3 anni fa

Tre anni fa era il mio primo giorno di lavoro a Toronto, ma soprattutto iniziava realmente la mia nuova avventura canadese. Tre anni di lavoro nella stessa azienda non sono pochi quando ne hai 30, e non sono pochi considerando questa durata in un mercato lavorativo come quello nord-americano, fatto di continui spostamenti e challenge, e non sono pochi nemmeno se traslati nella realtà italiana per ragioni ben diverse.

Tre anni, ma a me, ovviamente, sembrano molti di più, indubbiamente per la quantità di cose fatte e imparate, così come per il numero di persone incontrate e situazioni vissute.

Ho imparato moltissimo, ma questo è quasi naturale in certi contesti e soprattutto dopo un po’ di tempo. Ho più che altro approfondito e sperimentato una quantità davvero notevole di idee.

Da qualche mese, grazie anche a quel 13 gennaio 2015, sono tornato a Roma, a fare il corrispondente. Era un po’ il mio pallino ed un obiettivo che vedevo lontano ma che ho sempre tenuto a mente fin dal giorno in cui sono partito.

Ho avuto finora la fortuna di far parte di una azienda veramente speciale, dove rispetto e collaborazione sono aspetti basilari e mai di contorno. Dove c’è un occhio di riguardo alla parte umana, a quanto sei capace sicuramente, ma in particolar modo a chi sei. Al modo in cui ti sai rapportare anche con gli altri.

Ho imparato molto e da diverse persone, con una costante però: come già capitato in passato, alla fine ho sempre imparato da chi non si è mai messo nel ruolo di colui che voleva insegnarmi qualcosa per forza.

Ho avuto la possibilità di fare qualche viaggio, di vedere e vivere davvero un mondo diverso. Se la crescita professionale è stata grande, quella umana ha superato qualunque altro elemento. Mi auguro davvero infatti che in questo 2018, nonostante la solitudine e l’irregolare vita del corrispondente avrò altri insegnamenti da apprendere.

Ho sempre avuto un rapporto piuttosto conflittuale con Toronto, a volte forse esagerato, anche perché non vedevo da un punto di vista ciò che mi stava dando sotto traccia, di certo, negli ultimi tempi quell’astio si è tramutato, e oggi, forse anche grazie alla lontananza, posso rivalutare e vedere in modo diverso alcune angolature.

Tanto mi è stato dato, abbastanza credo di aver restituito a chi mi paga ogni 15 giorni. Continuo a impegnarmi sempre più perché ho ricevuto in dono la possibilità di fare il mestiere che desideravo e non passa un giorno che non mi ricordi questo, perché nella mia testa non deve assolutamente passare il messaggio che a un punto sia normale, scontato o quasi dovuto.

Ho avuto molto e tante cose a volte non si possono nemmeno spiegare, ma di regali ne ho avuti abbastanza, come quello che è in arrivo, roba grossa, importante.

Ecco, quella sera del 12 gennaio 2015, la mia prima sera in Canada, davanti a un filetto di carne con fagiolini bolliti, a casa Garin, non avrei mai immaginato tanto.

Come è diventato il Natale

La verità è che Natale non interessa praticamente più a nessuno, e secondo me il motivo principale va rintracciato nello scarso desiderio delle persone di condividere e di stare quindi con qualcuno. Siamo – parlerò al plurale anche se non appartengo a certe categorie – vittime di un rincoglionimento che si sviluppa su due livelli: il primo è che ci siamo stancati delle feste comandate e degli impegni obbligati, proprio perché costretti a condividere del tempo con una compagnia spesso non “scelta”, e poi perché siamo assuefatti dal mondo virtuale, ciascuno con dosi diverse, ma tutti nel calderone.

I telefoni che escono dalle tasche, al pranzo di Natale, o alla Vigilia, dicono molto. C’è quasi una smania ormai nel tirare fuori il telefono che sembra irrefrenabile. E non basta una tavolata in un giorno di festa a fermare quel desiderio di illuminare il display, no, non c’è niente di più interessante che dare un’occhiatina a quel cellulare. Se questo è il punto di partenza, ossia isolarsi per guardare la propria vita virtuale via social, come si può star bene in giornate di festa e tradizionalmente di aggregazione? È impossibile.

A me il Natale è sempre piaciuto. Sono un natalista convinto della prima ora e ho meravigliosi ricordi del 24-25 dicembre, in compagnia e a casa mia. Memorie di pacchetti, regali, vacanze, del camino acceso e di tutte quelle cose che rendono questo momento dell’anno unico.

Pur crescendo, ho perennemente cercato di preservare questo spirito, ma la verità è che gli anni e il corso della vita hanno indubbiamente intaccato la mia visione del Natale.

Il punto è che la gente invecchia, i periodi sono diversi e le persone, in maniera quasi inesorabile, tendono ad allontanarsi. È come se i rapporti fossero destinati, in modo irreversibile, ad allentarsi.

