L’errore fatale

Mentre stavo lì seduto, capii che l’episodio Highbury, per me, era proprio finito. Non ne avevo più bisogno. E naturalmente era triste, perche quei sei o sette anni erano stati molto importanti per me, mi avevano salvato la vita in molti modi; ma era tempo di andare avanti, di esprimere le mie potenzialità scolastiche e sentimentali, di lasciare il calcio a persone dai gusti meno fini o ricercati. Non dissi niente a mio zio e a mio cugino, ma quando stavamo uscendo da Highbury lanciai allo stadio un segreto e tenero addio. Avevo letto abbastanza poesie per riconoscere i momenti di rara intensità. La mia infanzia stava morendo, in maniera decorosa e chiara. A diciotto anni, ero finalmente cresciuto. L’età adulta non poteva accogliere il tipo di ossessione con cui avevo convissuto fino a quel momento, e se dovevo sacrificare Terry Mancini e Peter Simpson per poter capire Camus e fare l’amore con un sacco di studentesse d’arte eccitabili, nevrotiche e ingorde che così fosse. La vita stava iniziando, e quindi l’Arsenal se ne doveva andare.

 

Come presto si rivelò, la mia freddezza verso tutto quanto riguardava l’Arsenal non aveva avuto niente a che fare  con i riti iniziatici, con le ragazze o Jean Paul Sartre, ma con l’inettitudine della coppia d’attacco Kidd/Stapleton. Andai di nuovo ad Highbury, ma dopo la prima partita col Bristol tornai a casa con la sensazione di essere stato imbrogliato. Sudai sotto il sole di agosto e imprecai, e provai l’antica frustrazione senza la quale ero stato così felice. Come gli alcolizzati che si sentono forti abbastanza per versarsi giusto un goccetto, avevo commesso un errore fatale.