfighe di vario tipo che spesso mi hanno esasperato. Ho meno pazienza di un tempo, combatto solo se ne vale davvero la pena, non corro più dietro a nessuno, ma soprattutto ho accettato diverse cose di me stesso. Non fossi stato qua, e parlo soprattutto dell’anno appena finito, forse non sarei mai stato in grado di raggiungere questo punto.

Come detto, avrei voluto fare molto di più: girare, visitare altri posti, ma non ho potuto. Ho capito quanto sia strano vivere in un luogo che esiste per 7 mesi e poi vive realmente solo per altri 5 a cavallo dell’estate. Un posto che inevitabilmente non fa per me.

Vivere da solo è stato un passaggio chiave, ho sempre immaginato che fosse una soluzione positiva per me ed i fatti non mi hanno smentito. Ancora oggi è uno status che non vorrei cambiare per nessuno motivo al mondo, e che mi ha costretto a qualche sacrificio in più dal punto di visto economico, ma che ho fatto con piacere e consapevole del valore dell’investimento personale.

Due anni sono alle spalle e so bene che il 12 gennaio 2015 è stato l’inizio di una fase determinante della mia vita, il quarto turning-point che deriva ovviamente dai tre precedenti.

Ventiquattro mesi intensi, in cui ho conosciuto persone interessanti, soggetti strani, gente riprovevole, il Papa, validi colleghi; ventiquattro mesi in cui mi sono sentito italiano come non mai e scoperto più europeo di quanto immaginassi.

Due anni essenziali e che rivivrei senza dubbio, due anni che tanto mi hanno dato, ma che tanto mi hanno anche tolto.

“Hai capito che era l’ultima volta quella?”

Me lo chiedo spesso se quella persona pensava che nel momento in cui stava facendo quella determinata azione, fatta altre centinaia o migliaia di volte, poteva immaginare che invece, quella volta, era l’ultima. Ci penso spesso e a volte l’ho chiesto a qualcuno.

Ci pensai anni fa, domandandomi se il “Super Eroe” fosse a conoscenza del fatto che mentre lasciava casa di Francesca sarebbe stata l’ultima, visto che il giorno dopo si sarebbero lasciati.

Anni fa invece, camminando per Budapest, chiesi a mio padre se l’ultima volta che era stato lì aveva pensato che quello sarebbe stato l’atto conclusivo dopo una serie infinita. La risposta fu: “Un po’ sì” alludendo al fatto che una era si stava per chiudere, e quindi, quel viaggio di ritorno verso Roma, in qualche modo poteva certificare uno sbarramento.

Mi incastro spesso in questa riflessione che ovviamente ha anche la versione più drammatica. Tipo di chi muore, magari in un incidente e quindi non si aspetta certo che la mattina possa essere l’ultima volta che vede la moglie o i figli. Ci penso frequentemente a queste cose, o almeno in modo puntuale quando capita qualcosa che mi conduce a questa considerazione.

Io, ad esempio, che il 29 marzo del 2009 fosse l’ultimo derby per tantissimo tempo mica lo immaginavo. Certo, speravo che la Fortitudo finisse in A2 ma mai avrei pensato che sarebbe passata una vita prima di incontrarci di nuovo, così come mai avrei creduto che potesse capitare nella serie cadetta.

A quella tripla di Vukcevic sulla sirena esultai come un gol al novantesimo, significava espugnare il PalaDozza e fare 2 su 2 nelle stracittadine della stagione, soprattutto dopo aver perso entrambe le sfide dell’anno precedente.

Il 2009 dicevo, una vita fa, sono passati quasi 8 anni, eravamo nel bel mezzo della terza serie, il terzo anno di università, tre giorni dopo lei mi avrebbe svelato il suo nome nascosta dietro dei Rayban verdi mentre indossava un giacchetto nero di pelle.

Più o meno un miliardo di cose dovevano ancora succedere e Mou si apprestava a vincere il suo primo scudetto, la Juve era invece una squadra qualunque. Una squadra neo-promossa l’anno prima in cerca ancora di identità e qualità.