Gli ultimi miei Natali vivono di questa descrizione appena fornita.

Come detto in precedenza, gli ultimi tre sono stati per me troppo caratterizzati dal fattore Canada e tornare a casa è sempre stato più quello che la festa di Natale stessa, la quale è diventata solo ed esclusivamente la scusa per sbarcare a Roma, perdendo in compenso però gran parte della sua essenza.

Quest’anno dovrebbe essere diverso, ma la realtà è che mi rendo conto che pur stando qui è proprio il contesto ad essere differente, la voglia, o meglio la non-voglia della gente di condividere. Sembra ormai che passare 5-6 ore insieme, intorno ad un tavolo, mangiando o giocando, sia un peso insopportabile. Anche solo per due giorni l’anno, è una condanna micidiale.

A me dispiace molto constatare tutto questo, anche perché credo di pagarne in fondo le conseguenze. Sarò sempre un oltranzista del Natale, ma ogni anno che passa, in verità, lo sono sempre un po’ di meno.

Il “Classicone” del 16 dicembre

“Il 16 dicembre prossimo starò a Roma”.

 

Scrivevo questo esattamente un anno fa, nel classico post del 16 dicembre, quello che negli anni è diventato un passaggio quasi obbligatorio dal lontano 2009 ormai, giorno della mia laurea triennale.

Avevo previsto qualcosa di preciso, ed è accaduto. Poteva essere una frase non del tutto scontata ma io ero ben consapevole di come alcune dinamiche si sarebbero evolute e onestamente non mi sorprende questo esito.

È stato un anno lungo e intenso. Due aggettivi che ripeto e uso ancora per la terza volta, perché indubbiamente calzano a questo 2017 proprio come ai due anni precedenti, legati da un filo rosso chiamato Canada.

Un anno che volge al termine e lo farà senza transvolate oceaniche, ed è un bene, ovvio, con Natale a fare da sfondo e quella sensazione che gli ultimi anni mi hanno fatto perdere il piacere e l’attesa delle feste natalizie, vissute recentemente sempre e solo con tanta fretta, stanchezza e poco piacere.

Doveva essere un anno “indirizzante”, e così è stato, l’aver preso quella previsione conferma il tutto. Un 2017 con un doppio trasloco, prima quello di rientro e poi quello nella nuova abitazione romana. Un anno sicuramente pieno e ricco, e al tempo stesso bello. Ci sono state soddisfazioni lavorative, un viaggio finalmente in Sud America, e un paio di preziosi insegnamenti. Penso di aver strizzato al massimo questo anno che volge al termine, era quasi impossibile tirare fuori altro e qualcosa di migliore.

Ho capito che tornare è stata una valida idea lavorativa, pessima sotto ogni altro aspetto. Credo di aver idealizzato in qualche modo, e anche in maniera giustificata, il nuovo sbarco in Italia, ma i 5 mesi ormai passati qui mi sono serviti molto più di quanto pensassi a livello personale.

È stato l’anno dei 30, un numero e niente più. Non capivo chi voleva mettermi l’ansia della decina che cambiava e mi sfugge ancora chi si incastra su questo passaggio anagrafico. Evidentemente è gente che ha molto tempo libero e tante fesserie che svolazzano nella testa.

Per un 2017 che si chiude, c’è un 2018 in arrivo. Solo a dirlo suona come qualcosa di grande. Un numero importante, e a me gli anni pari sono sempre stati più simpatici, hanno un qualcosa di geometrico che mi piace.

Devo chiudere però come di consueto con una previsione e confermo quella dello scorso anno. Sarò a Roma, ma ho la sensazione che al tempo stesso ci saranno manovre per qualche cambio e ulteriore trasloco.

Fra 365 giorni, come la tradizione impone, ve lo dirò.

Due mesi dopo

Due mesi forse sono abbastanza per tracciare un primo bilancio e parlare di questo ritorno e di quella partenza. Era giusto aspettare un po’, raccogliere le idee dopo aver elaborato delle sensazioni ed aver rivisto persone e luoghi. Le vacanze sono alle spalle, il calendario corre verso il 21 settembre e quindi la fine ufficiale dell’estate, il lavoro ha ripreso a pieno regime e anche il programma settimanale è ripartito. La Colombia, il mare, Montalcino, le visite dei parenti e i matrimoni sono già in archivio, così come un normale periodo di adattamento che mi ha lasciato delle certezze.

Sapevo che tornare a Roma non sarebbe stato semplice, in primis perché sarei rientrato in una certa vita, in una vecchia vita, in antichi schemi e dinamiche rimaste lì. Sapevo che mi sarei ritrovato disorientato e temevo che una sensazione in particolare potesse inizialmente abbagliarmi per poi non svanire più.

