Fine e inizio

Scherzando e ridendo, come direbbe in maniera puntuale il nostro amico Giancarlo, ci siamo.

Superata la boa del 16 giugno, e quindi del countdown di un mese, mi avvicino sempre più al ritorno a casa, a una settimana di vacanza e all’inizio di una nuova vita, non solo lavorativa ma sotto anche un altro paio di aspetti.

Non sarà del tutto nuova visto che un assaggio lo avevo avuto esattamente due anni fa per tre mesi e mezzo, ma di certo sarà una storia con numerose sfumature diverse, e senza una deadline come fu nel 2015.

Probabilmente quando ci si avvicina al traguardo ci si sente più stanchi, sale il desiderio di qualcosa che sai che ti attende, si mollano i freni un attimo di più e si diventa anche impazienti.

È tutto giusto però, insomma, fa parte del normale sentimento che ci accompagna quando ci avviciniamo a momenti importanti e a cambiamenti notevoli. Ho voglia di estate, ma quella vera, quella che ti toglie il fiato, ti inumidisce appena esci di casa, quella che ti fa tirare via la camicia dalla pelle con un paio di dita già di prima mattina.
Basta pioggia, basta incertezza meteorologica, so che questo giugno italiano è stato torrido, addirittura due gradi in più sopra la media, pare poco ma è una enormità e un inevitabile campanello d’allarme.

Ho tanto da fare, fin troppo forse. Matrimoni da testimone, vestiti da comprare con accessori annessi, iniziare a lavorare, comprare un computer nuovo e due schermi, cercare casa, e tutto questo dopo che le ultime hectic weeks qui saranno andate con tanto di trasloco continentale.

Di roba ce ne è, ma sarebbe inopportuno lamentarsi, così come anche delle spese che le cose appena citate comportano. Ci sarà un subbuglio emotivo non indifferente, finirà un pezzo fondamentale di vita e ne inizierà un altro subito dopo, qualcosa che sembra noto ma non lo è poi così tanto.

Ma poteva andare peggio, molto peggio, e invece è andata bene. Meglio così. Chiedere di più, soprattutto ora, sarebbe veramente ingeneroso.

Meno 23 alla partenza, al ritorno, a tutto quello che è, fine e inizio, come un perfetto ed interminabile cerchio sul quale pattinare.

I nastrini

Considerando che maggio è finito e che il calendario recita -46, penso proprio che sia arrivato il momento di raccontare un paio di cose, anche per il modo in cui avevo concluso il precedente post.

Parto da lontano però, parto dal dicembre 2014, quando svegliandomi lessi un messaggio di Gabriele, da poco arrivato ad Honk Kong e che via WeChat esclamava un: “Non torni più” riguardo la proposta ricevuta da Toronto e che avevo appena accettato.

Risposi in maniera meno netta, affermando che il mio obiettivo era tornare un giorno a Roma, considerando il tipo di giornalismo che sarei andato a fare.

Sono passati più di due anni e mezzo da quello scambio di messaggi e quell’obiettivo è stato raggiunto anche se so bene che lui è ben felice di avere sbagliato la sua previsione calcolando cosa c’è sul piatto ora.

Per più di due anni ho cullato questa aspirazione, questo piano futuro. Ho seminato e annaffiato, sono tornato brevemente nell’estate del 2015 e quella esperienza è stata fondamentale, soprattutto per quello che farò a breve.

In questi anni ci sono state tante piccole cose, mille sfumature e dettagli su cui ho prestato costantemente attenzione, tenendo un occhio fisso al domani che adesso è arrivato.

Sapevo che questo 2017 avrebbe dovuto raccontare qualche storia e avevo detto che sarebbe dovuto essere determinante e discriminante, con lo scopo di instradare sul serio un percorso e così si sta rivelando.

Sapevo pure che il mio tempo qui era terminato e lo avevo ribadito in diverse riprese, non ho cambiato idea perché ero consapevole cosa avrei sentito e cercato ad un punto.

