Doppio promemoria

Facebook ieri mi ha ricordato che di fondo lo scorso anno ero andato il 29 maggio al Service Ontario a chiedere la mia tessera sanitaria, quella che ancora non ho dopo un anno e 4 tentativi, e soprattutto a conoscere sbadatamente e casualmente Emily.

 

La finale di Champions League ieri mi ha ricordato quella precedente, dello scorso 6 giugno, quando lei era a Roma da una settimana ormai, (a Roma, come ora, bisogna aggiungere) e io camminavo per King Street diretto verso il pub del Barcellona per vedere e gufare senza ritegno la juve. In quella nervosa camminata, ricordo che registrai una nota vocale e la mandai a Gabriele, un messaggio vocale in cui si annidavano una decina di preoccupazioni, intenzioni, angosce, fastidi e quant’altro.

 

Questo doppio abbinamento di ricorrenze e ricordi, mi ha riportato quindi indietro con un balzo volante e in qualche modo mi ha fatto sorridere la sensazione che mi ha generato, una sorta di nostalgia di me stesso, una percezione che vivo alcune volte, non così raramente, anche di momenti onestamente non del tutto esaltanti.

Mi sono soffermato sul contenuto di quella nota vocale e oggi, a distanza di un anno, so che non direi mai certe cose, non le ripeterei assolutamente. Un anno è passato, un anno che però vale almeno il doppio e mi sto tenendo basso, e la sensazione di nostalgia è di fondo una conseguenza della vita adulta, del crescere e del pensare, come chi invecchia, che tutto quello che c’era prima aveva un sapore diverso, spesso più genuino.

Anni così ti inaridiscono emotivamente in maniera esagerata, un po’ la solitudine, un po’ le situazioni, un po’ il distacco emozionale che si prova da tutto e l’impossibilita di alimentarlo, tutti questi ingredienti creano una miscela molto fredda, a volte di vuoto.

Vivo ancora i crucci di un tempo, ma molte altre cose sono sparite con gli anni, semplicemente è come se la lente a nostra disposizione cambiasse e quindi l’oggetto da guardare fosse distorto cambiando dimensione, spesso si riduce, non solo come taglia ma anche come valore assoluto.

Oggi riflettevo su una serie di argomenti, uno in particolare, ossia quale è il regalo più grande che mi ha fatto il Canada in questi due anni e credo di avere una risposta molto sincera che svetta su tutte.

Il dono più grande è stato quello di capire veramente i miei limiti una volta per tutte, di averne una idea estremamente precisa perché questo posto me li ha palesati uno per uno, obbligandomi a vedere il quadro. Un regalo infinito. Magari severo, fastidioso da accettare, ma dal valore intrinseco penso indicibile.

Capire cosa posso fare, capire cosa non fa per me, dove sono bravo e dove non lo sono, dove sono migliorabile e dove no. La grandezza di tutto questo però rimane nei limiti, negli aspetti negativi, quelli di fondo più fastidiosi da assorbire e accogliere. Il Canada negli ultimi 18 mesi mi ha dato tutto ciò e un giorno, ripensando a questo, sono convinto che gli saprò dare un valore ancora più grande ma soprattutto più appropriato.

Mi ha detto in faccia tante cose, forse per tale ragione non mi sta molto simpatico questo posto, però superato lo step iniziale gli devo riconoscere la grandezza di questo contributo e la capacità di darmi un termine di paragone importante e di potermici misurare, mostrando appunto, a me stesso, fino a dove potevo arrivare sotto ogni aspetto.

La totale assenza di piacere e della sfera emozionale e godereccia, per chiamarla in maniera un po’ imprecisa, ha segnato questo cammino, motivo per cui molto spesso mi sono ripiegato su me stesso, ma alla fine qualcosa di buono, o quanto meno di istruttivo e interessante l’ho trovato. Senza una serie di sacrifici non sarei arrivato a capire un po’ di verità.

