Il più grande di tutti

Quando la gente si ricorda di te per ciò che hai fatto e non ti abbina al tuo più grande errore professionale significa che appartieni automaticamente ad un mondo diverso, ad una dimensione fuori portata, non sei un comune mortale. Credo che questa possa essere una degna descrizione di Roberto Baggio da Caldogno che messa così sembra la classica sequenza relativa a qualche artista del Rinascimento. Non c’è dubbio che la persona in questione sia un artista, un pittore che dipingeva con i piedi e non con le mani, un genio, uno di quelli che passano veramente una volta ogni cento anni.

Roberto Baggio compie oggi 47 anni, da dieci non è più un calciatore, da un decennio si è ritirato uscendo definitivamente dal mondo del pallone che spesso lo invoca cercando di ritirarlo nel calderone. Troppo grande la sua personalità, infinito il suo talento per sprecarsi in un ambiente che non rispecchia minimamente quello che per lui è stato questo sport.

Ho sempre considerato Baggio il più grande calciatore italiano di tutti i tempi, per quanto non sia giusto e corretto fare paragoni fra epoche. Baggio è il più grande perché è stato l’unico campione senza maglia, amato da tutti, osannato e supportato da tifosi e giornalisti. Baggio ha indossato le maglie più importanti ma nessuno lo ha fischiato pur passando da una parte all’altra, ha scatenato rivolte a Firenze per la sua cessione nel 1990, ha esaltato tutte le platee che hanno avuto la fortuna di averlo tra le proprie fila.

Senza colori, senza legami, semplicemente il numero 10 di tutti, il fenomeno della gente, spesso osteggiato da certi allenatori che ne soffrivano la grandezza, la sua capacità di oscurare tutti e non la difficoltà di inquadrarlo in un modulo tattico. Mai esagerato, perennemente incatenato al suo geniale talento ad una qualità che nemmeno 7 operazioni alle gambe hanno potuto disperdere. Ho sentito allenatori e compagni di squadra, così come medici e specialisti, dire che se non si fosse operato ad entrambe le ginocchia quando aveva 20 anni sarebbe stato più grande di Maradona. Non ho dubbi, non avremo mai la controprova ma il suo essere infinitamente campione lo avrebbe potuto portare a livelli ancora più alti con dei legamenti diversi.

Le sue sfortune, i suoi guai fisici lo hanno reso ancora più mito, un uomo che a furor di popolo avrebbe giocato in ogni partita della Nazionale per almeno dieci anni di fila. Uno che lavorava due ore più degli altri compagni perché dopo la trentina quelle ginocchia non tenevano più e dovevano essere trattate con particolare attenzione.

Probabilmente ho iniziato ad amare e seguire questo sport grazie alle sue magnifiche gesta e ricordo ancora perfettamente la sensazione di tristezza quando nel maggio 2004 lo vidi lasciare il campo per l’ultima volta fra gli applausi di tutti, era l’ultima recita di una carriera inarrivabile, quel pomeriggio capii che si stava chiudendo davvero una epoca, almeno, si stava chiudendo per me.

Ha trascinato una intera nazione in quella estate del 1994, l’ha portata fino ad un passo dal sogno prima di fallire, proprio lui, il tiro che valeva un Mondiale. Il più grande che sbaglia nel momento decisivo, un finale da film, ma nessuno lo ricorda per quello, pensi a Baggio e ti viene in mente il suo codino, le sue magie, le parabole impossibili, l’arte messa al servizio dello sport.

Ho avuto diversi idoli calcistici, ma lui è stato l’unico che adoravo ancor prima che indossasse la 10 nerazzurra, quando mi legavo intorno alla testa un nastro nero per i pacchetti regalo e lo arricciavo in fondo per avere il codino come lui, quando giocavo con la palletta in casa conciato così e mi sentivo lui, mi sentivo come il più grande di sempre.

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Il Pirata

Dieci anni fa ci lasciava Marco Pantani, uno dei campioni sportivi italiani più amati dal pubblico. Dopo Alberto Tomba è stato certamente l’ultimo atleta azzurro che è riuscito ad incollare gli spettatori alla tv, in attesa di un’altra grande impresa, aspettando una pagina di storia. Ho due personali ricordi che mi legano a questo sfortunato campione, due momenti che di fondo riassumono la parabola del Pirata: il punto più alto e la fine.

Estate del 1998, è il 27 luglio, caldo, afa, accendo la televisione, mi sintonizzo su Raitre e dopo un po’ mi addormento sul divano incredibilmente. L’evento è già di per se clamoroso poiché in vita mia penso sia accaduto non più di tre volte, ma ad un punto vengo improvvisamente svegliato da mia nonna che mi indica la tv e mi dice di guardare. Pantani è partito, sta assaltando nel vero senso della parola il Tour de France. Ha 5 minuti scarsi da recuperare sul rivale, il tedesco Ullrich, ma sul colle de Galibier si alza sui pedali e se ne va in solitaria a 50 km dall’arrivo. Mia nonna si sente autorizzata a svegliarmi perché è chiaro a tutti, anche ai non appassionati, che stiamo davanti ad un’impresa monumentale. Mi  rendo conto dell’unicità del momento e come tutti gli italiani incollati alla tv spingo Pantani che non molla e stravince la tappa, raggiungendo il traguardo de Les Deux Alpes con nove minuti di vantaggio su Ullrich, è l’apoteosi.