Era maturo il tempo per una nuova parentesi, per un’altra sfida. E così ho scritto una proposta che aveva l’obiettivo di riportarmi a Roma continuando però a fare le stesse cose, diventando il corrispondente da Città del Vaticano, e quindi, da casa mia.

Pensata, ponderata, studiata nei minimi dettagli, in maniera quasi maniacale, la proposta ha raggiunto il bersaglio e da mercoledì 3 maggio sono – e siamo – passati alla Fase 2, ossia finalizzare questa nuova situazione nei dettagli.

Il lavoro mi aveva portato via da Roma, il lavoro mi ci sta riportando e magari un giorno mi allontanerà ancora da casa, eppure, questa è la vita che sognavo da bambino, quando ho iniziato a desiderare questo mestiere.

Resta il fatto che questi anni di Toronto sono stati talmente tanto importanti sotto ogni aspetto che bisognerebbe aprirci un blog a parte. Quello che ha significato il Canada per me personalmente è davvero indicibile, soprattutto per le difficoltà e gli infiniti insegnamenti.

Grazie a tutto questo ora però torno a casa con il malloppo, e non solo lavorativo. Ma io lo so quello che ho fatto, il mio percorso, la fatica e i sacrifici, attraverso i quali, parafrasando Annibale, mi sono sempre ripetuto “Aut inveniam viam aut faciam”: O troverò una strada o ne farò una io.

Per ora, pare che abbia funzionato.

“È il momento de mette i nastrini sulla coppa”

Stesso mittente, stesso topic, diverso risultato. 29 mesi più tardi.

Di fermata in fermata, di ricordo in ricordo

Ieri sera, tornando da una lungo pomeriggio nel West-End di Toronto, mentre ero sulla metropolitana, molto spontaneamente alcuni ricordi mi sono riaffiorati ogni volta che le porte del treno si aprivano sistematicamente e il nome della stazione si spalancava davanti ai miei occhi.

Come quella di High Park, dove andai per la prima volta la domenica del Victoria’s Day del 2015, nel weekend in cui attualizzai i dolori del giovani Werther con interminabili note vocali dirette a Hong Kong, mentre cercavo di addormentarmi allungato sul prato fingendo di essere a Villa Borghese.

Passando per Lansdowne mi è tornato in mente la sera degli attentati a Parigi del novembre 2015, quando salutando infastidito la ragazza di Woodbridge, decisi di non accompagnarla a Wilson come di consueto, ma scesi lì, per andare a vedere la partita di calcetto di alcuni miei colleghi compresa la compagna di banco.

Che dire di Christie station? Ogni volta che ci passo mi torna in mente Doug Christie, giocatore di NBA sul quale facevo particolare affidamento quando 15 anni fa giocavo ad NBA Live 2003 e prendevo sempre i Sacramento Kings di cui lui indossava la canotta 13.

Dopo Christie c’è Bathrust, fermata che per due anni ha significato per me lo storico super store Honest Ed’s. Una delle mie mete preferite la domenica pomeriggio, quando mi andavo a perdere un po’ lì, in uno dei luoghi più economici della città.

Enorme, caotico, una “mondezzara” in certi momenti, ma dal suo indubbio fascino, posto che dal 31 dicembre 2016 è stato chiuso definitivamente.

St. George, invece, per me è quella sera in cui presi la metro dopo la serata karaoke con alcuni colleghi nel novembre del 2015 e andai a salutare Giorgia appena arrivata e sperduta con il suo amico in un bar vicino Kensington Market.

Bloor-Yonge è ancora oggi lo snodo che uso di più, stazione in cui passo sempre, una delle poche con i bagni pubblici, dove sono andato proprio ieri sera mentre attendevo la linea gialla per andare a casa.

Lego numerosi ricordi a molte fermate della città, e non avere la macchina significa muoversi con i mezzi e usare la metro diventa indispensabile, ancor di più quando vivevo spostato a nord e la mia stazione era Englinton e scendevo a Queen. Poi sono diventato il ragazzo di Dundas, ma ultimamente uso quella di College perché su Dundas hanno chiuso la strada e il tram non passa più.

