Riflessione numero 492

Molto prima che un ragazzone dal naso piuttosto pronunciato di Malmoe decidesse di scrivere la sua biografia partendo dalla frase “Puoi togliere una persona dal ghetto ma non il ghetto da una persona”, mi era capitato già di leggere questa frase anni fa e di rifletterci un po’ sopra.

La scorsa settimana mi è ritornata in mente dal momento in cui casualmente mi sono reso conto di avere reagito in un certo modo in mezzo alla strada mentre uno al volante suonava ai pedoni, gesto abbastanza insolito a queste latitudini. Io me lo sono guardato e spontaneamente gli ho detto: “Mo che hai sonato, canta” e me ne sono andato. Frase non mia ovviamente, ripresa anche in una famosa serie tv, ma una di quelle espressioni tipiche della borgata, fra ironia e severità.

Faccio tante cose che sono radicate in me, nel bene e nel male. Ad esempio ho deciso che il biglietto dei mezzi è troppo caro e quindi basta, lo pago come mi pare. Per me 3,25 dollari per un ticket è qualcosa di inammissibile soprattutto dal momento in cui il servizio offerto non merita certe cifre. Di conseguenza, quando passo e verso le mie monete ne metto una manciata a caso, raramente l’importo esatto, ma sempre una quantità che sembra quella corretta, e il tocco finale è aggiungere sempre un bel: “Vedi de fatteli bastà”.

Toronto ha tirato fuori il peggio di me sotto una serie di aspetti, un qualcosa che è facilitato dal discorso linguistico. Durante il giorno non so a quante persone mi rivolgo in mezzo la strada e generalmente non per apostrofarle nel modo più edificante. Però, a mio avviso non c’è alternativa. Quando vedo qualcuno mangiare roba schifosa o improponibile, me lo guardo e puntualmente pontifico con un: “Ma guarda che te stai a magna, ma non te vergogni?” succede qualcosa di analogo quando incrocio qualcuno mal vestito e questo capita ripetutamente, lì l’esclamazione diventa però: “Ma guarda come vai girando…”

Visto che qui tutti vanno molto lentamente, soprattutto al supermercato, tanto i commessi quanto i clienti, il mio eloquio è ricco di: “Daje, cammina, sbrigate, movite, aho, forza un po’, fatte n’artro sonno” poi attivo la modalità meno educata e piove di tutto. Questa sorta di dormiveglia nel quale tutti vivono fra gli scaffali del supermercato si scontra inevitabilmente con il mio passo e il mio approccio. Portando il carrello con la stessa impazienza dell’automobilista medio di Roma, me la prendo immediatamente con i malcapitati. Ci sono giorni in cui pagherai per svuotare il supermercato prima di poter entrare e fare la spesa in pace, anche perché è una di quelle cose che a me è sempre piaciuto fare.

Tendo a prendermela con tutti, soprattutto con chi mi chiede i soldi e qui è un continuo. Disperati di vario tipo ti si avvicinano per chiederti qualche moneta. Spesso li ignoro, a volte le cuffiette mi isolano e nemmeno me ne accorgo, altre volte invece mi guardo il mal capitato di turno, lo fisso e poi con una mimica non certamente nordamericana mi avvicino e mettendo la mano affianco l’orecchio gli dico: “Eh? Nun te capisco, che voi?”

La sera in cui perdemmo il derby di ritorno, a fine gennaio, per poco non mettevo le mani addosso a uno che continuava a importunarmi camminando sulla mia destra verso casa. Il problema è che aveva scelto il bersaglio sbagliato, nel momento meno adatto, soprattutto per il fastidio e l’incazzatura da cui ero pervaso. Alla terza replica con un educato ma deciso: “I don’t have coins, sorry” ho chiuso con un meno accogliente: “Mi hai già rotto il cazzo, se mi ritocchi te meno proprio”, lo switch di lingua fortunatamente deve averlo convinto di qualcosa e se ne è andato.

E poi attraverso la strada dove mi pare, mi infastidisco quando a fine partita, il martedì al torneo di calcetto, devo stringere la mano agli avversari e all’arbitro, seguendo quel protocollo di fair play che a noi ne piace e nemmeno ci appartiene, giorni fa invece a uno in difficoltà in una manovra di parcheggio ho detto a voce alta, passandogli vicino, che ci sarebbe entrato il famoso “cavallo con una scopa in bocca”.

Prendo in giro chiunque, ce ne ho una per tutti, ma mi viene naturale. Il problema è quando torno a Roma, ogni volta ho i primi due giorni di imbarazzo perché devo reimpostare il mio cervello su una modalità ben diversa, anche perché lo stesso atteggiamento mi costerebbe una pizza in faccia dopo meno di mezz’ora senza dubbio.

Alla fine è cosi, il contesto in cui sei cresciuto non può abbandonarti nel giro di qualche anno, e sia chiaro, non ne sto facendo una bandiera orgogliosa da sventolare, è un dato di fatto, anche poco apprezzabile, indubbiamente, ma questo è.