Inerzia

È domenica, e doveva essere un lungo weekend, invece, sarà un mini fine settimana. Fuori fa -17, hai lasciato l’ufficio alle 18,45, l’Inter ha perso al 91’, il Milan ha vinto, la Virtus ha perso di 4 punti a Caserta, hai il raffreddore, il cornetto la mattina ti si è bruciato subito per una svista di un secondo, il sabato sera ti sei dovuto sorbire una rottura di coglioni telefonica di una, il tuo capo ha iniziato a metterti addosso una strana pressione del tutto immotivata e improvvisa. E poi? Poi boh, cioè vai avanti uguale, per inerzia, seguendo il flusso, prosegui. A prescindere. Perché di fondo è l’unica cosa che puoi fare. E allora, pensi che una bella giornata arriverà, e lo pensi con una convinzione figlia di non si sa cosa, non di “Mica può sempre piovere”, lo senti e ci credi. Ci vuoi credere, magari hai ragione. Alla faccia di chi diceva che eri pessimista.

Pensieri di neve

Più di tutto, in fondo, gli pesava quella strana sensazione su cui aveva iniziato a ragionare da alcuni giorni, quel sentirsi espatriato sì, ma senza città, ma non con quello spirito avventuroso e affascinante del cittadino di mondo, più che altro con quel peso di un legame quasi destinato a sciogliersi.

Non era casa sua, ma in qualche modo non lo era nemmeno più quella di un tempo, chissà perché, la vita, i percorsi strani, sensazioni attorcigliate fra loro e quasi impossibili da sistemare in maniera ordinata.

Era pomeriggio ormai, un pomeriggio di domenica, simile a quello precedente e molto probabilmente uguale a quello successivo, la neve picchiava a terra, non erano fiocchi ma piccole scaglie di acqua che se arrivavano controvento davano fastidio, soprattutto vicino agli occhi.

I grattacieli della città intanto, sembravano giganti senza testa, gli ultimi piani infatti erano avvolti da fumo e nebbia, le luci degli uffici, malgrado tutto, non riuscivano a penetrare attraverso le finestre quel muro di vapore.

Camminando gli cadde l’auricolare sinistro, ma la pigrizia e il timore di tirare fuori la mano dalla tasca anche per un secondo soltanto lasciarono il filo ciondolare, in fondo sentiva la musica ma non l’ascoltava del tutto, era lì soltanto a fare un po’ di base, ad accompagnare dei pensieri che si rincorrevano con il fiatone, senza respiro come se dovessero venire fuori tutti insieme contemporaneamente.

Camminando per la città, in attesa che la mano del semaforo diventasse bianca dandogli il permesso per attraversare l’incrocio, gli venne in mente che un po’, in uno strano modo, particolarmente egoistico, la detestava.

Lo aveva scritto in un messaggio mandato poche ore prima, alcune righe in cui provava a spiegare il suo concetto, discutibile, astratto, ma non completamente da rigettare. D’altra parte, si diceva, se stava lì, che camminava guardando le decine di persone che affollavano i vari Starbuck’s del centro, era anche per colpa sua, lei aveva delle responsabilità per quello.

Gli tornò in mente che quel giorno pioveva, non nevicava certo, lo aveva fatto già a febbraio, otto mesi prima, ma quel clima gli ricordò tante cose. La percezione è che quel fastidio, quel malumore e spesso malessere, fossero ancora delle rate da pagare, dei conti, apparentemente interminabili, da saldare. Al dolore di un tempo si era quasi sostituito il fastidio di essere lì, in un posto inevitabilmente non scelto, ne tanto meno prescelto, per colpa di altri. Non era colpa di qualcuno in specifico, la vita, in fondo, si ripeteva, fa tutto da sé alla fine, ma c’era comunque la firma e l’autografo evidente di qualcuno su come si era dipanato tutto negli ultimi anni.

Scelte esterne avevano influenzato le sue, mosse di altri avevano spostato le pedine sulla dama e chissà quanto c’era di suo in tutto quello. Chissà se era un bene o un male. Chissà, soprattutto, se certe scelte gli avevano davvero spalancato delle porte, come in molti sostenevano, o avevano dilatato un ferita in modo differente, spostandola in un’altra zona ma sempre con un chiaro riferimento alla sua provenienza. Strano pensare che una assenza possa avere peso, difficile credere che certe decisioni possano dettare il ritmo delle vicende per tanto tempo, per una quantità indefinita di tempo, eppure, ripensando a tutto quello si accorse che era così.

Se era lì, era anche per una telefonata ricevuta una mattina di ritorno dalla palestra, una domenica per l’appunto, quando la pasta era in tavola e Bologna -Inter si sarebbe giocata nonostante un diluvio incredibile. E sì, perché come già detto, quel giorno pioveva, pioveva ovunque, e non solo in Italia o per strada, diluviava dappertutto, anche in luoghi inesplorati dell’anima, in mondi figurati.

