Da Berna a Birmingham

Da Berna a Birmingham. La traiettoria è questa, inizia il 10 maggio del 1989 e termina il 19 maggio del 1999. Dieci anni, in mezzo un dominio mai visto prima, un impero calcistico difficile da poter replicare, quasi impossibile da superare.

Dalla Svizzera al centro dell’Inghilterra, due finali di Coppa delle Coppe, in campo la Sampdoria di Boskov e la Lazio di Eriksson. La storia inizia con una sconfitta però e finisce con un successo, l’ultimo timbro italiano sul decennio di gloria del nostro calcio dominante.

Gli Anni 80 stanno per finire, l’Europeo di Germania è alle spalle e la nostra Nazionale non ha brillato, sullo sfondo però c’è già la Coppa del Mondo che ospiteremo, nel frattempo le italiane continuano a faticare nelle competizioni europee. L’ultimo successo è datato 1985, la Coppa Campioni della Juventus nella maledetta notte dell’Heysel.

L’ultima stagione degli anni Ottanta segna però un cambio di marcia, una svolta che ribalta il panorama calcistico continentale. Il Milan di Berlusconi ha vinto lo scudetto nel 1988 strappandolo al Napoli di Maradona, dopo il tricolore il presidente rossonero punta dritto all’Europa. Gullit e Van Basten trascinano il Milan alla Coppa Campioni contro la Steaua Bucarest travolta al Camp Nou per 4-0. La macchina perfetta messa a punto da Sacchi inizia a spaventare l’Europa che è ancora orfana delle inglesi, fuori dopo la drammatica notte di Bruxelles. Senza le squadre di oltremanica che avevano vinto a ripetizione a cavallo degli Anni 70 e 80, mancano rivali importanti, ma il vuoto non è stato monopolizzato da nessuna nazione fino al 1989 appunto.

Il Milan sale in cima all’Europa, la settimana prima il Napoli si aggiudica la Coppa Uefa contro lo Stoccarda; il 10 maggio a Berna invece la Samp viene battuta dal Barcellona. Tre italiane in finale in ciascuna competizione, un episodio che capiterà ancora, l’en plein sfuma solo per il mancato successo doriano, ma è solo questione di tempo.

La stagione che conduce a Italia ‘90 è un altro dominio totale: il Milan rivince la Coppa Campioni (ancora oggi è l’ultima squadra ad averne vinte due fila) contro il Benfica, la Samp ai supplementari supera l’Anderlecht in una partita che sembra stregata e vendica la sconfitta dell’anno prima, mentre la Juve batte in una finale tutta italiana la Fiorentina in Uefa.

Il monologo italiano si interrompe ai Mondiali con i rigori in semifinale contro l’Argentina, ma la supremazia italiana non si ferma, si arresta, solo per un po’.

Nel 1990-91 un’altra finale di Uefa è tutta tricolore: l’Inter batte la Roma, ma ai quarti su 8 squadre 4 sono italiane considerando anche l’Atalanta ed il Bologna. In Coppa Coppe la Juve esce in semifinale contro il Barça che perderà la finale contro il Manchester United, mentre il Milan non riesce a calare il tris ed esce ai quarti nella controversa notte dei lampioni di Marsiglia.

Il territorio preferito delle italiane sembra essere la Coppa Uefa, nel 1992 infatti un’altra squadra di Serie A, la sesta diversa in 4 edizioni, raggiunge l’atto conclusivo. Il Torino perde la coppa senza essere sconfitto. Finisce 2-2 contro l’Ajax al Delle Alpi e 0-0 in Olanda, con la corsa granata che si infrange su tre legni. Il Genoa è l’altra sorpresa della competizione ed abdica soltanto in semifinale, sempre contro i lancieri.

In Champions League, questa è intanto la nuova denominazione della Coppa Campioni, c’è la Sampdoria alla sua prima partecipazione in questa competizione. La marcia della squadra di Boskov è praticamente perfetta, e senza alcun timore reverenziale i blucerchiati avanzano fino alla finale di Wembley. I sogni di Vialli e Mancini però naufragano ancora una volta per mano del Barcellona, come tre anni prima. Ai supplementari un siluro su punizione di Koeman regala la prima Coppa Campioni ai blaugrana. In Coppa Coppe la Roma va a casa ai quarti contro il Monaco, la campagna europea italiana si chiude con due finali e zero successi per la prima volta dopo tre stagioni consecutive.