Tante subway stops, molti ricordi, e tornare a casa dopo una cena in una ventosa domenica sera di metà maggio, ti concede anche lo spunto per ripassare a mente qualche vecchia diapositiva.

Va sempre così, quando sai che te ne stai per andare.

150 vs 2770

“Da un lato ho capito na vorta de ppiù che noi romani, c’abbiamo sempre Roma in bocca, e spesso parliamo senza manco conosce. Non si possono confrontare le altre città con Roma, perché Roma è unica. E se prima lo pensi solo per arroganza, è quando vai via da Roma che te ne rendi davvero conto. E chi è nato a Roma, è condannato a ritrovarla ovunque e a rimpiangerla una volta lasciata. Roma ha resistito ai secoli, ai millenni, è caduta, si è rialzata, ha resistito alle guerre, ai barbari, alle invasioni, ai governi, ai sindaci, ar popolo. E resisterà ancora. E resisterà a me, resisterà alle buche per strada, ai frustrati esterofili, ai turisti che le preferiscono Parigi o Londra”.

Svevo – Ritals

Giorni fa, mentre in un production meeting venivamo nuovamente invitati a pensare a dei contenuti per alcuni video sui 150 anni del Canada, che vengono celebrati durante tutto questo 2017, ho ripensato a questo breve monologo di Svevo Moltrasio.

Avevo visto la puntata di Ritals giorni prima, e riguardata il 21 aprile per il compleanno di Roma, quando l’Urbe celebrava i suoi 2770 anni.

Mentre il meeting scivolava via fra le classiche chiacchiere sterili, ragionavo su questa differenza, 150 vs 2770, un divario numerico enorme, ma anche una semplice chiave per capire perché di fondo, io qui, non mi sono mai trovato bene.

Due mondi troppo diversi, due culture distanti anni luce, due realtà inconciliabili. “I do not fit here” pensavo, e a un punto volevo dirlo o citare questa differenza di storia e celebrazioni, ma sapevo che ovviamente non sarei stato capito, come tante altre volte.

Eppure, ripensando alle parole di Svevo, mi sono messo l’anima in pace, ho trovato in qualche modo conforto. Non che il monologo rispondesse a qualche mio quesito esistenziale, ma perché spiegava quel senso tutto romano che abbiamo noi quando espatriamo.

Questi anni fuori da casa, lontano dalla mia città, me l’hanno fatto apprezzare e rivalutare ogni giorno di più. Gli anni di Toronto mi hanno permesso di capire dove voglio vivere e dove invece non potrei farcela in nessun modo.

Ho capito perché ragiono in un modo, o perché arrivo puntualmente a fine aprile, quando l’inverno qui ancora non se ne è andato, e non ce la faccio più.

Mi sono reso conto che noi siamo avanti, e che non ho trovato nessuna cosa in cui il Canada spicca sull’Italia, senza citare nello specifico Roma o Toronto. Ho preso coscienza di innumerevoli aspetti ed è un regalo che questa città mi ha fatto, un dono dal valore preziosissimo.

Nonostante tutto però, non è il mio posto, non è la mia casa. Non è il posto in cui potrei essere felice, chissà, magari non sarà nemmeno l’Italia alla fine, ma qualche chances in più al Belpaese voglio dargliela.

Ha ragione Svevo, quando dice che noi, la nostra città, ce l’abbiamo sempre in bocca. Allo stesso tempo però penso sia impossibile il contrario, perché appartenere a questo posto mi ha reso una persona più ricca anche solo per puro riflesso. Per semplice provenienza.

E c’è poco da fare alla fine, perché mi sono presentato a centinaia di persone in questi anni, anche mentre ero in compagnia di altra gente proveniente dai posti più disparati del mondo, ebbene, quando dici Roma, che vieni da Roma, la faccia del tuo interlocutore ha una espressione che non si palesa per nessun altro posto del mondo.

E questo, qualcosa, vorrà pur dire.