Mentalmente sfogliò un po’ di pagine andate, gli tornò in mente il giovedì precedente, il vino bianco, il cavatappi, le parole, la metro e quel senso un po’ di incompiuto, di vorrei ma non si può, di concetti chiari e frasi ribadite. Quel senso di estraneità e di solitudine che viveva in quei momenti, quando avrebbe voluto alzare il telefono per chiamare qualcuno ma per il fuso orario e per un atipico senso di pudore personale non lo fece. Un po’ si vergognava ad ammettere dei limiti, di aver perso del tempo o a raccontare di quello che non andava, in fondo si era anche un po’ stancato. Si annoiava nel sentirsi, nel riascoltare certi discorsi.

La città intanto si copriva di buio, le luci si facevano più forti, la neve lungo le strade stava aumentando e i passi lasciavano orme precise.

Freddo sì, ma non troppo da non poter uscire, non troppo da tenere tutti i pensieri chiusi in meno di 30 metri quadrati. Anche il week-end iniziava la sua rapida discesa verso il traguardo e così ripensò al bagno della domenica, ai secondi tempi delle partite di basket ascoltate alla radio e al profumo della cena che passava in qualche modo, sotto la porta o fra le fessure. Forse quella era casa sua, quel ricordo, quella sensazione, quella normalità fatta di consuetudine per cui avrebbe pagato decine di dollari pur di riassaporarla un attimo.

La strada verso casa però era ormai finita, la neve non picchiava più, si adagiava soffice a terra, come se non volesse disturbare, come se si fosse stancata anche lei di cadere. 

Quelle domeniche un po’ così, a St Clair (Parte II)

Faccio esattamente così, mentre la coda dell’occhio la appoggio sulla diagonale per decifrare la spaventosa somiglianza. Parlano, dicono che devono andare a Mississauga, e visto che sono scemo mi dico: “Questa però è la suocera, quindi la madre del top player, chissà, magari è venuto a fare il chirurgo qua”.

Il panino è buono, sbriciolo ovunque perché è fresco e friabile, però non me lo godo. In mezz’ora si sono riaffacciate una serie di cose che mi hanno ricordato perché all’estero in fondo sto bene. Teoricamente.

Pago, esco, mi fermo da Seven e mi prendo una Canada Dry d’ordinanza che non so per quale motivo pare corretta con la grappa e salgo al volo sul tram. Il viaggio di ritorno verso St Clair West Station è una specie di monologo in cui riprendo la frase iniziale del post.

Mi piace stare lontano, mi piace perché mi tiene in disparte. Partire, tornare e poi ripartire mi fa bene. Questo status forzato, questo esilio, questa distanza in realtà mi sollevano, perché a Roma ci sono ancora troppe cose, ovviamente, che mi riportano indietro e a volte mi trasmettono un malumore, un dolore persistente. Ecco, starmene qua attutisce tutto. Mi isola. Per quanto poi stare così da solo e avere spesso larghi momenti di vuoto mi porta a pensare, rielaborare, riflettere. Questa perenne solitudine non mi pesa, ci sono abituato, anche se per qualcuno è assurdo pensare che io stamattina sia uscito da casa per andare a pranzo fuori da solo. Per me è normale, è solo che poi certi momenti ti conducono a ritornare indietro e a pensare.

Stare altrove ti elimina un serie di riferimenti, dettagli, colpi bassi che a casa, nel tuo ambiente, sono costanti, il dazio da pagare è appunto uno, quello che quando non sei impegnato, la testa se ne va.

Penso tutto questo mentre prendo la metro per Bathurst, e mi dico che nessuno mi obbliga a tornare. È vero, però è altrettanto vero il contrario, ossia che prima o poi mi dovrò riappropriare di certe cose e di certi spazi. Di ricordi o momenti, perché così non è che sia una gran cosa. Poi penso ad una frase detta da David a colazione quando eravamo a Sofia, e so che una parte di me, piccola, ma pur sempre esistente, vorrebbe starsene in eterno qua proprio per evitare quella cosa detta dall’unico vero ciociario. Quella eventualità, che tanto prima o poi accadrà, a me terrorizza letteralmente, motivo per cui, mentre bevevo un succo di frutta guardai David e gli risposi: “Be, non penso proprio, il solo pensiero mi angoscia”

All’estero non ci sto male, anche per questo. Perché giro per strada e sto in pace. Al sicuro. Poi certo, capitano anche mattinate come queste, fra riviste e sosia.

Ma vabbé, scherzi del destino e ironie della sorte che capitano ogni tanto.

Spero.

