Il “Classicone” del 16 dicembre

“Il 16 dicembre prossimo starò a Roma”.

 

Scrivevo questo esattamente un anno fa, nel classico post del 16 dicembre, quello che negli anni è diventato un passaggio quasi obbligatorio dal lontano 2009 ormai, giorno della mia laurea triennale.

Avevo previsto qualcosa di preciso, ed è accaduto. Poteva essere una frase non del tutto scontata ma io ero ben consapevole di come alcune dinamiche si sarebbero evolute e onestamente non mi sorprende questo esito.

È stato un anno lungo e intenso. Due aggettivi che ripeto e uso ancora per la terza volta, perché indubbiamente calzano a questo 2017 proprio come ai due anni precedenti, legati da un filo rosso chiamato Canada.

Un anno che volge al termine e lo farà senza transvolate oceaniche, ed è un bene, ovvio, con Natale a fare da sfondo e quella sensazione che gli ultimi anni mi hanno fatto perdere il piacere e l’attesa delle feste natalizie, vissute recentemente sempre e solo con tanta fretta, stanchezza e poco piacere.

Doveva essere un anno “indirizzante”, e così è stato, l’aver preso quella previsione conferma il tutto. Un 2017 con un doppio trasloco, prima quello di rientro e poi quello nella nuova abitazione romana. Un anno sicuramente pieno e ricco, e al tempo stesso bello. Ci sono state soddisfazioni lavorative, un viaggio finalmente in Sud America, e un paio di preziosi insegnamenti. Penso di aver strizzato al massimo questo anno che volge al termine, era quasi impossibile tirare fuori altro e qualcosa di migliore.

Ho capito che tornare è stata una valida idea lavorativa, pessima sotto ogni altro aspetto. Credo di aver idealizzato in qualche modo, e anche in maniera giustificata, il nuovo sbarco in Italia, ma i 5 mesi ormai passati qui mi sono serviti molto più di quanto pensassi a livello personale.

È stato l’anno dei 30, un numero e niente più. Non capivo chi voleva mettermi l’ansia della decina che cambiava e mi sfugge ancora chi si incastra su questo passaggio anagrafico. Evidentemente è gente che ha molto tempo libero e tante fesserie che svolazzano nella testa.

Per un 2017 che si chiude, c’è un 2018 in arrivo. Solo a dirlo suona come qualcosa di grande. Un numero importante, e a me gli anni pari sono sempre stati più simpatici, hanno un qualcosa di geometrico che mi piace.

Devo chiudere però come di consueto con una previsione e confermo quella dello scorso anno. Sarò a Roma, ma ho la sensazione che al tempo stesso ci saranno manovre per qualche cambio e ulteriore trasloco.

Fra 365 giorni, come la tradizione impone, ve lo dirò.

Spazio promozionale

Un’altra puntata di Pagine Vaticane qui di seguito. Due mesi ormai di produzione totalmente indipendente, una location favolosa, una continua rincorsa al sole e alla giusta luce, sfida resa ancor più complicata dal cambio dell’ora di fine ottobre.

E poi, la decisione di togliere ogni tanto la cravatta il venerdì, ma soprattutto un clima che mi permette di andare in onda ancora solo con la giacca, senza soffrire le pene dell’inferno.

L’aggressione di Piervincenzi

Il breve video in cui il povero Pierivincenzi di “Nemo”, insieme al suo cameraman, viene aggredito barbaramente da uno (non credo che si possa definire in altro modo uno così) sta girando da qualche ora in rete.

L’ho visto casualmente su Twitter perché ritwittato da Nicola Savino e dopo l’iniziale sorpresa, mista a sdegno per quanto si vede, come spesso mi capita in situazioni analoghe, mi sono chiesto se io lo avrei fatto.

Mi sarei recato in un territorio a rischio, a intervistare qualcuno di molto poco raccomandabile con una alta probabilità di passare un brutto quarto d’ora?

No, non lo avrei fatto e nemmeno mi vergogno a dirlo. Non posso biasimare chi l’ha fatto, gli riconosco il coraggio e quel briciolo di incoscienza necessaria, ma io non ci sarei andato. Non per paura, ma perché oltre a possibili danni fisici, avrei messo a repentaglio la salute di qualcun altro e rischiato ritorsioni in seguito. Questo è il mondo di oggi, questa è in un certo qual modo l’Italia, questa è l’atmosfera che si respira e i rischi da affrontare per un giornalista.

Non avrei avuto paura di andare a cercare una verità, avrei avuto il terrore delle conseguenze, considerando la questione e i personaggi coinvolti.

Se c’è della vigliaccheria in tutto questo non lo so, forse sì. Magari invece è solo buon senso, e la ragionevolezza di aver a cuore la propria pelle e quella degli altri, colleghi compresi.

Non sta scritto da nessuna parte che per essere un bravo giornalista si debba fare scoop a raffica e indagare nella merda. Ci sono molti modi di fare questo mestiere, io ad esempio, in questi anni, sono ben felice di non dover lavorare in ambiti sportivi e per lo più calcistici.

Sembra assurdo, ma è così. Se fin da bambino sognavo di fare il telecronista, oggi, in questo mondo di social e ricco di maleducazione, dove chiunque può vomitare di tutto direttamente ad un professionista, come nel caso specifico un giornalista, sono bel felice di stare alla larga, lontano dal dover raccontare calcio.

Sono felice di fare il mio giornalismo, e non lo cambierei con niente oggi. Me lo tengo, contento di quello che faccio, delle responsabilità che ho, di quello che guadagno e di sapere che al massimo qualcuno mi può dire in modo garbato o un po’ più stizzito che alla domanda X non vuole rispondere. Bene, benissimo.

Anzi, male quando capita questa situazione, ma bene e benissimo che tutto finisca lì. Normale. civile e giusto.