Per questo, oggi rispetto ad esempio al 29 maggio 2015 o al 6 giugno 2015 non direi alcune frasi. La nostalgia si annida proprio in quell’entusiasmo che forse c’era e dal quale non vedevo l’ora di farmi trascinare, di essere un po’ in balia di qualcosa, del brivido inaspettato. Oggi mi stupisco di quanto solo un anno fa potessi essere sciocco nel fare certe considerazioni. Quel senso di illusione a volte però mi manca anche, da qui scaturisce quella nostalgia di una vecchia edizione di me stesso. Lontana da oggi, per certi aspetti sfigata e inadeguata, però molto più illusa e credulona, ma a volte, insomma è bello anche sentirsi cosi. Oggi non ci riuscirei assolutamente, nemmeno se volessi, ma è una conseguenza di una conseguenza, un lungo nastro srotolato, una montagna di certezze e punti agguantati in questi 12 mesi, amari molto spesso ma profondamente veri.

E a me, ancora oggi, al di là del risultato e delle evoluzioni, piace sempre e come al solito la verità, qualunque essa sia, anche a discapito di emozioni e finzioni.

“Prima dei 30”

1 Vivere da solo.

2 Tornare a New York.

3 Aver lavorato almeno per una volta con un contratto superiore ai 12 mesi in un posto gratificante.

4 Vedere ancora il Palio di Siena.

5 Scrivere un libro.

6 Essere stato in tutti i continenti almeno una volta.

7 Fare una maratona intera.

8 Dormire in spiaggia.

9 Vivere all’estero (anche in compagnia) per un periodo.

10 Rileggere la Divina Commedia.

 

Riguardo l’amore non mi esprimo perché penso sempre di più che dipenda relativamente dal nostro singolo volere.

 

19 gennaio 2013 alle 12:22

 

Rispondevo in questo modo ad un post di David tre anni e mezzo fa, un post in cui lui elencava 8 cose da fare prima dei 30 anni, età vista inevitabilmente come sbarramento, come uno di quei traguardi anagrafici che ti impongono magari di fare una sorta di resoconto.

A distanza di anni mi è tornato in mente quel post ma soprattutto sono andato a rileggere cosa avevo scritto e devo dire che il bilancio può essere positivo, almeno, sono un pezzo avanti quando dalla fatidica data mi separano nove mesi ancora.

Mi mancano delle cose fattibili (il Palio), una un po’ più complicata come andare in tutti i continenti, non sarebbe un problema l’Africa, ma un po’ di più l’Oceania, per soldi, tempo e distanza, e poi c’è la maratona che impone lavoro, forza d’animo e polmoni ultra allenati. Paradossalmente quest’ultima però potrebbe essere quella più fattibile, mentre il Palio quasi certamente è già da segnare come non fatta, visto che i prossimi due li perderò sicuro, e quelli del 2017 eventualmente saranno a 30 anni compiuti.

Sette su dieci intanto sono stati messi in cassaforte, nulla di impossibile ma qualcosa di leggermente più difficile c’era, anche se in quel momento, nel gennaio 2013, prima di Dublino e di altre 3000 cose non sembravano situazioni o punti semplici.

Rispetto agli altri io però non mi ero espresso su un aspetto, anzi, avevo messo una postilla in cui mi spiegavo chiaramente, ed ovviamente ancora oggi mi verrebbe da sottolineare quel concetto.

Non dipende da noi, o certamente molto poco, e quindi dire quello che si vuole fare è limitativo e non funziona. Tutti gli altri punti erano molto più dipendenti dal sottoscritto ed infatti sono andati quasi a tutti segno.

In questo 2016 sono riuscito a fissare il punto 2 e il 3 oltretutto nel giro di un mese, fra gennaio e febbraio, ma devo dire che tornando indietro riscriverei esattamente le stesse cose e non cambierei nulla. La sensazione è che solo la maratona potrebbe aggiungersi prima dei 30, ma già da oggi rileggendo tutto mi posso ritenere soddisfatto.

Poteva andare peggio, meglio non credo proprio, e onestamente i punti centrati contano più di quelli che mancano, per cui va bene così, ma se posso uscire dal vincolo dei 30 anni, di certo nel futuro prossimo ho tre obiettivi fissi: vivere in un’altra nazione ancora, possibilmente europea, fare il testimone alla Bionda e vedere un altro scudetto dell’Inter. A quel punto, mi sentirei definitivamente realizzato e non avrei più altro da chiedere in generale.

Ma intanto, arriviamo al 6 marzo del 2017 e poi faremo i conti finali.