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Quelle domeniche un po’ così, a St Clair (Parte I)

“Che poi io all’estero, mica ci vivo male, anzi.” Penso questo mentre il tram 512 mi trasporta dalla metropolitana a St Clair West Avenue, è una domenica di fine aprile ma non è primavera ancora. Sfodero la giacca leggera, ben abbottonata, ma quando le nuvole coprono il sole e si alza l’aria, un po’ di fresco lo accuso. Taglio un pezzo di città, Toronto non dorme più ma non si è nemmeno svegliata del tutto, o meglio, ancora non è fuori a riempire vie e negozi.

Ho deciso di andare alla scoperta di una Italian Bakery, un forno all’italiana piuttosto noto, in una zona che un tempo era la prima vecchia Little Italy della città. Scendo un po’ prima della mia destinazione per farmi due passi a piedi, per guardarmi la zona meglio e respirare questo posto. Mi fermo a St Clair Church dove c’è la messa domenicale, entro, mi guardo attorno e aspetto la fine dell’omelia. Uscendo mi imbatto poco dopo in un signore di colore che mi ferma e mi mostra una rivista di taglia medio-piccola, leggo solo “Tower”, ma ho capito immediatamente. Lo saluto, lo ringrazio garbatamente ma gli dico che non sono interessato e proseguo.

Sì, proseguo.

Proseguo e dò sfogo ad una serie di improperi a voce alta, tanto sono da solo e non ho nessuno nelle vicinanze. Il turpiloquio non è rivolto a nessuno, men che meno al signore appena incrociato, impreco semplicemente contro il mondo e i sentieri della mia esistenza che si annodano e si stringono sempre più forti, inveisco contro un filo rosso che evidentemente si snoda da tempo.

Mi riviene in mente la chiamata di Antonio del sabato che prima di finire si è chiusa con un suo racconto il quale mi ha occupato testa e immaginazione per il resto della giornata.

Metto in icona un attimo la faccenda, controllo i numeri civici e capisco di essere nei pressi del forno. Vedo davanti ad un bar tre facce da italiani che parlano amorevolmente e mi fermo, li interrompo e gli chiedo informazioni sul forno. Mi dicono che è cento metri più avanti sulla sinistra, mentre l’uomo che mi sta dando le indicazioni, a un punto, rivolgendosi ai suoi due compari esclama: “Ah, abbiamo un toscano qui!” Me lo guardo e gli dico: “No guardi, non sono toscano.”

Il secondo incalza e mi dice, con la classica espressione del romano che la sa lunga (non sapevo fosse romano, l’ho scoperto 30 secondi dopo, ma l’espressione era inconfondibile) “Ma questo è ciociaro!”

A quel punto, mi trovo costretto a intervenire perché ci stanno andando giù pesanti con buona pace del mio vero amico ciociaro. Ribadisco così che non sono ciociario con un triplo no. Un secondo prima che sveli la mia identità, il primo riprende e dice: “Ma no, è napoletano!”

In maniera davvero involontaria, del tutto incontrollata, faccio due passi all’indietro, alzo le mani tirandole un po’ in avanti e mi esce un inappropriato: “Per l’amor di Dio, non scherziamo. Sono romano. Vengo da Roma. Io.” Esce tutto il mio campanilismo che scoppia come un petardo. Mi scappa così e non posso più tornare dietro.

Il punto è che il terzo che non ha ancora parlato, dopo poco capisco che è un figlio di Parthenope. Non l’ha presa bene, presumo. Ma tant’è. Il romano mi chiede la mia zona d’origine che ovviamente strappa l’ironico e immancabile “Bella zona…” con tanto di sorriso. Mi domanda perché non si percepisca il mio accento ed io rispondo che tendenzialmente parlo in italiano ma anche che per motivi professionali ho calibrato mira e dizione. La mia attenzione viene a un punto catturata da un altro tizio, davvero orrendo, che esce dal bar. Non a caso sfodera una giacca falsa del Milan, è molto comico e il vestito gli calza a pennello.

Saluto la combriccola e riprendo la mia passeggiata. Attraverso i binari del tram ed entro nella bakery. Giro di perlustrazione e poi decido che voglio il salame. Assolutamente. Chiedo in italiano alla signora se è possibile avere un panino, lei acconsente, me lo prepara e me lo serve.

A quel punto mi guardo intorno e vedo solo un tavolino libero attaccato a due signore che stanno facendo in realtà colazione. Mi avvicino e poi mi blocco. Guardo la giovane delle due donne, la fisso con sto cazzo de vassoio fra le mani, sto panino tagliato a metà e rimango cinque secondi immobile. Il cervello mi dice semplicemente: “Mattè, sì, è uguale Elena. Ma di una somiglianza spaventosa. Lascia stare, oggi è andata così. Mettiti là e mangiate sto panino, su.”

CONTINUA