Sì, domani

Sul treno da San Pietro a Tiburtina, rientrando da una giornata di lavoro, riflettevo che questo avvicinamento a domani è stato involontariamente molto significativo.

Vivere questo mese abbondante e casa di mia nonna, in una rivisitazione di anni passati insieme, con l’aggiunta di mia madre, ha dato un tocco particolarmente suggestivo a questo matrimonio.

È stato come tornare a casa prima di un grande evento, riadattarsi a vecchie abitudini, suoni familiari, profumi di infanzia e adolescenza. È stato come tornare da un viaggio e rivedere con piacere dopo tempo volti conosciuti, in poche parole sentirsi a casa.

Non sono suggestioni ma sensazioni vere quelle vissute in queste feste, e in questi giorni a casa di mia nonna, in un quadretto familiare che mai avremmo immaginato fino a poco tempo fa.

Eppure, ci siamo ritrovati a condividere spazi e divani, letti e bagno – sfortunatamente uno – a stilare programmi, a organizzare sempre qualcosa in una sequenza di appuntamenti di rara intensità.

Il rumore del portone, il mio letto, i libri e il mio personale archivio che non va oltre il 2006, dettagli e frammenti che mi hanno riportato ad altri tempi a cui continuo ad appartenere nonostante i calendari passati nel frattempo.

Casa di mia nonna come rifugio e tana, e se c’è un luogo in cui dovevo vivere questi giorni, quello era il più sensato, il più adatto.

Ho trovato il senso di questo mese anche nel suo accompagnarmi a domani, e non sarebbe stato corretto non andare all’appuntamento più importante senza la mia macchina. Da giorni non funzionava, per giorni ci ha fatto impazzire non riuscendo a trovare il problema e quindi nemmeno la soluzione.

Il rischio logistico e pratico di non avere una macchina per domani si sommava a qualcosa di più personale per me, non compiere questi km seduto alla guida della macchina che negli ultimi 13 anni mi ha portato dove volevo.

Ieri siamo riusciti a risolvere questo ultimo contrattempo, a superare l’ennesimo ostacolo, e ora, si va.

Anzi no, si aspetta, senza dormire bene ovviamente, come quando l’indomani c’è qualcosa che ti attende e non chiudi occhio pensando a quel che sarà. Una laurea, una partenza per una nuova esperienza da qualche parte, una finale sognata, stasera è una di quelle nottate: l’attesa e la smania, il tempo che passa in modo irregolare e la voglia che sia già domani.

Sì, domani.

Dieci anni dopo, è sempre 16 dicembre

Iniziava 10 anni fa questa storia del 16 dicembre. Dieci anni fa infatti mi laureavo alla triennale e chiudevo il mio primo ciclo di università. Un bel mercoledì di sole, di cielo terso, un piccolo traguardo che metteva fine a un periodo ribattezzato la “Tesissea”: una giornata perfetta.

Dieci anni sono passati e questo anniversario fa decisamente più effetto degli altri per la sua cifra doppia e quindi tonda.

Un decennio che poi mi ha portato per casualità varie volte a ricordare questo giorno in modo diverso, perché l’anno dopo ero in viaggio fra Abu Dhabi e Dubai in attesa di giocarmi in tutti i sensi la Coppa Intercontinentale essendo lì.

Mille volte mi sono detto – e mi è stato detto – se mai avrei creduto di ritrovarmi negli Emirati un anno dopo per quel motivo, la risposta è sempre stata assolutamente no, ma d’altra parte, quel 2009 stava lasciando il passo e lo spazio al 2010, al famoso annus mirabilis.

Ogni 16 dicembre mi sono ritrovato qua a scrivere una specie di resoconto dell’anno e ancora di più a sbilanciarmi, per gioco e scaramanzia, su dove mi sarei ritrovato il 16 dicembre successivo.

“Dimenticavo la cosa più importante: il pronostico sul prossimo 16 dicembre. Spero lontano da tutto questo, sotto ogni punto di vista”.