Ogni volta che vedo giornalisti aggrediti o insultati, insomma, in situazioni molto più che scomode, rifletto molto su quello che siamo. Mi sento soprattutto parte di un paese in cui la magistratura potrebbe fare più schifo di quello che ha dato una testata a Piervincenzi.

Perché il mio grande timore è che tutto potrebbe finire in una denuncia, che niente succederà e nulla cambierà. Ho paura di quello, perché se una persona rischia questo e può subire una violenza così brutale, la colpa non potrà mai essere del mestiere che svolge, bensì di altri. Di chi non lo protegge e di chi permette questo, ancora, e senza prendere reali provvedimenti.

L’Incubo

Sono cinque anni che tengo questo cartoncino nella tasca della giacca nera. Non l’ho mai tolto. Non so perché, o meglio, non so perché non l’ho buttato subito dopo che mi fu consegnato, di certo so perché negli anni successivi l’ho conservato.

È un promemoria. Mi ricorda quel giorno, quello prima e quello prima ancora. Quel weekend, e tutto quel periodo, quel finale di 2012 e quello che arrivò dopo.

Seduto sui gradini vicino l’Auditorium, mentre parlavo con Francesca, un ragazzo mi consegnò questo invito per Halloween. La scritta “Incubo” sintetizzò alla perfezione il momento, e come spesso capita, in momenti tragici c’è sempre un aspetto bizzarro o involontariamente comico che ti fa ridere. Da qui, di fondo, nasce il detto “ridere per non piangere”.

Tengo questo cartoncino anche se in realtà me lo dimentico ogni volta. Mi torna in mente sempre in questo periodo, quando la giacca nera torna a essere giusta per il periodo e il clima. Dopo il controllo di ordinanza delle tasche, su quella in alto a sinistra trovo sempre questo cimelio e mi ricordo, anche se mi stupisce ogni volta che sia ancora lì. Dopo qualche secondo però, sono “felice” di ritrovarlo.

In quelle settimane, in una e-mail di Alfredo datata 14 novembre lessi:

“Salda il conto intero o tieni in tasca lo scontrino. Non aver paura di tenerti tutto dentro, alla fine è il posto più sicuro in cui custodire le cose preziose”.

Involontariamente questo invito di Halloween è la ricevuta di quel periodo e seguendo il saggio ragazzo di Frascati, l’ho sempre tenuto in tasca, in quella che casualmente, o forse no, è sopra la parte del cuore.

Banale a dirsi, ma indietro di 5 anni non ci tornerei nemmeno sotto tortura, eppure decine di cose mi ci hanno riportato in queste settimane. Non solo il calendario e le ricorrenze, la giacca, il meteo o il cambio dell’ora. L’aria che respiro mi fa ripiombare lì. Anche perché è in fondo la prima volta che mi ritrovo a Roma dopo anni, dal 2012 appunto, e quindi è tutto un ripercorrere. Per quanto sia passata una vita, c’è troppo intorno per non ritornarci con la testa, sarà anche perché ottobre è sempre stato foriero di eventi negativi.

Ripenso infatti al 2005, al 2012, ma anche all’anno successivo e a Cracovia dopo il traumatico secondo inizio irlandese, così come al ritorno in Canada datato proprio 27 ottobre 2015. Certo, per onestà, c’è anche da menzionare quello passato, che ovviamente va in controtendenza con tutti i precedenti, e per quanto sia fresco e recente, si è ritrovato stritolato dagli altri e dal fatto di ritrovarmi a Roma.

A me questo posto non mi fa stare bene, non c’è niente da fare. Mi rende tutto tranne che felice e questa consapevolezza, che si sta facendo strada dentro di me, non mi regala grande serenità.

La grande fase di rigetto che anziché arrestarsi aumenta da quando sono rientrato, sta vivendo la sua fase più acuta ora, anche a causa di una serie di ricorrenze che non possono evocarmi bei ricordi.

Non mi piaceva prima questo posto, mi piace ancora meno oggi. Di fondo, tutto il tempo passato prima di andarmene è stato costellato da momenti non esaltanti, per usare un eufemismo.

Quella è stata la coda e quindi pesa ancora nelle sensazioni e nei ricordi. Da quando sono tornato mi sono realmente goduto tre giorni. Sono state le tre giornate in cui sono stato felice di essere qui: quella a Montalcino e i due matrimoni.

Per il resto, tutto è stato solo motivo di fastidio, soldi spesi, perdite di tempo, totale mancanza di sintonia con il contesto. Se pure avessi idealizzato il ritorno, non penso che questo sia il problema di tale disagio. Non mi dimentico però che a suo modo questo rientro mi ha già insegnato diverse cose, lezioni che se non avessi rimesso piede qua in maniera più o meno stabile non avrei mai appreso.

Se mai la querelle relativa alla casa troverà un suo compimento, se si prenderà il largo da ottobre e dal suo essere evocativo e potrò magari lavorare decentemente, sarò ben felice di rimettermi a posto a livello emotivo, anche se amici con genitori morti e gravemente malati non aiutano.

È strano, ma non casuale, aver scritto l’inizio di questo post con “Rockin’ Chair” di Rod Stewart in sottofondo, a me sembra di essere indietro di anni, e nemmeno pochi a dire il vero. Una ridda di ricorrenze, pensieri, ricordi, tutte quelle cose che ti rendono tetro inevitabilmente e non perché ieri era il 2 novembre.

Mi sembra di essere nella macchina del tempo, e senza voler rinnegare nulla, perché quel cartoncino mi ricorda che c’è stato di peggio, molto peggio, so solo che tutto questo non mi piace affatto e essere lontano da qui mi farebbe stare decisamente meglio.

Ovunque, ma non qui.