È un caso, perché il 1992-93 ristabilisce nuovamente il dominio italiano: il Milan torna in finale di Champions, stavolta però il Marsiglia vince e lo fa sul campo con Bolì, la Juve conquista la Coppa Uefa, il Parma vive il suo miracolo di provinciale e stende l’Anversa in finale di Coppa Coppe a Wembley. Tre finali, due successi, ma è solo il prologo della stagione successiva, quella che porta oltretutto ai Mondiali di USA ‘94.

Come quattro anni prima le italiane danno il loro meglio e arrivano in fondo a ogni competizione. Il Milan alza la Champions contro il Barcellona schiantato 4-0, l’Inter batte il Salisburgo in Coppa Uefa dopo aver superato il Cagliari in semifinale, il Parma arriva ancora all’atto conclusivo della Coppa Coppe ma viene beffato dall’Arsenal 1-0.

Il calcio italiano è al suo apice, per qualità e continuità, il Mondiale si trasforma in un’avventura ricca di imprevisti e colpi di scena. Baggio trascina gli azzurri in finale ma ancora una volta i rigori negano alla Nazionale il successo.

Archiviata l’avventura americana, i club italiani riprendono a dominare, il Milan va in finale di Champions per la terza volta di fila ma viene giustiziato dall’Ajax del futuro rossonero Kluivert, la Samp esce in semifinale di Coppa Coppe ai rigori contro l’Arsenal, mentre ancora una volta la Coppa Uefa regala un derby tutto italiano con Juventus-Parma, autentiche protagoniste di quella stagione. Vincono i gialloblu, alla terza finale europea di fila.

La stagione 1995-96 diventa inaspettatamente uno spartiacque del pallone continentale, il 15 dicembre del ’95 infatti con la sentenza Bosman la Corte di Giustizia delle Comunità Europee stabilisce la libertà dei calciatori professionisti aventi cittadinanza dell’Unione europea di trasferirsi gratuitamente a un altro club alla scadenza del contratto con l’attuale squadra. La decisione stravolge il mondo del calcio poiché una delle conseguenze della sentenza stessa è anche l’abolizione del tetto al numero di calciatori stranieri nel caso specifico in cui questo aspetto discriminasse dei cittadini dell’Unione Europea.

Mentre inizia questa fase di transizione giuridico-sportiva, nel 1996 in Champions League il Milan lascia il passo alla Juve che torna a giocare la massima competizione e vince subito, il Parma esce ai quarti di Coppa Coppe contro il PSG che alzerà in seguito il trofeo, in Coppa Uefa, per la prima volta dopo sette edizioni, nessuna italiana si gioca il titolo, con Milan e Roma che salutano anzitempo ai quarti.

È solo un passaggio a vuoto però, perché l’anno dopo l’Inter va in finale e perde in casa ai rigori contro lo Schalke 04. La Juve difende la sua Champions e cade contro il Borussia Dortmund nell’epilogo di Monaco di Baviera, mentre la Fiorentina va fuori contro il Barcellona di Ronaldo in semifinale di Coppa delle Coppe.

Le italiane continuano a recitare il ruolo di protagoniste ma la supremazia inizia ad essere meno totale, nel 1997-98 però c’è l’ennesimo duello tricolore in finale di Uefa con l’Inter del “Fenomeno” che vince la sua terza coppa in 8 edizioni battendo 3-0 a Parigi la Lazio. La Juve raggiunge nuovamente la finale di Champions, la terza consecutiva, ma scivola contro il Real; in Coppa Coppe invece, l’incredibile favola del Vicenza di Guidolin termina in semifinale a Londra dopo aver fatto tremare realmente l’Ital-Chlesea.

Il 1998-99 è la stagione che conclude questa parabola decennale, è il punto finale. Il Parma vince la Coppa Uefa a Mosca, la Lazio alza il suo primo titolo europeo contro il Maiorca a Birmingham, mentre Juve e Inter vanno a casa entrambe per mano dello United che nel mese di maggio conquisterà uno storico treble.

