“E poi…Berlino!”

E pensare che a Berlino nemmeno dovevamo andarci. Saltata la tanto agognata Lisbona, la capitale tedesca è diventata la soluzione di ripiego che invece si è rivelata perfetta in tutto: città, storia, clima, prezzi.

Il quinto viaggio europeo con il Catto è stato forse il migliore, e seguendo il filone di Sofia ossia “zero filtri”, ci siamo divertiti immensamente.

Berlino è una capitale atipica perché è moderna come teoricamente una capitale non può essere fino in fondo. La storia recente e travagliata di questa città cambia però del tutto la prospettiva.

Un posto distrutto 70 anni fa è stato ricostruito in un modo diverso e quindi pensando al cittadino: grandi spazi, tanto verde, strade enormi, mezzi e collegamenti iper-sviluppati, un esempio di rara efficienza. Anche per questo ho apprezzato Berlino e concordo con tutti coloro i quali me ne avevano parlato bene.

Due cose metto al di sopra di tutto, uber alles come direbbero loro, il museo della DDR e gli spazi lungo lo Sprea, il fiume cittadino.

La verità è che anche qui ci siamo ritrovati a invidiare tante cose agli altri, cose apparentemente sciocche ma che proprio per questo ti domandi come sia possibile che noi non riusciamo a farle. Di certo, entrambi abbiamo avuto la netta sensazione che Berlino sia una città in cui ci si potrebbe vivere in modo più che decente.

Queste però sono storie che fanno parte del viaggio, riflessioni e considerazioni lucide, niente a che vedere con “Pierluigi Pardo” che ha viaggiato con noi, i classici tormentoni, la quantità abnorme di km percorsi, le birre in riva allo Sprea (che è anche anagramma del cognome del Catto), la signora che cerca di ammazzarsi in bici, la gratuità di certe frasi, i versi, le cazzate, le centinaia di cazzate aggiungerei, le colazioni, la “demasiada harina”, gli anacardi, “e poi” (cit.) Charlottenburg, gli errori nel finale per andare in aeroporto, gli italiani ovunque, talmente presenti in ogni angolo che a un punto li abbiamo detestati.

Berlino ci ha riportati indietro nel tempo. Più di otto anni fa partivamo per la nostra prima tappa europea con destinazione Atene, anche se doveva essere Istanbul, quasi un decennio dopo siamo ancora lì, schierati, a guardia del fomento.

E guai a chi ce lo tocca.

Ci vediamo a Lisbona, Catto.

Prima o poi.

La fine dell’esilio. Per me, per noi

Domenica sera è terminato il mio esilio dallo stadio e dall’Inter, così come quello di questa banda di pazzi che tornano in Champions dopo sei anni.

Era dicembre del 2012, un altro Lazio-Inter, e inconsapevolmente per l’ultima volta vedevo una partita della mia squadra dal vivo, in un sabato sera che ricordo ancora con grande desolazione. Sono passati cinque anni e mezzo da quella volta, più di sei invece dall’ultima nottata europea fra i grandi, datata 13 marzo 2012.

Mi ero laureato da due settimane e per una beffa del destino mi piazzarono il concerto di Noel Gallagher a Roma in concomitanza di Inter – O. Marsiglia ritorno degli ottavi. Vidi la partita rientrato a casa, senza sapere il risultato, una enorme delusione culminata con un gol sciocco e sfortunato preso ovviamente nel finale.

È passato tanto tempo da questi due eventi, ma finalmente domenica ho potuto ricongiungere i punti e rimettere tutto a posto. Io allo stadio, a vedere Lazio-Inter, e l’Inter nuovamente nell’Europa che conta.

È stata una di quelle serate che conosciamo bene, quelle che ci appartengono. Randomiche, insensate, fuori ogni logica, schizofreniche, palpitanti, travolgenti e inattese. Insomma, una serata da Inter che tradotto significa soavemente folle.

Ho di fondo vissuto solo gli ultimi 15 minuti, dal 2-2 in poi. Prima di quel momento, fra consapevolezza e oggettiva onestà intellettuale, non riuscivo a farmi coinvolgere più di tanto da una partita giocata male e non come avremmo dovuto e da un risultato quasi sempre in salita.

Nel finale però, tutto è cambiato. L’inerzia si è spostata completamente in pochi secondi: un gol, un rosso, e tutto ancora in gioco. Stavolta davvero.

È stato bello riassaporare certe emozioni, rivedere un settore ospiti stracolmo e di fondo allargato, considerando che c’erano interisti ovunque nel resto dello stadio. È stato emozionante tornare a soffrire, cantare e gioire. Vivere il recupero quasi con la convinzione – a causa di drammatiche esperienza passate – che qualche disastro potesse comunque succedere.

