La mia estate – “Vedi Catto quanto è facile?”

Ci sono un altro paio di cose che devono essere menzionate per chiudere il discorso relativo a luglio. Non è solo il mese delle figure citate nel post precedente perché assume una particolare centralità anche grazie ad un altro paio di fatti. Il primo, apparentemente superficiale, è invece molto importante.

Sono sempre stato un grande camminatore, uno di quelli in grado di coprire distanze oggettivamente molto grandi anche in ambito cittadino. Passeggiare, anche da solo, mi è sempre piaciuto, penso di essere un buon compagno di viaggio pure per questa ragione: cammino, vado, non mi lamento e se posso a volte evito anche di prendere i mezzi, probabilmente perché sono abituato a pensare che non funzionino mai troppo bene.

Anche a Toronto, soprattutto da quando vivo in centro, mi muovo solo a piedi e la cosa mi piace tantissimo. Eppure, dopo una passeggiata che si rivela un po’ troppo lunga, ossia 4,8 km per raggiungere il “Ragazzo d Versailles” in spiaggia, decido di comprarmi la bicicletta. L’idea mi aveva accarezzato diverse volte grazie alla bella stagione e alle tante persone che qui si muovono pedalando, ma alla fine avevo sempre lasciato stare. La scarpinata di metà luglio però mi convince definitivamente che una bici, anche la più economica, potrebbe risolvermi qualche problema e facilitarmi un po’ di cose.

Accantono l’idea dell’usato e alla fine al classico mega-store con 112 dollari, tasse incluse, mi porto a casa una bella mountain bike che pecca soltanto per i suoi colori, ossia un po’ troppo rosso su una base praticamente tutta nera.

L’acquisto mi esalta oltremodo e mi riporta indietro negli anni, all’infanzia, e ai giri in bici per il quartiere. Inizio a perlustrare le vie con la ciclabile, ma soprattutto volo verso il lago con una facilità impressionante, stesso discorso per il Crocodile il venerdì o per tutti gli altri impegni, escluso il lavoro.

La spesa di fatto la ammortizzo subito, non prendo i mezzi nemmeno per sbaglio, ma soprattutto risparmio tempo, tanto tempo, e sono ovunque nel giro di 15-20 minuti.

Con la mia spalla iniziamo a dominare l’asfalto con le nostre due ruote, io torno invece a ingaggiare duelli in mezzo alla strada portando la bici con la stessa arroganza del classico conducente di un motorino nel traffico di Roma.

Sbraito, fischio, passo in mezzo alle macchine e mi piazzo sempre davanti a tutti in attesa del verde al semaforo. Mi sento a mio agio e intanto riscopro il piacere e la liberta della bicicletta anche grazie alle tante ciclabili che si snodano per tutto il centro, aspetto affiancato anche da una cultura stradale diversa e una particolare attenzione degli automobilisti verso il ciclista di turno.

Mentre questo acquisto fa decollare definitivamente l’estate come mai avrei pensato, riesco finalmente ad apprendere l’ultimo dettaglio che mi mancava nella ricostruzione della vicenda relativa alla mia “Compagna di banco” e alla sua love story.

Tornando da una partita, un martedì pomeriggio di luglio, proprio come avevamo fatto quella volta a fine aprile, quella famosa volta, le chiedo come era nata questa sua relazione. La pura realtà è che voglio togliermi questa curiosità e glielo chiedo.

La risposta è bizzarra, ma di fondo è anche l’unica plausibile nella stranezza del fatto. Le ricordo l’episodio di aprile e di come avevamo incontrato questo ragazzo, ma soprattutto il loro modo di salutarsi piuttosto freddo e non così sciolto. Lei allora mi confessa che il giorno dopo a quell’incontro lui le aveva scritto e da lì in poi avevano iniziato a parlare, fino al punto di vedersi per la prima volta per conoscendosi da un paio di anni.

Tutto inizia così e si sviluppa rapidamente con grande entusiasmo e reciproca attrazione. Capisco eventualmente la sua di lui verso lei, meno quella della mia “Compagna di banco” nei confronti del personaggio, ma questo è un classico.

Ci salutiamo, e mentre faccio il pezzo di strada mancante per andare a casa penso due cose. La prima è la seguente: “Vedi Catto quanto è facile? Cioè, due si conoscono, a volte sono usciti insieme in un gruppo più allargato, poi si incrociano per caso un martedì pomeriggio in mezzo alla strada, uno comincia a scriversi e poi è tutta una normale conseguenza. Una cosa semplicissima”.

La seconda invece è diversa e mi riporta al concetto di sliding door. Sì, perché se è vero che il 7 aprile io la invito, lei dice di no, entro in un baratro emotivo e tutto sta storia che sto scrivendo inizia lì, allo stesso tempo sono convinto che a un punto, poco dopo, qualcosa stava cambiando. Credo questo e ne sono abbastanza convinto ripensando anche a quella conversazione avvenuta pochi minuti del suo incontro all’incrocio.