È la seconda edizione della Champions League con due squadre per ciascuno dei campionati  principali, ma è anche l’ultima edizione della Coppa Coppe. Il calcio europeo cambia formato, e quello italiano perde colpi. La Serie A continua a rimanere il campionato di riferimento, ma la spinta propulsiva cala, in maniera quasi naturale. La Nazionale sfiora il successo a Euro 2000 mentre l’Under 21 porta a casa il titolo di categoria, il quarto in 8 anni che si va aggiungere a quelli del 1992, ‘94 e ‘96, tanto per rimarcare la superiorità del pallone nostrano sotto ogni livello nella decade dei Novanta.

Il calcio prende un’altra strada, tornano a essere protagoniste le due grandi di Spagna, le inglesi si riaffacciano in Europa, il continente vive una fase di grande cambiamento politico ed economico con l’ingresso della moneta unica il primo gennaio del 2002.

Perdiamo lentamente terreno in Europa, solo il Milan all’inizio del nuovo millennio riesce ad avere un minimo di continuità con tre finali di Champions in 5 edizioni. Quella del 2003 contro la Juve, dopo aver eliminato l’Inter nel primo storico Euroderby, sembra un ritorno al passato ma è solo un episodio. Il gioco cambia, i soldi in ballo iniziano ad arrivare da nuovi contesti e da diverse latitudini, il calcio si avvia a essere quello dei top team, della Champions che divora tutto e degli sceicchi.

L’Europa League, la vecchia e ambita Coppa Uefa, solo per i club italiani diventa un peso, in Champions l’Inter nel 2010 compie un exploit incredibile ma rimane un caso isolato fino alla Juve del 2015 che sorprendentemente arriva in fondo prima di crollare davanti al Barcellona.

 

È il calcio di oggi, che ci vede spettatori e quasi mai protagonisti. Con la Nazionale al suo minimo storico dal punto di vista qualitativo, gli stadi vuoti e non solo per il timore della violenza o per le strutture fatiscenti. L’Italia del pallone è relegata dietro ad altri tre paesi, ha perso dal 2010-11 un posto in Champions e non ha più una potenza economica tale da poter competere con i capitali di altri club. Nel frattempo si sta aprendo a nuovi investitori: americani, indonesiani, cinesi, che non sembrano però avere la stessa capacità di Barca o Real per non parlare dei petrodollari degli sceicchi.

Rimane il ricordo, quello sì, di un’era già lontana ma che non può essere sperduta nella memoria. Gli Anni 90 sono stati il punto massimo del nostro movimento, e questi dati finali lo sintetizzano in modo chiaro:

In 11 stagioni, con 33 finali da disputare, le italiane sono presenti in 24 occasioni. Sono 14 i trofei vinti, 4 invece le finali tutte italiane e sempre in Coppa Uefa. Il 1990 è l’anno in cui tutte e tre le competizioni vengono vinte da una squadra italiana, mentre sono quattro le stagioni in cui portiamo almeno un club in finale di ogni coppa (1989, 1990, 1993, 1994).

Le italiane giocano 7 finali di Champions consecutive fra il 1992 ed il 1998, e altrettante di Coppa Uefa fra il 1989 ed il 1995. Per 4 anni di fila riusciamo addirittura a portare sistematicamente una italiana sia in finale di Champions League che in Coppa Uefa (1992-1995) ma soprattutto in 11 anni ben 10 diverse squadre italiane vanno in finale, ed altre 4 raggiungono una semifinale (Bologna, Cagliari, Genoa e Vicenza).

Non bisogna aggiungere altro, è il decennio dell’Italia, la decade dello strapotere del pallone tricolore sui campi di tutta Europa. 

Chissà…

Non so per quale ragione ma giorni fa il pensiero di me seduto sul 18 che da Crumlin mi portava in redazione a Dublino mi ha attraversato la mente. Senza un motivo valido e razionale al mondo, per più di qualche secondo avrei voluto rivivere quella malinconia, quella solitudine, quel costante amaro che provavo in quelle settimane.

Pochi giorni dopo, una conversazione su Whatsapp con Dublino si è tramutata in una sorta di chiacchierata lavorativa ed è terminata con tanto di bozza di proposta per un clamoroso ritorno.

Oggi, a chiudere questo trittico tanto assurdo quanto inatteso, dopo quasi tre anni, mi sono ritrovato a digitare su Google “rent apartment Dublin” e pochi secondi dopo ero di nuovo là, come un tempo a spulciare siti (alla fine sono sempre e ancora quei tre) per vedere che aria tira, e che prezzi ci sono.