Il Pirata riscrive la storia e ipoteca il Tour, il giorno successivo compro il Corriere dello Sport, una copia che diventerà ben presto un pezzo di storia. Il titolo recita: “Un uomo solo al comando” con il ciclista a braccia larghe mentre taglia il traguardo. È una prima pagina mitica che conservo con cura e attenzione e proprio ieri, aprendo il cassetto, l’ho voluta rivedere.

Il secondo ricordo è quello più triste e drammatico. E’ la sera di San Valentino del 2004, è sabato ed io appartengo alla schiera dei teenager sfigati che senza ragazza se ne stanno a casa non avendo l’amata da portare a cena fuori. Ho da poco finito di vedere su Sky l’anticipo di Serie A, cambio canale e passo su Italia 1 dove la versione serale di Guida al Campionato dà in anteprima la notizia della morte di Pantani. Un colpo inatteso, un momento di vuoto totale. Sono abbastanza incredulo e faccio fatica a credere a ciò che ho appena sentito, metto il televideo e la notizia viene battuta e riportata: è tutto maledettamente vero. Sono ancora seduto sul divano, come sei anni prima quando mi esaltavo nel vedere questo uomo sfidare le salite e le montagne, mando un sms a Dario, il mio compagno di classe che da un anno ha iniziato ad andare in bici sul serio. So che sta fuori, so che è uscito e che non può sapere ciò che sta succedendo. È incredulo anche lui, mentre tutti i telegiornali parlano di questa morte. Finisce la vita di un uomo sfortunato, grande e solo, inizia la caccia allo scoop, un decesso avvolto ancora nel mistero, una vicenda mai del tutto chiarita sulla quale la madre di Pantani, la signora Tonina, si batte da anni.

Ho visto storie di sport e grandi atleti, campioni eccezionali e vittorie memorabili, allo stesso modo però, devo dire che il coraggio, la voglia e l’ostinazione con cui ho visto scattare Pantani in quel pomeriggio di luglio non l’ho mai ritrovata in nessun altro atleta.

E ora mi alzo sui pedali all’inizio dello strappo

Mentre un pugno di avversari si è piantato in mezzo al gruppo

Perché in fondo una salita è una cosa anche è normale

Assomiglia un po’ alla vita devi sempre un po’ lottare

E mi rialzo sui pedali con il sole sulla faccia

E mi tiro su gli occhiali al traguardo della tappa.

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Un sabato un po’ così

Che non fosse un sabato straordinario si era capito subito in fondo, quando il 105 mi è passato affianco dieci metri prima della fermata lasciandomi a terra in attesa del successivo. Anyway, in compenso ho avuto modo di comprare il biglietto e di sedermi vicino a tre testimoni di Geova di una certa età che parlavano fra di loro aspettando un autobus. La signora mi ha chiesto se volevo la loro rivista, io molto cortesemente le ho risposto e abbiamo scambiato due parole, le ho domandato se l’ultimo forte attacco dell’ONU al Vaticano potesse essere in qualche modo catalogato come un primo sintomo di Armageddon e lei mi ha detto “Potrebbe essere…” alzando le mani. Nel frattempo arrivava il 105 e ho dovuto congedarmi, con un sorriso educato e rispettoso, augurando loro buona giornata. Che non fosse un sabato perfetto l’ho capito visto che mi sono fatto tutto il tragitto in piedi fino a Termini, un’ora appoggiato ad un corrimano a guardare il nulla. Poi però capita che a Via L’Aquila un signore distinto sulla sessantina parli con il conducente e alzando la voce gridi “Se ero ‘na fregna era mejo pe tte…”, un lampo di volgarità, un squarcio di essenza popolaresca. Tralasciando l’eroe imprevisto, il sabato prendeva una piega alquanto negativa quando l’ingorgo a Via Napoleone III, ormai vicino al traguardo, mi bloccava senza opzioni alternative.

Poi però c’era il Catto ad aspettarmi, un sorriso ad accogliermi, un amico che si aggirava per il Nike Store in mia attesa.

Due passi, il Teatro Marcello, il quartiere ebraico, una cagata di uccello sul mio cappotto a ricordarmi che il sabato non era positivo, altri due passi e un’altra cagata addosso a me su Via Arenula, un assedio ingiustificato al sottoscritto. Pensi che questo sabato non sia meraviglioso ma pure che l’anno sia un po’ di merda e le due strisciate addosso di sterco non siano casuali.