È stata una notte che ci ha riportati indietro nel tempo. Ma io sapevo che sarebbe stata una partita-romanzo come le altre due volte in cui avevamo acciuffato l’Europa che conta passando per il quarto posto. Chi ha buona memoria sa come nel 2000 e quattro anni dopo riuscimmo a centrare l’obiettivo fra atroci sofferenze.

Ma l’Inter è questa roba qua e solo chi c’è dentro può capire. Può sapere.

Tutto è sembrato esagerato, anche le celebrazioni, ma in questi 6 anni ne abbiamo viste di tutti i colori, sei anni che fanno parte del periodo meno vittorioso della nostra storia, un letargo emotivo e di successi che il prossimo anno toccherà l’ottavo anno.

È stata una liberazione. Una roba così. Non a caso, al fischio finale, avrò gridato senza pause almeno 30 volte “Siamo tornati a casa!” perché quella è la nostra dimensione, lo dice la storia, lo ribadisce l’albo d’oro.

Niente è come esserci, diceva lo slogan della campagna abbonamenti 2015-16 e nella sua semplicità questa frase dice praticamente tutto. Perché essere lì, al fianco della vetrata del settore ospiti, dopo anni, in una serata così, è un qualcosa di inesplicabile in fondo.

È finito l’esilio per me e per noi. Siamo tornati a casa.

P.S. Ah dimenticavo, buon 22 maggio a tutti. Il nostro sogno, la loro ossessione.

“Ma c’è il contrattacco di Milito…”

Quello che pensano gli studenti

Vivo sempre un sorta di disagio quando mi ritrovo dall’altra parte, quando sono quello che deve parlare ma non davanti ad una telecamera, bensì di fronte a degli adolescenti. È successo oggi, ancora una volta, all’Istituto San Paolo di Torre Gaia, periferia sud-est di Roma, una scuola cattolica e gestita dalle Suore Angeliche di San Paolo.

Giornalismo, TV, ma anche Papa Francesco e tanti altri spunti che solo dei giovani studenti possono dare. Due ore di confronto fra spiegazioni e racconti, uno spazio breve ma sufficiente a fornire uno spaccato importante sulla realtà.

Dei 13 studenti presenti nessuno desidera diventare giornalista. Nessuno ha mai ponderato tale possibilità, anche in anni in cui si cambiano le idee piuttosto rapidamente, ma soprattutto, nessuno sfoglia un quotidiano.

Tre punti che evidenziano diversi elementi: il modo in cui le informazioni sono veicolate e raggiungono i più giovani (Internet ed app), l’assenza totale della carta stampata ed il ruolo sempre più marginale della tv. Quest’ultimo strumento, a detta dei ragazzi, è qualcosa di riconducibile ai genitori, fedeli spettatori del tg serale all’ora di cena.

Non mi ha sorpreso un ragazzo che ha parlato del mestiere del giornalista come di un qualcosa non più attraente anche perché “sottopagato”, dettaglio che evidentemente non aiuta a sviluppare un richiamo per i più giovani verso questo lavoro. Raccontare una tv e l’informazione religiosa è impresa ardua quando la platea è di questo tipo, ma se a volte la Chiesa, intesa come istituzione, non scalda, il Papa riaccende puntualmente l’interesse.

Ho parlato dell’emittente per cui lavoro, illustrando la nostra storia e l’ultimo magazine che si rivolge particolarmente ai giovani, ma la considerazione che ho fatto a fine lezione verteva su quanto la Chiesa sia pronta a questo Sinodo sui giovani.

Per quanto siano lodevoli e al tempo stesso necessarie le nuove vie scelte per arrivare ai ragazzi, come Twitter o Facebook, con tanto di pagine e profili dedicati, mi sono chiesto se questo possa alla fine effettivamente bastare.

Temo che non sia sufficiente adattarsi al linguaggio delle nuove generazioni e al modo in cui viene veicolato, la sensazione è che la Chiesa debba fare di più, andare oltre.

Prendendo spunto dal documento redatto alla fine della riunione Pre-Sinodo, credo sia opportuno soffermarsi sulla parte in cui testualmente i presenti hanno scritto che vorrebbero: “una Chiesa autentica, una comunità trasparente, onesta, invitante, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva”.

Una richiesta chiara e che facilmente si collega anche ad un altro passaggio, quello nel quale i ragazzi chiedono alla Chiesa di incontrare le persone dove socializzano: “bar, caffetterie, parchi, palestre, stadi, e qualsiasi altro centro di aggregazione culturale o sociale”. Ma anche in luoghi travagliati come “orfanotrofi, ospedali, periferie, zone di guerra, prigioni, comunità di recupero e quartieri a luci rosse”.