Mai avrei pensato di ritrovarmi in un frangente del genere, o almeno non ora e certamente non così all’improvviso. Eppure eccoci qua.

Non avrei mai scelto Dublino ad inizio autunno del 2012, quando la mia vita sembrava molto serena, equilibrata e mi piaceva un sacco, mai avrei pensato di tornarci cinque mesi più tardi dopo essere rientrato a Roma a fine maggio 2013.

Mai avrei creduto che ci potessero essere anche lontanamente i presupposti per un eventuale terzo ritorno, oltretutto in tempi ristretti. La vita è circolare d’altra parte, e le esperienze di vita sono circolari. L’ho detto e ripetuto decine di volte, eppure, è cosi. Ma soprattutto, se oggi scrivo da qui, da Toronto, da questa casa che si affaccia su una stradina che collega Gerrard st con Dundas st mentre il pollo e le patate sono al forno, è proprio perché il pomeriggio del 7 gennaio del 2013 decisi di andare a ESL, il primo step che mi portò a Dublino 9 settimane più tardi.

In Irlanda mi ci ha portato il destino due volte, dovevo passare lì per arrivare qua, è evidente, non credevo che da qui avrei potuto magari rifare il viaggio in senso opposto.

Ho passato mesi difficili a Dublino, sia la prima volta che la seconda, per motivi molti diversi fra loro, ho dei ricordi piacevoli, conservo frammenti importanti, perché entrambe le esperienze furono talmente ricche di insegnamenti che farei fatica ad elencarli.

A Toronto ci vivo da oltre un anno e mezzo, con comodità importanti che in Irlanda non avevo, uno stipendio, e il fatto di vivere da solo, eppure continuo a pensare che Dublino sarà sempre la mia seconda casa e non Toronto. Non lo so perché, è assolutamente un sensazione che avverto e che va oltre ogni logica, qualunque bilancia penderebbe sul lato canadese, ma per me c’è qualcosa in più. Toronto dopo tanto tempo la vedo come una matrigna perfida, che non ti regala mai un sorriso o una gioia, mai una soddisfazione, anzi magari ti illude e ti beffa. Ripetutamente.

Dublino rimane una zia vecchia e malandata, rattoppata nel suo modo di essere ma che ti vuole bene e non ti lascia mai, anzi ti riaccoglie e ti attende sempre.

Le luci, i grattacieli, il modo newyorkeggiante di Toronto ha 20 volte un appeal superiore a Dublino che rimane una delle capitali più brutte d’Europa, ma forse mi trasmette una nostalgia che mi fa stare male e mi dà qualcosa, senza trascendere in qualsivoglia forma di masochismo.

È così, non tutto si può spiegare nella vita, soprattutto le sensazioni. Toronto è meglio di Dublino sotto ogni aspetto, però c’è un qualcosa di altro che mi solletica.

Ho sempre più la sensazione che questo posto si sia messo per traverso e non lo si possa smuovere più, e dico tutto ciò mentre una splendida estate impazza, mi sono comprato la bici e ho vissuto belle serate ultimamente, però è un posto che mi negherà sempre qualcosa, un senso di benessere di fondo.

Oggi ero in spiaggia e pensavo che Toronto è la finale di coppa Uefa Ajax – Torino del 1992. Ti basta un gol per vincere il trofeo nella partita di ritorno e prendi 3 pali, finisce 0-0 e in mano ti rimane niente, dentro invece un senso di beffa e di rimpianto e l’idea che se non deve andare, non andrà, non ci sono storie, è scritto.

Toronto mi dà questa sensazione, e lo dico nel momento in cui sto compiendo anche il mio massimo sforzo fisico, mentale ed economico di sempre qui, proprio per cercare di invertire la tendenza, eppure sembra non bastare mai. Sembra impossibile, appunto, come quando devi fare un gol ma continui a sbattere su pali e traverse, tu prendi la medaglia d’argento e gli altri alzano la coppa.

Questo posto mi pare un po’ così, Dublino invece è tutta altra roba, quanto di peggio apparentemente, ma nemmeno tanto, però è un pezzo di cuore, e 5 mesi possono valere più di due anni. La vita è anche qualità, emozione, sentimenti, sorpresa, soprattutto questo ultimo aspetto, Dublino mi ha saputo sorprendere, Toronto sembra essere di una idea ben diversa e bisogna prenderne atto alla fine della storia.