Questo era il pensiero finale dello scorso anno, una settimana dopo il primo disastro che inaugurava una catena di un certo livello.

La risposta è che sono qua. Per niente lontano, ma felice almeno di scrivere queste righe da casa di mia nonna, da questa camera, sopra questa scrivania.

Un anno che mi ha messo in sospeso, tenuto appeso, e vincolato. Un anno in cui a un punto mi è stato chiaro che non era possibile essere altrove oggi, una conseguenza dei tanti problemi, alcuni vissuti indirettamente.

Quindi? Che 16 dicembre 2020 pronosticare? Cerco la controtendenza, dico quello che non spero, e allora scrivo l’opposto di quanto detto 365 giorni fa.

Fra dodici mesi esatti ci vediamo qua, in questa provincia. Spero di no, ma temo di sì. A essere ottimisti in certi tempi è impresa semplicemente ardua.

“E pure sto Sinodo…”

“E pure sto Sinodo se lo semo torto de mezzo…”

Per la terza volta alla fine di ottobre mi sono ritrovato a ripetere questa frase ormai proverbiale, pronunciata una sabato sera di ottobre del 2015 al termine del primo Sinodo seguito, quello da insider e indubbiamente il più faticoso.

Tre anni dopo, ossia lo scorso ottobre, ho vissuto il primo Sinodo da corrispondente a Roma, lunghissimo e ricco di insidie, 33 giorni di lavoro senza pausa.

Domenica invece è terminato l’ultimo, quello più breve dei tre e certamente più leggero per quanto mi riguarda in termini di lavoro e impegni.

È finita quindi anche questa avventura, e allora è bene dare una occhiata a ciò che dice questo documento finale approvato e votato dai presenti in aula.

Qui di seguito il mio articolo.

Il concetto di conversione è l’elemento che accompagna il testo finale del Sinodo che si è concluso domenica mattina con la messa nella Basilica di San Pietro.

Nel tardo pomeriggio di sabato, come tradizione ormai del Sinodo, è stato votato il documento finale che racchiude questi 21 giorni di Assemblea, un testo approvato a larga maggioranza dai 181 presenti in aula.

Cinque capitoli e 120 paragrafi, questa l’ossatura del documento. Nel primo capitolo c’è un invito ad una “vera conversione integrale”, con una vita semplice e sobria, sullo stile di San Francesco d’Assisi. I dolori dell’Amazzonia sono il grido della terra e al tempo stesso il grido dei poveri, un concetto ribadito dal Santo Padre nella sua omelia di domenica quando ha sottolineato che:

“anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi”.

Il documento evidenzia anche i tanti dolori e le numerose violenze che feriscono l’Amazzonia minacciandone la vita. Problemi come la privatizzazione di beni naturali; i modelli produttivi predatori; la deforestazione che sfiora il 17% dell’intera regione; l’inquinamento delle industrie estrattive; il cambiamento climatico; il narcotraffico; l’alcolismo; la tratta; la criminalizzazione di leader e difensori del territorio; i gruppi armati illegali, tutti problemi che attanagliano l’Amazzonia.

Nel secondo capitolo il concetto di conversione viene declinato a livello pastorale: la missione della Chiesa in Amazzonia dovrà essere “samaritana”, ossia andare incontro a tutti, altro tema ribadito dal Papa nelle ultime settimane, in un mese di ottobre che ha coinciso anche con quello missionario straordinario.

L’urgenza di una pastorale indigena e di un ministero giovanile sono i temi centrali di questo capitolo. Si trova anche l’invito a promuovere nuove forme di evangelizzazione attraverso i social media e ad aiutare i giovani indigeni a raggiungere una sana interculturalità.

Il terzo capitolo parte da un presupposto: la necessità di avere una inculturazione e una interculturalità per raggiungere una conversione culturale che porti il cristiano ad andare incontro all’altro per imparare da lui. Proprio i popoli amazzonici sono in grado di offrire insegnamenti di vita e sono coloro i quali possono spiegare concretamente che tutto il creato è connesso, essi sono infatti i migliori guardiani dell’Amazzonia. Anche perché, “La difesa della terra – si legge nel testo – non ha altro scopo che la difesa della vita”.

