Pensieri di neve

Più di tutto, in fondo, gli pesava quella strana sensazione su cui aveva iniziato a ragionare da alcuni giorni, quel sentirsi espatriato sì, ma senza città, ma non con quello spirito avventuroso e affascinante del cittadino di mondo, più che altro con quel peso di un legame quasi destinato a sciogliersi.

Non era casa sua, ma in qualche modo non lo era nemmeno più quella di un tempo, chissà perché, la vita, i percorsi strani, sensazioni attorcigliate fra loro e quasi impossibili da sistemare in maniera ordinata.

Era pomeriggio ormai, un pomeriggio di domenica, simile a quello precedente e molto probabilmente uguale a quello successivo, la neve picchiava a terra, non erano fiocchi ma piccole scaglie di acqua che se arrivavano controvento davano fastidio, soprattutto vicino agli occhi.

I grattacieli della città intanto, sembravano giganti senza testa, gli ultimi piani infatti erano avvolti da fumo e nebbia, le luci degli uffici, malgrado tutto, non riuscivano a penetrare attraverso le finestre quel muro di vapore.

Camminando gli cadde l’auricolare sinistro, ma la pigrizia e il timore di tirare fuori la mano dalla tasca anche per un secondo soltanto lasciarono il filo ciondolare, in fondo sentiva la musica ma non l’ascoltava del tutto, era lì soltanto a fare un po’ di base, ad accompagnare dei pensieri che si rincorrevano con il fiatone, senza respiro come se dovessero venire fuori tutti insieme contemporaneamente.

Camminando per la città, in attesa che la mano del semaforo diventasse bianca dandogli il permesso per attraversare l’incrocio, gli venne in mente che un po’, in uno strano modo, particolarmente egoistico, la detestava.

Lo aveva scritto in un messaggio mandato poche ore prima, alcune righe in cui provava a spiegare il suo concetto, discutibile, astratto, ma non completamente da rigettare. D’altra parte, si diceva, se stava lì, che camminava guardando le decine di persone che affollavano i vari Starbuck’s del centro, era anche per colpa sua, lei aveva delle responsabilità per quello.

Gli tornò in mente che quel giorno pioveva, non nevicava certo, lo aveva fatto già a febbraio, otto mesi prima, ma quel clima gli ricordò tante cose. La percezione è che quel fastidio, quel malumore e spesso malessere, fossero ancora delle rate da pagare, dei conti, apparentemente interminabili, da saldare. Al dolore di un tempo si era quasi sostituito il fastidio di essere lì, in un posto inevitabilmente non scelto, ne tanto meno prescelto, per colpa di altri. Non era colpa di qualcuno in specifico, la vita, in fondo, si ripeteva, fa tutto da sé alla fine, ma c’era comunque la firma e l’autografo evidente di qualcuno su come si era dipanato tutto negli ultimi anni.

Scelte esterne avevano influenzato le sue, mosse di altri avevano spostato le pedine sulla dama e chissà quanto c’era di suo in tutto quello. Chissà se era un bene o un male. Chissà, soprattutto, se certe scelte gli avevano davvero spalancato delle porte, come in molti sostenevano, o avevano dilatato un ferita in modo differente, spostandola in un’altra zona ma sempre con un chiaro riferimento alla sua provenienza. Strano pensare che una assenza possa avere peso, difficile credere che certe decisioni possano dettare il ritmo delle vicende per tanto tempo, per una quantità indefinita di tempo, eppure, ripensando a tutto quello si accorse che era così.

Se era lì, era anche per una telefonata ricevuta una mattina di ritorno dalla palestra, una domenica per l’appunto, quando la pasta era in tavola e Bologna -Inter si sarebbe giocata nonostante un diluvio incredibile. E sì, perché come già detto, quel giorno pioveva, pioveva ovunque, e non solo in Italia o per strada, diluviava dappertutto, anche in luoghi inesplorati dell’anima, in mondi figurati.

Mentalmente sfogliò un po’ di pagine andate, gli tornò in mente il giovedì precedente, il vino bianco, il cavatappi, le parole, la metro e quel senso un po’ di incompiuto, di vorrei ma non si può, di concetti chiari e frasi ribadite. Quel senso di estraneità e di solitudine che viveva in quei momenti, quando avrebbe voluto alzare il telefono per chiamare qualcuno ma per il fuso orario e per un atipico senso di pudore personale non lo fece. Un po’ si vergognava ad ammettere dei limiti, di aver perso del tempo o a raccontare di quello che non andava, in fondo si era anche un po’ stancato. Si annoiava nel sentirsi, nel riascoltare certi discorsi.

La città intanto si copriva di buio, le luci si facevano più forti, la neve lungo le strade stava aumentando e i passi lasciavano orme precise.