Mi piacerebbe fare pace con questo posto, o almeno andarmene in maniera piacevole, con qualcosa di bello a livello emozionale, al di là della visita di David.

Però chissà, magari è anche scritto che qui le cose debbano andare in un certo senso affinché io vada, perché qualcosa altro mi attende e non può proprio aspettare. Chissà…

Tanto per scrivere una cosa

Non è che non sto scrivendo, è che a dire il vero non ho molto da dire, se non che le settimane corrono in modo surreale, forse anche perché la GMG sta per cominciare e come qualcuno ha giustamente sentenziato “Queste sono le nostre Olimpiadi”.

Onestamente, dopo aver vissuto lo scorso Sinodo, 26 giorni di lavoro senza pause nulla può spaventarmi. Non sarò a Cracovia (e la cosa non mi addolora più di tanto per diverse ragioni, in primis una transvolata intercontinentale in meno) ma coprirò tutto da qui, ogni giorno dallo studio lavorando invece nel pomeriggio al coordinamento per lo show in inglese che andrà in onda alle 19.00

Posso dire che è una bella estate calda e che non ha davvero nulla da invidiare a quelle romane, ho deciso di comprarmi la bicicletta perché devo smetterla di coprire distanze paranormali a piedi come nulla fosse, e questa cosa mi esalta come un bambino di inizio Anni 90 in attesa di una BMX.

La spiaggia il weekend, il venerdì rigorosamente lo stesso bar, e poi il barbecue, il Canada è una monarchia parlamentare fondata sul barbecue per chi non lo sapesse, tutto è in funzione di quello, al punto che a volte penso “Sì, vabbè, ma vuoi mette un bel piatto di pasta?”.

In tutto questo, come spesso accade, gli ultimi giorni hanno portato una carrellata di notizie tutte in rapida successione: chi si sposa, chi si è sposato, chi lo farà a maggio prossimo e fra tre mesi, o chi è diventato papà per la seconda volta in meno di due anni. Tutti scatenati, in questa ridda estiva di unioni e passi significativi.

Io sono però più che altro turbato dalla vicenda Icardi, dall’attesa del calendario, dalla scelta degli abbinamenti per l’outfit per la prossima settimana, dalla bici, dal vivere il primo battesimo in Canada, dalla Lemonade e gli Slushies a 0.99 dollari in offerta da Harveys. Vabbè dai, senza nulla in mano sono riuscito a scrivere addirittura un mezzo post. Pensa te, Catto.

Il nostro amico Giancarlo

La fine di ogni vacanza porta sempre almeno un pizzico di nostalgia e quella appena terminata all’Argentario con Giancarlo e la sua famiglia non può uscire da questa categoria.

Oggi infatti il bungalow numero 49 del villaggio “Sol de la Playa” si è chiuso e la famiglia Proietti ha fatto ritorno a Roma, stesso discorso per me e Alfredo che con il nostro beniamino abbiamo condiviso altri momenti indimenticabili.

Giancarlo ci ha fatto compagnia e noi abbiamo sorriso con lui, con le sue avventure, le sue frasi, i suoi ragionamenti, il suo modo puro di essere il romano medio, e per medio non intendo assolutamente mediocre.

Giancarlo Proietti è l’Everyman capitolino, un personaggio qualunque ma emblematico di Roma, della nostra città. Cinquantina da poco superata, ha una moglie, Paola, e due figli: Claudia e Mirchetto.

Di lui sappiamo diverse cose, sicuramente le più importanti. Si porta dentro due cose ataviche, che ripete in continuazione: quello che faceva con il padre quando era giovane ed il fatto che sia di San Giovanni nonostante ora abiti sulla Tuscolana, all’altezza di Cinecittà, vicino al campo della Polisportiva Bettini, squadra nella quale ovviamente gioca il figlio.

Lavora come infermiere al reparto oftalmico del Sant’Andrea, mentre la moglie Paola fa la commessa in un piccolo negozio di abbigliamento su Via Tuscolana, dopo aver lavorato per anni all’INPDAP.

Claudia è la figlia maggiore, 19 anni, a giugno ha finito scuola, si frequenta con un ragazzo che si chiama Antonio, uno che non parla mai “E pare sempre incazzato” suo coetaneo, con origini meridionali ed un ciuffo di capelli colorato. Mirco invece ha 16 anni, fa l’istituto tecnico, pensa solo al calcio e alla XBox, e pare che ultimamente abbia iniziato a fumarsi qualche canna di troppo.