Il mio personale timore è che la Chiesa in realtà non capisca appieno quanto divario ci sia oggi fra l’istituzione stessa e le persone a cui si rivolge, i giovani. Perché il mondo attuale, soprattutto quello delle nuove generazioni, evolve ad una velocità impressionante, a differenza della Chiesa che per ovvie ragioni tende a mutare con particolare lentezza.

In un tempo in cui i ragazzi non vedono nemmeno più la TV, come detto e ribadito oggi durante il mio incontro, una istituzione che spesso si esprime ancora in latino, corre il serio rischio di vedere il divario con i teenagers allargarsi sempre più, con lo spettro che possa diventare ad un punto una distanza incolmabile.

“E’ colpa tua”

Una delle tante cose che ho imparato tornando a Roma è che per affrontare la vita italiana vige l’obbligo di sapere tutto. Pur essendo uscito da casa anni fa, in realtà non avevo mai vissuto per conto mio in Italia, ma sempre e solo all’estero, di conseguenza mi sono ritrovato a sperimentare nuove dinamiche che alla fine terminano sempre e solo con una certezza: è colpa tua.

Con mano sto toccando questa simpatica tendenza, forse una realtà sempre esistita ma che mi era sfuggita non dovendo affrontare alcune situazioni in prima persona, di certo, qualcuno ha stabilito che il cliente o il cittadino ha sempre torto.

Al di là di populismi, vittimismi o qualunquismi di sorta, nei miei ultimi giri questo è il dato che emerge: bisogna sapere tutto di qualunque cosa, argomento, settore e procedura, altrimenti qualcuno dall’altra parte ti addosserà la colpa subito e con un piacere nemmeno troppo celato.

Due settimane fa al commissariato, sono stati molti svegli nello sventolarmi –letteralmente – in faccia con enorme piacere un regolamento. Era colpa mia, avevo sbagliato io a leggere.

Peccato però che loro non abbiano fatto altrettanto su una altra questione che invece parla chiaro e dava ragione al sottoscritto. Fra accuse che la poliziotta ha prontamene smentito “Non sono accuse” e toni di voce un po’ troppo alti e fuori luogo secondo me, la colpa era mia che non mi ero informato anche perché citando testuali parole: “Passate il 99% del vostro tempo con il telefono fra le mani e non cercate quello che dovreste”. Inconsapevolmente ha trovato chi passa gran parte del suo tempo a fare ricerche e a documentarsi per motivi professionali, rimane il fatto che era colpa mia in generale. A prescindere.

Io dovevo sapere, informarmi, capire in precedenza, Sfortunatamente però, loro non sapevano una cosa che avrebbero dovuto conoscere, come se io non fossi a conoscenza del mese in cui ci sarà il Sinodo. La loro mancanza però valeva stranamente zero, la mia era invece una specie di capo di imputazione.

Bisogna anche sapere che sulla bolletta della luce, se non si è residenti in un appartamento, si paga il 20% in più. Strano che nessuno al momento della voltura lo abbia detto o almeno menzionato, strano anche che il proprietario di casa non l’abbia mai riferito, strano pure che l’agente immobiliare al momento di parlare delle utenze si sia scordato. Evidentemente nessuno sa, ma io invece dovevo esserne al corrente. Certo.

Il punto, il cazzo del punto se mi permettete, e me lo permettete, è che è sempre facile dare colpa agli altri, lavarsi coscienza e mani scaricando il tutto sugli altri. Probabilmente dovremmo passare 20 ore al giorno a studiare ed imparare ogni cosa su qualunque argomento. Vivere studiando.

Nessuno invece che si prenda mezza responsabilità, nessuno in grado di parlare chiaro, spiegando e argomentando in modo decente. “Lei lo avrebbe dovuto sapere” è la frase che continuo a sentire, strano però che nessuno faccia mea culpa. La superficialità con cui si tratta un cliente o un cittadino, o chiunque cerchi informazioni, quella non vale. Di conseguenza, se chiedi, ti dicono le cose a metà, sembra che tutti siano terribilmente impegnati, come chi non si è premurato a dire che la prima bolletta del telefono arrivava via bollettino postale e non con l’addebito diretto sul conto come dalla seconda in poi.

Ecco, tutti bravi a fare le persone svelte, rapide ed efficienti, peccato però che poi non ti dicono informazioni necessarie e quando ti ritrovi a pagare prezzi maggiorati o strane tariffe la colpa è tua che non ti sei informato.

Ovviamente.

“Nessuno che dice se sbagli, sei fuori”

Lo Stato Sociale, Una vita in vacanza.