Freddo sì, ma non troppo da non poter uscire, non troppo da tenere tutti i pensieri chiusi in meno di 30 metri quadrati. Anche il week-end iniziava la sua rapida discesa verso il traguardo e così ripensò al bagno della domenica, ai secondi tempi delle partite di basket ascoltate alla radio e al profumo della cena che passava in qualche modo, sotto la porta o fra le fessure. Forse quella era casa sua, quel ricordo, quella sensazione, quella normalità fatta di consuetudine per cui avrebbe pagato decine di dollari pur di riassaporarla un attimo.

La strada verso casa però era ormai finita, la neve non picchiava più, si adagiava soffice a terra, come se non volesse disturbare, come se si fosse stancata anche lei di cadere. 

Stiamo lavorando per voi

Le ultime dallo Scannatoio dicono che ci siamo quasi. Ci siamo nel senso che praticamente tutte le cose necessarie sono stati trovate, comprate e messe al loro posto.

Oggi sono partito per cercare una tavola di legno da mettere sotto il materasso, e sono finito a comprare a 15 dollari, in offerta, un materassino gonfiabile da campeggio che mi farà da supporto e rete al materasso vero e proprio. In tutto questo però, nel frattempo, o meglio, nel pomeriggio, il letto si poggiava su sei supporti, sei ceste di plastica bianche ribaltate e prese da Dollarama che avevano lo scopo di essere dei sostegni e di tenere finalmente il materasso sopra il livello della moquette.

In tutto questo, appunto, il colpo finale è stata la soluzione da campeggio, per convenienza, per caso, ma anche con una prospettiva futura. Se qualcuno vorrà passare qui allo Scannatoio non dormirà per terra visto che nella confezione c’erano due materassini. Il paradosso è che ho pagato più la pompa, quella a piede, che gli oggetti da gonfiare. Stranezze canadesi.

Per il resto, manca la tenda ma l’ho localizzata e potrei andarla a prendere domani anziché tornare da Honest Ed’s. Da Canadian Tire oggi ero passato per comprare una cassettiera di plastica che da 11 dollari è tornata a 29, mentre il tavolo che ho comprato martedì oggi è tornato al doppio. Uno dovrebbe andare lì tutti i giorni per fare degli affari, oppure essere fortunato e capitare nel momento giusto, quando stai cercando l’oggetto in svendita.

Sono stato fortunato una volta, molto meno in tre altre occasioni.

Tuttavia mancano: tenda, cassettiera e copriletto con tre cuscinoni annessi per trasformare il letto stesso anche in un divano, quanto meno in certe occasioni. Vanno riempite le pareti e a tal proposito ieri ho acquistato il primo oggetto d’arredamento. Guardavo il muro bianco affianco al letto e cercavo di immaginarci qualcosa, dopo pochi secondi ho pensato “Bandiera”, dopo un minuto ero su Ebay che ne cercavo una italiana con lo stemma dei Savoia, non so perché, forse per dare un tocco più storico e tradizionalista al tutto. Poco dopo ho virato sul tricolore con il simbolo in mezzo delle repubbliche marinare ma non soddisfatto delle soluzioni proposte ho digitato sulla barra “Bandiera inter storica” e così mi sono accaparrato a 8.40 Euro una bandiera celebrativa dello scudetto del 1989 con le seguenti dimensioni 140×95. Perfetta per occupare lo spazio, identificativa il giusto, e strumento per marcare chiaramente il territorio, per cui, il primo oggetto d’arredamento o comunque non essenziale per casa, è una bandiera vintage dell’Inter che innalzerò a gennaio quando sarò di ritorno con una cerimonia in grande stile.

Devo mettermi al lavoro su questa sottospecie di veranda, o balcone chiuso, ma ho altre priorità, ho altri dieci giorni per completare l’opera di assestamento, poi verrà tutto il resto, i vezzi e le cazzate. C’è tempo, anche perché l’ho presa sul personale ormai questa cosa di casa, su quel livello in cui poi non sono in grado di non dare il 100%  e punto alla perfezione.

Un po’ di casa a Toronto

Non so bene perché in realtà, ma ho sentito un po’ il magone mentre giravo su Spadina Ave e imboccavo Dundas Street per tornare a casa. Aver salutato Giorgia per l’ultima volta, prima della sua partenza, mi ha generato diverse sensazioni, molteplici percezioni, ma soprattutto ha toccato troppi punti ancora scoperti tutti insieme.

Sono state belle giornate, intense, piacevoli, ore in cui si è messo un punto a una serie di cose e ricucito il resto. E poi quella sensazione di sentirmi finalmente a casa, almeno per un po’ anche in posto così lontano e diverso. Tutto questo è successo e io lo immaginavo, lo speravo anche, certo, ma avevo una netta convinzione che sarebbe andata in questo modo e i fatti probabilmente hanno superato addirittura le ottimistiche aspettative.

Quel saluto appunto che ha messo il punto finale a questa visita mi ha ricordato esattamente quanto tutto quello che era successo prima aveva gravato su di me. Soprattutto il modo. Ecco, quello rimane un motivo che mi ha portato a pensare a un qualcosa di analogo e di precedente.