Hanno una casa a Lido dei Pini, eredità della famiglia di lei, due macchine, uno scooterone, ed una bicicletta, ma non il cane che “Me piacerebbe pure voglio dì, ma casa è già piccola, c’è poco spazio pe noi, figurati per un animale poraccio”.

È figlio di una Roma che non c’è più, un suo tratto distintivo è la voce un po’ “nasalina”, è disilluso e disincantato, ma sa come va il mondo. Sagace e arguto, ha la comicità innata del romano e la risposta sempre pronta.

Si lamenta spesso, ma sa vivere le cose in modo leggero anche se a volte somatizza un po’ troppo. Tifa ovviamente per la Roma, anche se ultimamente non segue più come prima, la sua preferita è sempre quella di Falcao, Di Bartolomei, Pruzzo e Brunetto Conti, anche se “Oh pure quella del Boemo mica era male eh…cioè te faceva divertì”.

Ha fatto il militare ad Ascoli Piceno, ha un rapporto semi conflittuale con il cognato, il fratello di Paola, uno che a detta sua se ne approfitta un po’ troppo, anche sulle piccole cose, cose economiche di poco conto.

Un suo marchio di fabbrica è che divaga, apre parentesi e si perde ripetutamente, cita personaggi a caso, eventi senza logica, confonde date e momenti. Conosce tutta Roma, e ha un aneddoto per ogni cosa. Una delle sue frasi storiche è “Che poi se sa, la porchetta vera è de pollo…”

Qualunque cosa faccia, in qualunque posto vada, già c’è stato con il padre e ovviamente tutto era più bello, un filo rosso della sua malinconia, forse semplice e naturale nostalgia della sua gioventù.

Battuta sempre a portata di mano, “Ma che voi che ti dica” a inizio frase quasi d’ordinanza, a volte sfocia nel ruolo del “Capisciotto” quello a cui non si può dire o insegnare nulla. Vorrebbe parlare di più con i suoi figli che però sono perennemente avvinghiati allo smartphone.

Ha ancora spunti unici e vintage come “Aho, è per Messico?” o “Vi Sallustio”, per non dire “Aho senti che frescazzo” e “Dentifrocio”.

Ligio al dovere, uomo del popolo, dalla parte dei più deboli, ha sempre votato a sinistra ma ultimamente “Non ce vado più a votà, tanto so’ tutti uguali dai. Aho, e poi fra cani non se mozzicano vojo dì…”, uomo di straordinaria saggezza urbana mista a conoscenza popolare, raramente si fa cogliere in contropiede e non solo a livello dialettico.

Veste in maniera talvolta discutibile, sfocia infatti in qualcosa di pacchiano o di un giovanile che non gli appartiene più, come le scarpe di Cesare Paciotti modello 4US un po’ lucide. È legato in modo quasi maniacale ad alcune cose tipo l’Arbre Magique verde al Pino in macchina e ad un marsupio molto Anni 90, o al costume della MAUI che ha rispolverato per la 19esima estate consecutiva anche all’Argentario “Aho, ma io ce sto comodo, che devo dì…”

Io e Alfredo lo abbiamo conosciuto una sera piovosa di fine maggio 2013 a Frascati, poco dopo che ero tornato dall’Irlanda “In quel localino in cui pe’ entrà devi fa’ la tessera tipo circolo, capito…”.

Dopo la Puglia dello scorso agosto, quando lo andammo a trovare un pomeriggio a Peschici, abbiamo passato con lui 10 giorni all’Argentario, sì 10 dieci giorni “Perché ‘na settimana poi passa troppo velocemente e non te la godi, già fra andata e ritorno perdi du giorni…” e come sempre anche in questa parentesi lo abbiamo ascoltato annuendo alla sua proverbiale franchezza e purezza d’animo, perché in fondo siamo tutti un po’ Giancarlo.

Buon ritorno a Roma, carissimo.

 

“Che poi uno sembra un coglione a coltivare un personaggio inesistente, uno scherzo a oltranza, ma la fantasia aiuta a sopravvivere. Io lo sento uno di noi. Questa è magia. Mista a riconglionimento, ma pur sempre magia”.