Per un po’ mi domando cosa sarebbe potuto succedere se fossimo passati per la strada normale anziché deviare il percorso perché lei doveva comprarsi qualcosa per cena, un qualcosa che poi nemmeno trovò. Non lo so, forse niente, forse sì.

Oggi magari starei qui a scrivere una cosa diversa, o magari nulla, eppure io so bene che è meglio così, nel senso che lei un regalo enorme me lo ha già fatto, rifiutando un cazzo di bicchiere di vino e nemmeno lo sa.

Forse non lo saprà mai, io invece l’ho scoperto settimana dopo settimana nel corso dell’estate e ancora oggi sono pienamente consapevole che la storia ha preso la piega migliore anche se ad aprile, naturalmente, non ero dello stesso avviso.

Penso più o meno tutto questo mentre sono ormai a casa in attesa dell’ascensore e mi viene in mente una poesia di Rainer Maria Rilke. Precisamente questa qui…

 

 

Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore
e cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.

La mia estate – “Dentro o fuori. Rapidi”

Se dovessi sintetizzare il mese di luglio penso che potei usare 3 nomi ed un concetto che consiste in un primo cambio abbastanza epocale per me, un modo di fare sviluppato in tempi anche piuttosto rapidi e che ha dato un’altra dimensione alla mia estate.

Prima di tutto questo però, finisce l’Europeo e mi ritrovo nella strana situazione di dover decidere se voglio veder l’atto conclusivo con i francesi o con un portoghese. Opto per il mio amico di Viseu anche perché poi so che non sarei felice di ritrovarmi nei festeggiamenti transalpini.

La mia scelta però non mi agevola, perché la “Ragazza di Richemont” mi chiede di raggiungerla in un bar del centro per vedere la finale insieme. Ho già dato la mia parola, ed in più sono stato invitato a casa a pranzo per la partita da due persone alle quali sono particolarmente legato, per cui devo dirle di no, ma non mi dispiace, aggiungo anche che mi unirò a lei a fine gara, verosimilmente per i festeggiamenti.

Il calcio è magnifico anche perché regala storie come questa, il Portogallo infatti fa l’impresa, cancella la delusione del 2004 e vince un titolo ampiamente immeritato. Tutto questo inevitabilmente non fa il mio gioco e so che la persona che andrò ad incontrare non sarà proprio ben predisposta ma è un altro segno evidente di come debbano andare le cose.

Insieme a lei e c’è anche una sua amica, passiamo un’ora in un sport-bar del centro e poi ci dirigiamo verso Union Station dove lei deve prendere il treno per tornare a Burglinton, quello che avrei dovuto fare io alcune settimane prima. Mentre siamo su una panchina in sala d’attesa mi dice che nel giro di due settimana verrà a trovarla la cugina, o meglio the Goddaughter, una ragazzina di 15 anni che passerà da lei tre settimane e sarà in Canada fino a metà agosto. Capisco in un attimo che è il terzo indizio che sbarra la strada, perché un impedimento del genere complica veramente tutto. Prende il treno, ci salutiamo e so bene, mentre rincaso, che la situazione è compromessa ormai al 99%.  “Il ferro va battuto finché è caldo” dico al “Ragazzo di Versailles”, pur essendo consapevole che invece è iniziata una fase di raffreddamento sulla quale sarà difficile intervenire. Nel frattempo però, nelle settimane di assenza della mia spalla, ho continuato a frequentare il Crocodile e lì, per la prima volta si è palesata nel gruppo una nuova ragazza mai vista in precedenza. Scoprirò più avanti che nell’unica sua presenza al venerdì, io ero a Roma. È bella, anzi, molto bella, un gradino sopra tutte le altre che vediamo ripetutamente. Mi annoto il nome mentalmente e pochi giorni dopo al rientrante “Ragazzo di Versailles” chiedo informazioni a tal proposito. Diventa subito “Sonia Ibrahimovic”, giocando sull’origine del suo cognome slaveggiante anche se è di Lille e nei Balcani non ci ha mai messo piede.

Sembra essere in rotta di collisione con il ragazzo, in realtà poi saprò che si è appena lasciata, una concomitanza apparentemente utile. Inizia ad essere più presente al bar e questo ci dà modo di parlare un po’ di più. Diventa un motivo di interesse per quanto mi riguarda, ma capisco dopo un paio di volte che qualcosa non quadra. Ancora oggi infatti credo di essere bravissimo nella lettura di alcune situazioni, nel percepire in anticipo o rapidamente alcune dinamiche, venerdì scorso è stato un esempio lampante di questa mia capacità.

Il problema, e da anni me lo imputa il “Ragazzo di Hong Kong”, è che non ho lo stesso spunto nel captare le situazioni positive. È un limite, lo so, ma intanto mi tengo l’abilità che ho e gli ho promesso che prima o poi svilupperò anche il restante 50%.

Tuttavia, al mio referente asiatico, un sabato sera mentre sto per andare a una festa nei pressi di Pape Station gli dico che ho intenzione di accelerare la manovra con Sonia Ibrahimovic, garantendogli un “dentro o fuori rapido”, ma qui devo aprire una parentesi.