Come la sera del 22 maggio

Il pranzo a casa di mia nonna, il sole di quel sabato e il fresco della metro che mi portava a Termini. La stazione, il saluto con Alfredo e la Gazzetta sotto braccio. Spalle alla direzione del treno, la greca davanti a noi, ore di silenzio intervallate da pochissime parole, per via della tensione e della trance agonistica che possono vivere solo i tifosi. “Mago Mou pensaci tu” titolava la rosea, Alfredo che continuava a fingere di darmi un pugno e ripetere Pem! Fino a quando gli ho detto che aveva rotto i coglioni poco prima di Bologna, sì Bologna. Il treno nel frattempo aveva caricato tifosi in giro per l’Italia e diretti a Piazza Duomo, l’epicentro di 100 mila cuori in attesa.

La stazione centrale a pochi minuti e Alfredo che parlava in spagnolo con i peruviani che avevano la maglia con la croce del centenario e gli ricorda però che il “Rojo e Blanco” sono i colori del Bayern. Milano appunto. Caldo, caldissimo. Il trolley lasciato in hotel, alcuni messaggi che iniziavano ad arrivare sul mio cellulare. In bocca al lupo, sentiti, ne ricordo due soprattutto.

La fermata del Duomo chiusa e la lunga camminata per raggiungere la piazza passando davanti la Scala e dentro la Galleria. Poi un mare umano. Niente cena, niente acqua, sospesi in una dimensione ultra terrena quasi. Si comincia, ma alle 21,22 viene giù tutto, guardo il Duomo, ma non parlo di Alfredo che sta alla mia destra, e mi domando per un attimo, in un secondo di lucidità, come è possibile che sia rimasto in piedi. Ha tremato la città, io ho sentito un dolore in pieno petto mentre gridavo come un ossesso e continuavo a spingere il Duomo, sì stavolta Alfredo.

Alle  22,24 ancora. Un vulcano tappato per 45 anni esplode di nuovo. Sappiamo che è fatta, ma non vogliamo crederci.

Poi però succede. E siamo nella storia e ci abbracciamo tutti insieme. Non ho idea di quello che stia succedendo, continuo a dire “l’abbiamo vinta”, un po’ lo grido, un po’ lo penso, a volte lo sussurro, altre lo ripeto a me stesso, al telefono lo strillo invece, aggiungendo anche che l’abbiamo riportata a casa. Forse piango pure, penso a mia nonna e a quello che le ho detto poche ore prima, mi vengono in mente migliaia di immagini e tante persone che vorrei stringere. Sono sfinito tanto quanto contento, e questo significa allora che sono distrutto. Sono completamente fuori controllo ed è una sensazione bellissima. Sembra che l’ho vinta io questa coppa, ma forse è un po’ così.

La missione è compiuta, l’impresa è stata fatta. Primi e unici ad esserci riusciti. Andiamo a San Siro, sta succedendo di tutto, quando sono le 2.30 e siamo sul piazzale sotto la Curva Nord,  al grido “Vaffanculo Piquè”, ci guardiamo e ci abbracciamo con Alfredo.

Stiamo iniziando a capire quello che è capitato, e con un tono normale, ma ancora in estasi, ci diciamo in contemporanea che ce l’abbiamo fatta. Ora andiamo dentro e aspettiamo che ce la facciano vedere però. Succede mentre sta per albeggiare, è una immagine che va oltre qualunque sceneggiatura, siamo in 50 mila e non vogliamo più andare a dormire, non vogliamo che questo 22 maggio finisca.

Saltiamo e cantiamo, esco un attimo a prendere un panino con la salamella, è il più buono che abbia mai mangiato, almeno così pare. Vedo per un attimo San Siro illuminato da fuori, è una cartolina che grida e celebra, penso che valeva la pena aspettare così tanti anni per una emozione del genere.

Quando Cambiasso me la alza a pochi metri realizzo seriamente che è tutto vero e so che quando andrò nuovamente a dormire, prima o poi capiterà, lo farò non solo da campione d’Europa ma senza un sogno cullato una vita, e sarà una strana sensazione.

Diventiamo grandi il giorno in cui capiamo che i sogni di quando eravamo bambini sono irrealizzabili, a volte però avviene il contrario, a volte, invece, diventano realtà.

Come la sera del 22 maggio 2010.