Non si fanno mai i paragoni su certe cose, so soltanto che i pesi che continuo a portarmi dietro sono anche esattamente dettati da come alcune vicende si sono sviluppate e di fondo concluse.

Vale per lei, ma non solo. Chiaro.

Pensavo quindi a questo ritorno canadese, al contraccolpo, a quest’anno di fatto, alle tante cose capitate e al peso di sentirmi comunque sempre un estraneo, motivo per cui venerdì scorso ad un punto ho lasciato un locale dove ero andato con dei miei colleghi per andare proprio da Giorgia, per prendere una boccata di casa.

Continuerà ad essere sempre un problema, magari meno grande, potenzialmente si può ridurre ma sarà comunque una presenza costante.

So che in fondo la fatica fatta finora mi inizia a pesare, più dal punto di vista mentale che fisico, ma è stato un anno troppo inusuale per prenderlo come parametro.

A me è un anno che non è piaciuto molto fin qui, sembrerà strano per gli osservatori esterni ma questo è, capisco chi non comprende, semplicemente perché non avendo vissuto in prima persona tutto ciò non segue magari il discorso in modo esatto, però è andata così e io so benissimo cosa intendo. Sono consapevole che è stato un anno veramente difficile, tanto difficile, con molti ostacoli.

E per quanto sia abituato a stare da solo, stare da solo in questa maniera è davvero un’altra storia, e questa solitudine ha avuto una fiammata solo grazie a un volto del mio passato.

 

Tweet del giorno

Alla fine della corsa

Chissà i rimpianti

Per quando si era felici

Senza saperlo

Mentre aspettavamo il tempo

Quando il tempo aspettava noi.

La mia terza casa

Per me casa è quel posto in cui arrivo e posso mettermi le ciabatte. Questo succede in due posti soltanto: a casa dei miei genitori e da mia nonna. Da venerdì sera, però, in questa particolare classifica devo inserire anche il 15 di Rosewell Avenue, l’abitazione in cui ho trascorso i miei primi 4 mesi e mezzo in Canada. Sono tornato per prendermi le ultime cose l’altra sera, ma anche per trascorrere una cena in compagnia della mia famiglia francese e quando sono entrato in quella che era la mia camera, mi sono tolto le scarpe e mi sono infilato subito le mie ciabatte lasciate appositamente lì. Un gesto banale ma significativo, perché nel farlo mi sono sentito veramente a casa, così come quando mi aggiravo per la cucina e preparavo per tutti la pasta.

È stata una bella serata, ovviamente, e mi ha fatto uno strano effetto andarmene stavolta, perché sapevo che sarebbe stata l’ultima e mentre svoltavo l’angolo e dall’Ipod uscivano le note di Albachiara mi sono immalinconito terribilmente.

Percorrendo quella strada mi è tornato in mente quando la calpestavo con gli scarponi e la neve, o quando il verde ha iniziato a impossessarsi dei marciapiedi con fiori e colori, e ovviamente, come è successo per mesi, sono passato davanti a quella scritta fatta sul cemento che ha un nome scolpito in terra. Un nome, che inevitabilmente non può essere casuale, e questo non perché sono io che ci faccio caso, ma per 4 mesi e mezzo ho letto sempre un nome fisso sul marciapiede prima dell’incrocio: Emily.

Mi sono fermato allo stand degli hot-dog e mi sono messo a parlare con il mio amico polacco e dopo aver azzannato il panino mi sono infilato dentro lo Yonge-Eglinton Centre per tornare in centro a casa, in quella che però per me non potrà mai essere la mia casa.

Anche perché, se per assurdo dovessi rimanere qui 10 anni, la mia abitazione sarà sempre e solo quella della famiglia Garin a Eglinton.

 

Sabato pomeriggio invece sono andato a Little Italy, lungo College Street per la manifestazione Taste of Italy. Un fiume di gente per un qualcosa che era tutto tranne che italiano se tralasciamo due stand della Barilla. Un miscuglio di locali, bancarelle e punti ristoro. Un bel clima, tanta gente, un via vai che intorno alle 17 ha raggiunto il suo apice.

Camminando per College Street riflettevo sui tanti italiani che sono qui, e con molti dei quali ho avuto modo di parlare, pensavo a loro e a questo forte senso di appartenenza che hanno con le loro radici dopo mezzo secolo. Un qualcosa su cui non posso esprimermi, a differenza del fatto che molti di questi sono persone che mentre il paese usciva dalla guerra e stava nella merda se ne sono andati, si sono imbarcati e tanti saluti al all’Italia per sempre. Non tutti, certo, ma molti hanno fatto così, mentre i miei nonni, come quelli di tanti miei coetanei si rimboccavano le mani e ricostruivano quotidianamente un’Italia a pezzi e distrutta della guerra.

Per questi ho il massimo rispetto, la totale stima, sono loro l’Italia, al di là dell’età, per quelli che se ne sono andati, ed erano liberissimi di farlo, ci mancherebbe, onestamente ne ho un pochino meno.