Ironizzi, che altri devi fà? Dici che mancano 324 giorni alla fine di questo anno di merda in tutti i sensi. Piove. Ci mancava solo quello. Mangi una pizza e torni indietro, incontri tua cugina, ti fermi a Via Magnanapoli e mostri al Gallo che Marco il “Laziale” forse è diventato papà e ti interroghi su Marco il “Sardo”. Saluti il ragazzo di Fiuggi e ti incammini verso casa, poi però ti fermi all’IBS e cerchi una versione economica della Divina Commedia. Non la trovi, la chiedi alla commessa e ti dice che ne hanno solo in cantiche separate, ma visto che sei un diffidente nato, torni alla scaffale da solo e la trovi anche tutta in un volume e capisci che nel “sabato no” era previsto anche lo zampino di una che non voleva venderti ciò che cercavi. Compri la tua Divina Commedia, svolti il sabato e inizi a leggere. Metropolitana, nessun posto per sedersi, leggi uguale, tu hai il primo canto davanti e una affianco smanetta con Facebook sullo smartphone, tu ti domandi “Ma chi sta mejo?” Io di certo e pensi a Sgarbi e lo vorresti emulare gridando “Leggi Dante, leggi Manzoni, capra!!!”. Sei troppo preso, troppo assorto, troppo fomento, troppo roba. Rientri a casa. In mezz’ora vieni mandato affanculo via telefono e bloccato su tutti i dispositivi del mondo (tranne un cercapersone della SIP del 1991) da parte della stessa persona. Ceni, parli, ascolti, un sacco di argomenti, un menù ricco, intendo di discussioni. Mangi, poi ti allunghi e ti leggi anche il secondo canto, ti fai un sorso di liquore al mandarino che ti hanno portato per Natale. C’è Napoli – Milan ma non mi interessa, mi metto a lavare i piatti per tutti, la lavastoviglie non funziona, è una penitenza che ti infliggi ricordando che in fondo era un sabato un po’ di merda. Vince il Napoli, perde il Milan, ma non riesci a essere felice. Capita. Guardi l’orologio, manca poco a mezzanotte, dai che sto sabato è finito, presto sarà domenica e sai che ti attende un compleanno, i cannelloni, qualche brindisi con il derby in sottofondo. Magari ti leggi il terzo canto per distrarti, dai su, peggio di questo sabato non potrà andà, dai dai, mancano quasi 323 giorni al 2015. Sta qui, dietro l’angolo. Buonanotte.

Dormire lì

Alla fine è successo che per una serie di coincidenze e un po’ per comodità, sono rimasto a dormire da mia nonna. Una cosa che fino a qualche anno fa non avrebbe meritato nemmeno mezza riga di un post semplicemente perché era normale amministrazione, routine. Da anni non è più cosi, dalla fine del liceo di fondo, ma stanotte invece, dopo due anni ,sono tornato a dormire in quella che sostanzialmente considero casa mia. L’ultima volta era stata il primo luglio del 2012, dopo la sfortunata finale dell’Europeo contro la Spagna, tornando dal Circo Massimo rimasi lì a dormire, mia nonna non c’era ed il giorno dopo sarei dovuto andare in redazione prestissimo. Stavolta i motivi erano ben differenti, nessuna finale di mezzo e nessun impegno lavorativo ma una comodità semplice e pura. Ho impiegato un po’ a prendere sonno, come sempre d’altra parte, forse perché la situazione mi ha riportato indietro a quando dormivo lì, a quando questo appuntamento era fisso il venerdì e la domenica. Una sequenza infinita di ricordi e dettagli, una lista interminabile di attimi, come il profumo del pane bruscato quando mi svegliavo, la tazza del tè preparato da mia nonna con dentro tanto zucchero e limone. Lo zaino preparato rigorosamente la sera prima e lasciato sulla cassa panca in corridoio, la finestra da cui sbirciavo il tempo e annusavo l’aria di una giornata pronta a cominciare. Lì ho vissuto le corse affannose per prendere il 111 alle 7.21, o la camminate più serene per raggiungere la metro dal 2003, le strade umide del mattino, l’odore dell’androne del palazzo, il rumore del portone, le macchine parcheggiate sempre allo stesso modo, le foglie bagnate a terra che si appiccicavano alle suole delle scarpe. Paolo seduto sui gradini della scala che attendeva me e Ramona per andare insieme a prendere l’autobus. Stamattina non c’era nulla di tutto ciò naturalmente, ma ho sorriso quando ieri notte ho visto che lo spigolo della scrivania non toccava il letto nel solito punto ma era più spostato a destra, e da vecchio “esperto” ho capito che le cose non erano state sistemate e riordinate come al solito. Pensieri, magari banali, ricordi che si accavallano a vecchie sensazioni, come quando si scendeva sotto al cortile a giocare e non esistevano ne Facebook e nemmeno la Playstation e la voglia di sbucciarsi le ginocchia sull’asfalto o sul brecciolino era una calamita troppo forte da cui fuggire.

Casa di mia nonna, appunto, ho dormito là stanotte, dopo tempo, ma è sempre un qualcosa di diverso e speciale, qualcosa che non si può racchiudere nel riposo notturno tra un giorno e un altro.

 

Frase del giorno

Serena: “Beato te Mattè che puoi portare ancora tua nonna a fare le analisi o accompagnarla a fare la spesa…beato te”.