È strano rendersi conto di come i propri occhi siano cambiati, il modo di vedere le cose, di viverle, di guardarsi attraverso gli altri e capire che molto è cambiato, forse più del previsto. Fa uno strano effetto tornare a casa e non sentirsi più a casa come un tempo, come prima di partire, quando il tuo posto era appunto Casa.

Sono uscito pochissimo, forse il minimo indispensabile, ci sono persone che ancora non ho rivisto ed in generale non ho tutta questa grande voglia.

L’aspetto più complicato è che molte cose non si possono dire. Non si può parlare liberamente a volte perché c’è sempre il rischio di ferire qualcuno, e ancor di più il pericolo che qualcuno possa darti del superbo o di quello cambiato in peggio.

Vedo però persone chiuse nel cortiletto, vittime dei loro modi di fare a mio avviso ottusi, persone che parlano con orizzonti che finiscono un metro più avanti. Gente che si lamenta, nessuno che prova a cambiare le proprie sorti. Critiche, e mai idee. Chiamiamolo “provincialismo”, una cosa del genere. Vedo queste persone e avverto un disagio io.

Difficile spiegare alcuni concetti e far passare delle ragioni, la verità è che la gente o ti dice che sei cambiato con accezione negativa, oppure forza nel continuarti a vedere in un modo. Quella figura cristallizzata fa comodo a chi non cambia o non l’ha fatto. Notare i tanti cambiamenti di qualcuno, che spesso sono miglioramenti o una crescita, è un colpo nella mente dell’altro, perché è un confronto diretto, dal quale non si può scappare e che ti fa pensare: lui è cambiato e io no.

Fa comodo pensarmi in un modo, toglie a qualcuno il rischio di confrontarsi e di capire magari di aver perso qualche treno o di non essersi mai messo in gioco.

Ritornare e mettersi a cercare casa è un’altra rincorsa, con le mille difficoltà che implica una tale ricerca. Rifare tutto a distanza di due anni, è un déjàvu, un montare di nuovo un puzzle.

La perenne instabilità di questi anni, dettata da viaggi, valigie, case, traslochi, un ciclo che sembra non finire mai, al massimo avere una pausa. C’è forse anche una stanchezza di questo tipo presumo, nel rimettersi in moto in una certa maniera.

Ho provato a fare alcune metafore ultimamente, la più azzeccata a mio avviso è che sono una scatola di cartone che non entra più bene in un vecchio cassetto. Si può sgualcire e piegare, alla fine entra pure, ma ovviamente non nel modo appropriato.

Qui, la mia città, la mia vita a queste latitudini, è un recipiente nel quale non entro più bene ed è in fondo la più normale delle conseguenze di tutto quello che c’è stato e ho vissuto negli ultimi anni.

Sono cambiato io e non è cambiato nulla intorno a me. Ne il posto, ne le persone, e nemmeno la maleducazione, l’atteggiamento, i modi di fare, di vivere e vedere le cose. Provare una profonda fase di rigetto presumo sia abbastanza naturale.

Dire tutto ciò espone a critiche, ovvio. Alla gente, a chi non si è mai mosso, certe considerazioni non si possono fare perché si rischia di non essere capiti e soprattutto etichettati come esterofili o persone che vogliono mettersi su un piano diverso. Sbagliato, completamente errato. È il diverso punto di vista di chi ha semplicemente vissuto e sperimentato altro e quindi ha mixato stili di vita, colori e architetture.

Ho scelto di tornare soprattutto per lavoro. L’ho detto e lo ripeto, sapevo che era la scelta sensata e come ho sempre fatto ho anteposto il giusto a ciò che era facile o mi faceva più comodo.

Roma, oggi, è il posto in cui devo stare per tanti motivi, un passaggio obbligatorio, di crescita e formazione ulteriore. Una esperienza. Così ho sempre visto il ritorno, una tappa, una parentesi a casa. In questi anni ho capito che lavoro desidero fare nella vita, più avanti mi piacerebbe capire dove voglio vivere, forse in nessuno dei posti in cui sono già stato.

E proprio da qui nasce una delle convinzioni maturate in questi due mesi, una amara riflessione che ti conduce alla condanna di non sentirti più casa: non poteva essere Toronto per ovvie ragioni, ma non lo è nemmeno più di tanto Roma. Strano, ma vero, con il rischio che un giorno diventeremo un po’ tutti apolidi, perché un conto sono i sentimenti e l’appartenenza, aspetti nobili e romantici, diversa però è la vita nel concreto.

Due mesi alle spalle e molti altri davanti: sfruttare quanto di buono sa offrire questo mondo qua e lavorare sodo, tanto il guado è stato attraversato e indietro, dopo anni così, non si torna più.

Ripenso a due anni fa, al viaggio a Reggio Emilia e al concerto di Ligabue, quando ero consapevole che sarebbe stata l’ultima recita di un qualcosa: la fine di una fase, l’inizio di altro.

Non mi sbagliavo.