La mia terza casa

Per me casa è quel posto in cui arrivo e posso mettermi le ciabatte. Questo succede in due posti soltanto: a casa dei miei genitori e da mia nonna. Da venerdì sera, però, in questa particolare classifica devo inserire anche il 15 di Rosewell Avenue, l’abitazione in cui ho trascorso i miei primi 4 mesi e mezzo in Canada. Sono tornato per prendermi le ultime cose l’altra sera, ma anche per trascorrere una cena in compagnia della mia famiglia francese e quando sono entrato in quella che era la mia camera, mi sono tolto le scarpe e mi sono infilato subito le mie ciabatte lasciate appositamente lì. Un gesto banale ma significativo, perché nel farlo mi sono sentito veramente a casa, così come quando mi aggiravo per la cucina e preparavo per tutti la pasta.

È stata una bella serata, ovviamente, e mi ha fatto uno strano effetto andarmene stavolta, perché sapevo che sarebbe stata l’ultima e mentre svoltavo l’angolo e dall’Ipod uscivano le note di Albachiara mi sono immalinconito terribilmente.

Percorrendo quella strada mi è tornato in mente quando la calpestavo con gli scarponi e la neve, o quando il verde ha iniziato a impossessarsi dei marciapiedi con fiori e colori, e ovviamente, come è successo per mesi, sono passato davanti a quella scritta fatta sul cemento che ha un nome scolpito in terra. Un nome, che inevitabilmente non può essere casuale, e questo non perché sono io che ci faccio caso, ma per 4 mesi e mezzo ho letto sempre un nome fisso sul marciapiede prima dell’incrocio: Emily.

Mi sono fermato allo stand degli hot-dog e mi sono messo a parlare con il mio amico polacco e dopo aver azzannato il panino mi sono infilato dentro lo Yonge-Eglinton Centre per tornare in centro a casa, in quella che però per me non potrà mai essere la mia casa.

Anche perché, se per assurdo dovessi rimanere qui 10 anni, la mia abitazione sarà sempre e solo quella della famiglia Garin a Eglinton.

 

Sabato pomeriggio invece sono andato a Little Italy, lungo College Street per la manifestazione Taste of Italy. Un fiume di gente per un qualcosa che era tutto tranne che italiano se tralasciamo due stand della Barilla. Un miscuglio di locali, bancarelle e punti ristoro. Un bel clima, tanta gente, un via vai che intorno alle 17 ha raggiunto il suo apice.

Camminando per College Street riflettevo sui tanti italiani che sono qui, e con molti dei quali ho avuto modo di parlare, pensavo a loro e a questo forte senso di appartenenza che hanno con le loro radici dopo mezzo secolo. Un qualcosa su cui non posso esprimermi, a differenza del fatto che molti di questi sono persone che mentre il paese usciva dalla guerra e stava nella merda se ne sono andati, si sono imbarcati e tanti saluti al all’Italia per sempre. Non tutti, certo, ma molti hanno fatto così, mentre i miei nonni, come quelli di tanti miei coetanei si rimboccavano le mani e ricostruivano quotidianamente un’Italia a pezzi e distrutta della guerra.

Per questi ho il massimo rispetto, la totale stima, sono loro l’Italia, al di là dell’età, per quelli che se ne sono andati, ed erano liberissimi di farlo, ci mancherebbe, onestamente ne ho un pochino meno.

La mia terza casaultima modifica: 2015-06-21T16:09:33+02:00da matteociofi
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