L’annuncio del Vangelo deve essere quindi il più distante possibile da “un’evangelizzazione in stile colonialista” e dal “proselitismo”, ma un messaggio che promuova una Chiesa dal volto amazzonico, rispettando storia, cultura e tradizione dei popoli indigeni.

La conversione ecologia è il tema principale del quarto capitolo. L’ecologia integrale non deve essere considerata però come un percorso alternativo che la Chiesa può scegliere per il futuro, bensì come l’unico cammino possibile per salvare la regione.

Tra le proposte del documento c’è anche quella della creazione di un fondo mondiale per le comunità amazzoniche, una azione per proteggerle dal desiderio predatorio di aziende nazionali e multinazionali.

L’ultimo capitolo, il quinto, torna sul concetto di sinodalità, affermando che: “in tale orizzonte di comunione e partecipazione cerchiamo i nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministeralità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico”. La sinodalità, in continuità con il Concilio Vaticano II, va letta come corresponsabilità e ministerialità di tutti, partecipazione dei laici, uomini e donne, ritenuti “attori privilegiati”.

Il paragrafo 103 spiega come nel corso dell’Assemblea siano emerse voci a favore del diaconato femminile. A questo proposito si chiede di poter condividere esperienze e riflessioni con la Commissione di studio convocata dal Papa nel 2016 e “attenderne i risultati”.

In conclusione, il paragrafo 111 apre alla possibilità “nelle zone più remote” di “ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo” pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una foto

“C’è sempre un nuovo inizio”. Recita così una specie di striscione appeso su un tavolo nei pressi della segreteria studenti. Ci sono alcuni ragazzi che parlano e spiegano, altri domandano, c’è un po’ di fila ma decido di aspettare.

Ho appena attraversato la piazzetta, ho marciato con passo non del tutto sicuro sopra la stella, ho aperto la porta di vetro e sono entrato nell’atrio, quando il mio sguardo incrocia questa scritta.

La frase viene attribuita a San Francesco, che guarda caso il calendario ci racconta essere celebrato proprio oggi. Stranezze delle vita.

È il 2 ottobre del 2006, e come avrete forse capito è il mio primo giorno all’università, il primo da matricola. Poco dopo incontrerò un ragazzo di Frascati che gentilmente mi aprirà la porta dell’Aula Rossa con le sue Asics bianche, e qualche minuto più tardi, un giovanotto in prima fila con un cappellino dell’Italia.

Un nuovo inizio appunto, come quello che oggi si respira qui. Un posto nuovo, una avventura che nasce.

Ho scelto questa foto perché racchiude troppi elementi per preferirne un’altra, una che apparentemente potrebbe sembrare più bella. Ci siete voi, c’è il protagonista di questa serata, c’è ovviamente l’università, il nostro terreno di conoscenza, ma soprattutto c’è un profondo senso di autenticità.

In un mondo in cui le persone cercano di accaparrarsi like e cuoricini, questa foto ha nella sua imperfezione iniziale il pregio di essere vera. Nessun filtro, nessun artificio. Tre persone che mangiano, in un’aula, che non si aspettano uno scatto e sono ciò che sono nella loro essenza.

Ha dieci anni questa foto, è datata luglio del 2009, e mentre premo il pulsante della fotocamera, Alfredo è seduto pochi banchi dietro. Ci siamo tutti insomma, siamo lì in attesa di sostenere un esame.  Magari preoccupati, con un filo di tensione, ma siamo lì, e soprattutto, siamo qui oggi.

Un nuovo inizio merita di essere celebrato nel modo migliore e questa sera l’occasione sembra straordinaria. Nessun regalo per la casa, nessun arnese per cucinare, ma una foto, una immagine che racchiude tanto.

“C’è sempre un nuovo inizio” leggevo un lunedì mattina di 13 anni fa. E allora, che sia un buon inizio anche questo, insieme a voi.