Da Hampstead a Tottenham

Se questo libro ha un centro, allora è qui, la sera di quel mercoledì di marzo del 1987 in cui andai dallo studio di un psichiatra a Hampstead allo stadio di White Hart Lane a Tottenham per andare a vedere la ripetizione della semifinale di Coppa di Lega. (…)

Come avviene con tante depressioni che colpiscono persone più fortunate della media, io mi vergognavo della mia, perché non sembrava avere alcuna causa apparente: sentivo solo che, in qualche modo, ero uscito dai binari. Non avevo idea di dove fosse successo; in realtà non sapevo neanche su che binari ero stato. Avevo un sacco di amici, tra cui anche amiche, avevo un lavoro, avevo contatti regolari con tutti i membri più prossimi della mia famiglia, non avevo avuto alcun lutto, avevo un posto in cui vivere…ero ancora su tutte le rette vie a cui riuscivo a pensare; qual era dunque, di preciso, la natura di questo deragliamento? Tutto quello che so, è che mi sentivo inspiegabilmente, sfortunato e maledetto, in modo a prima vista incomprensibile per una qualsiasi persona senza un lavoro, senza un partner o senza una famiglia. Sapevo di essere condannato a una vita d’insoddisfazioni: le mie doti, quali che fossero, sarebbero rimaste nascoste, i miei rapporti si sarebbero logorati per motivi che andavano oltre il mio controllo. E dato che su questo non avevo dubbi, non c’era motivo per tentare di migliorare la situazione cercando un lavoro che mi stimolasse, o una vita privata che mi rendesse felice. Così smisi di scrivere (perché se sei nato sotto una cattiva stella, come ero nato io, non c’è proprio ragione di insistere in qualcosa che porterà con sé, inevitabilmente, solo l’umiliazione e il costante rifiuto), e mi ficcai in quanti più tristi e snervanti rapporti a tre mi fu possibile, rassegnadnomi per il resto della settantina d’anni che mi era stata concessa d’ufficio, al più terribile e monotono nulla. A dire il vero non era una prospettiva che mi riempiva di entusiasmo, e anche se sembrava essere stata la terapia ad avere portato a galla, o tirato fuori, tutta quella tristezza, avevo l’impressione di averne ancora bisogno. L’ultimo barlume di buon senso che mi rimaneva, suggeriva che molti di quei problemi risiedessero in me piuttosto che nel mondo, che fossero di natura psicologica piuttosto che reale, che non fossi affatto nato sotto una cattiva stella ma che fossi uno svitato autolesionista, che aveva veramente bisogno veramente di farsi vedere le rotelle. Andai così ad Hampstead dall’uomo che aveva il potere di rimandarmi dalla prima psicologa che avevo incontrato a Bounds Green, ad un prezzo di favore, se si convinceva che ero sufficientemente matto. E così accadde, prima di andare a vedere una semifinale di Coppa, fui obbligato a far visita a uno psichiatra per convincerlo di essere matto.

 

Nick Hornby