Be, insomma, quello fu il derby 103 di Bologna, 93 mesi dopo è andato in scena il 104. Nel mezzo, retrocessioni, una squadra sparita, rifondata, sdoppiata, promozioni, mancati ripescaggi, una ridda di fatti piuttosto drammatici che hanno generato il primo derby delle Due Torri in A2, a Casalecchio.

Dopo anni, il mio sguardo è tornato così a cercare subito la data del derby al momento della pubblicazione del calendario. Sarebbe dovuto essere il 23 dicembre, e ricordo di aver pensato anche: “Sarò a casa, a Roma, e potrò guardarlo come ai vecchi tempi”. Manco per niente, invece.

Partita rinviata al 6 gennaio e io ero già qui, nuovamente. In un posto dove l’Epifania non è festa e pertanto non ho potuto vedere la gara. In poche parole, un colpo al cuore.

Aspetti 8 anni per vedere questa partita, te la piazzano nel calendario facendoti un regalo, sembra troppo bello, infatti la spostano e tu vivi la beffa.

Malgrado tutto, alla fine, l’attesa mi ha coinvolto anche a Toronto e ho aspettato la partita con enorme coinvolgimento. Per un attimo ho pensato anche di darmi malato. Il derby, è anche questo.

Ho seguito la gara sul sito della Legabasket, poi sono stato portato via da un meeting fiume, quando sono tornato la gara si stava avviando verso la fine con un equilibrio che manteneva tutto aperto. Col passare dei minuti sono piombato in una trance agonistica vera, mi sono isolato totalmente visto che la Fortitudo sembrava mantenere il piccolo vantaggio. Nel finale poi, pareggio nostro e la possibilità di vincere la partita per entrambe le squadre, fino all’epilogo del supplementare.

Il sito ad un punto ha iniziato ad impazzire inventando risultati in tempo parziale non veri come un certo 79-84 mai esistito ma che mi ha fatto sbiancare, a quel punto per capire meglio mi sono dovuto consegnare al mostro dell’angoscia per antonomasia: la radio.

Mi sono imbattuto in una radiocronaca di Radio Nettuno in cui dopo 5 secondi ho capito che chi parlava tifava non per l’altra parrocchia. E mentre vivevo gli ultimi possessi in apnea, pensando qualunque insulto verso i due e a tutto ciò che rappresentavano, mi sono reso conto che mi ero alzato in piedi con il cavo delle cuffie tirato, in pieno clima derby.

Paura soprattutto, oltre al fastidio di non poter vedere e quindi capire in prima persona quello che stava succedendo, ma ancor di più la smania di vincere e di batterli ancora. Per un paio di minuti credo di essermi estraniato da tutto e mentre la frequenza cardiaca aumentava, per un attimo mi sono ricordato perché tifo, perché in fondo quella canotta con la V nera significa qualcosa, un sentimento, e tutto il resto è solo conseguenza.

Mentre la Fortitudo sbagliava il possesso finale, quello del sorpasso, ho capito che mi stavo lasciando andare, anche forse a un semplice: “Merde attaccateve ar cazzo”.

Non l’ho fatto, e nel godimento profondo di sentire le voci roche e tristi dei due radiocronisti fortitudini, mi sarei voluto buttare a terra per la gioia ma pure per il dispiacere, sì quello di non aver visto e vissuto degnamente un derby così. Una gioia del genere.

Non pensavo che avrei dovuto aspettare otto anni, ma è successo, e chissà quando ricapiterà una roba di questo tipo, ma in fondo l’ho “perso”, e certe emozioni, non si possono rivivere.

Quando mi chiedono cosa mi manchi di più dell’Italia, una delle mie risposte è questa: il fatto che tutto quello che perdi poi non tornerà. È una certezza, nel bene e nel male. Certe sensazioni non hanno prezzo e non sai mai quando torneranno, anzi, a volte potrebbero passare e potresti non rivederle mai più.

Non ci è dato infatti sapere quando qualcosa ha deciso di succedere per l’ultima volta, spero solo che non sia questo il caso, perché nonostante tutto, è stata un Befana che ricorderò.

Perché sì, a Casalecchio di Reno, finisce 87-86 per la Virtus che vince il derby numero 104.