“Questi siamo”

Nei giorni a Roma c’è stato spazio anche per qualche discorso più profondo, per delle riflessioni, e non solo tempo per risate, battute e nuovi personaggi, come l’improbabile e spassoso pugliese nato per caso su Via Casilina.

La prima sera, passeggiando per Frascati con il padrone di casa, quando le due di notte erano ormai passate da un pezzo, ci siamo imbattuti in un discorso scaturito da una sua frase: “Vedi Duomo, questi siamo”. Una affermazione che io ho non ho voluto lasciar morire così, ma sulla quale mi sono soffermato un attimo più del solito, proprio perché nelle settimane precedenti avevo avuto modo di pensare a qualcosa di analogo per ragioni differenti.

Questi siamo, è veramente così e ho aggiunto che bisogna anche accettarlo. Questo è un passaggio fondamentale, il gradino che porta a una sorta di felicità o di maggiore pace interiore. Credo che nella vita ci sia un sottilissimo confine che non saprei localizzare perfettamente, una linea labile che divide l’arrendersi dal sapersi accettare. Penso che arrendersi, in certi momenti o situazioni, non sia sinonimo di sconfitta o di essere perdenti, tutt’altro, talvolta è semplicemente un prendere coscienza, avviarsi ad un accettare ciò che siamo, riconoscersi capacità e limiti, lacune o inadeguatezze. E per quanto sia un nostro dovere e diritto lavorarci sopra, non bisogna mai scivolare nell’incastrarsi in questi percorsi per non uscirne più.

Sbattere la testa contro muri di vario spessore significa perdere anche tempo e non trovare nulla, ne tanto meno conquistare qualcosa. Per cui, spesso, la resa è addirittura un successo, è il primo passo verso qualcosa di nuovo, come un percorso più sereno. Ci sono cose su cui si può migliorare, altre su cui non si può andare più di tanto in là. Non siamo fatti per eccellere in tutto, o per essere perfetti, non siamo stati costruiti per pensare che tutto sia possibile e che siamo in grado di ottenere ogni cosa soltanto con l’impegno. È una bella idea, molto stimolante, parecchio self made man ma anche un filo ottusa ed irreale.

Questi siamo e a un punto, a un momento della vita bisogna rendersene conto, cercando un superamento di se stesso, un miglioramento, certo, ma con dovuta cognizione di causa. Siamo questi e a un punto direi che va bene anche così.

Sono nel bel mezzo di questo passaggio che senza esagerazioni ha una qualche sfumatura di epocale. Se penso allo scorso anno, a quei giorni e a quei post, direi che oltre ad avere la sensazione che siano passati molti più di 12 mesi, c’è un qualcosa di diverso. Un sentimento di calma differente, non di pace, ma di maggior chiarezza e onestà.

Vado più d’accordo con me stesso perché ci siamo capiti su un paio di cose. C’è stata una discreta presa di coscienza, e lo scorso 7 aprile, un episodio piuttosto simbolico ed emblematico mi ha portato a pensare a una serie vicende, a ragionare su alcuni elementi con una chiave di lettura ben diversa dal solito. Molto probabilmente la più corretta, di certo estremamente veritiera.

Ecco, è molto interessante tutto questo, questo lavoro di accettazione che richiede tempo ovviamente, ma che secondo me è comunque una spia di maturazione, di evoluzione, di crescita e transito. E per quanto io sia in fondo un personaggio abbastanza normale, resto una figura da romanzo di formazione, quello che nel frattempo, attraverso situazioni e peripezie, anche senza nulla di estremo, diventa altro, quanto meno sotto una serie di aspetti, pur restando fedele a se stesso.

Molto più in fondo di un Emilio Brentani, qualcuno sul quale ogni tanto ti viene da buttare un occhio, non tanto per vedere se regala emozioni, ma più che altro per capire a che punto sta nel suo percorso di crescita. Un personaggio didascalico, figlio magari della penna di un Bonvesin de la Riva.

Questi siamo, e questo sono. Hai ragione te Duomo, e voglio aggiungere anche che va bene così, soprattutto a un punto, quando ad esempio il mezzo del cammin di nostra vita, tanto per finire le citazioni, dista solo 6 anni.

 

“Cosa serve? Bisogna avere la mente aperta, così come il cuore, una batteria carica e correre liberi. Verso l’eternità. Tutto qui”.