Fossi stato un giovane inglese di fine Ottocento sicuramente avrei fatto parte della Società Fabiana. Ora non tutti vi sarete laureati due volte in Storia della Gran Bretagna e quindi questa frase la devo spiegare, semplicemente perché custodisce una dimensione mia personale importante.

Wikipedia che sa più cose di tutti noi messi insieme, la definisce così:

“Il Fabianesimo (detto anche Fabianismo), è un movimento politico e sociale britannico di ispirazione socialdemocratica, nato alla fine del XIX secolo e facente capo alla Phabian Society, associazione che fu istituita a Londra nel 1884 e che si proponeva come scopo istituzionale l’elevazione delle classi lavoratrici, per renderle idonee ad assumere il controllo dei mezzi di produzione. Prese tale nome in quanto si avvalse sempre di una tattica gradualistica e temporeggiatrice che ricordava, sotto alcuni aspetti, la politica militare di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, che nella lotta contro Annibale e i suoi cartaginesi si avvalse di una strategia attendista di lento logoramento, che permetterà a Scipione l’Africano di battere il nemico nella battaglia decisiva, nonostante le molte sconfitte subite”.

Ecco, io non sono certo Quinto Fabio Massimo, ma ho sempre avuto questo enorme difetto di temporeggiare, aspettare, tergiversare, attendere, guardare, capire, razionalizzare, riflettere, analizzare, pensare, senza poi essere un vincitore come lui. L’aspetto inspiegabile è che questa attitudine l’ho sempre avuta solo ed esclusivamente in un ambito, quello relazionale, visto che in tutto il resto sono decisionista, intraprendente e non aspetto granché.

Questo modo di essere in verità è sempre stato un limite, un problema enorme. In primis per il tempo perso concretamente, e poi perché quando si attende e si aspetta a lungo, si idealizza, si creano pensieri e sovrastrutture sbagliate, ci si immerge in gineprai del tutto privi di senso e di aiuto. Il concetto del “dentro – fuori” in tempi rapidi diventa una sorta di conquista di assoluto valore, un cambio di atteggiamento, un passo che mi accingo a fare nuovamente e stavolta ancora con maggior enfasi del caso della “Ragazza di Richemont”, con “Sonia Ibrahimovic”.

Prima di questo però, venerdì 22 luglio, irrompe uno dei personaggi che si rivelerà importante soprattutto successivamente. Quando la serata al bar è ormai decollata, spunta la “Dama Nera”, amica di diverse persone lì presenti ma che io non ho mai visto prima. Ho le spalle al muro sotto al televisore che trasmette il baseball e lei viene da me. Ci presentiamo, quando esplicito la mia provenienza “Rome, Italy” ottengo come sempre una felice reazione e lei mi comincia a raccontare la sua lontana origine legata al mio paese.

La “Dama Nera” ci sa fare. Questo è quello che penso mentre mi parla di Carbonara ed Eros Ramazzotti. Ha un passo diverso dalle altre, sia da quelle che la circondano che da quelle viste passare precedentemente sul palcoscenico. Ha un fascino diverso, un modo che ammalia e si percepisce che lo sa bene, ne è pienamente consapevole. I 31 anni che sta per compiere le conferiscono un’aria e uno charme difficile da spiegare. Mentre vado al bagno un attimo, a voce alta continuo a ripetermi: “Eh questa se schiera, eh come se schiera…” poco dopo infatti, da donna consumata, inizia a giocare, e a provocarmi parlandomi di “Sonia Ibrahimovic”.

Avrò bevuto 3 o 4 doppi Cuba Libre ma sono sufficientemente lucido per capire e difendermi in modo adeguato, sfuggendo alle trappole che comincia a piazzarmi ad ogni frase. Una delle quali è più o meno: “Io lo so che ti piace lei, se vuoi posso aiutarti…”

Capisco quanto sia demoniaca nel frangente specifico, ma la spiazzo, so bene che sta giocando una tattica ed io non le presto mai il fianco. Lei provoca e io non mi scompongo. Le chiedo come faccia a sapere certe cose, oltretutto errate, e lei ribatte che si nota, altra frase buttata con lo scopo di far saltare qualcosa, le dico di no e si va avanti così per un pezzo.

“Matteo you can not handle me” mi dice. La fisso e le scoppio praticamente a ridere in faccia. Cerca di incartarmi con le parole e la cosa è divertente, fin quando in italiano esclamo: “Ma che ne sai de che ho dovuto maneggià io…” accompagnata dalla gestualità tipica italiana.

Scendiamo di sotto a ballare e mentre la guardo, mi prende gli occhiali da sopra la testa, si diverte un po’, poi con la scusa di uscire fuori per fumare, sparisce e se ne va. Fantastica. Per me ha già vinto tutto.

Riordino intanto le idee e aggiorno la mia classifica personale nella quale “La Ragazza di Richemont” scivola in fondo, in modo inevitabile, io nel frattempo faccio una cosa rara, ossia aggiungo la “Dama Nera” su Facebook, così come avevo aggiunto “Sonia Ibrahimovic”, le uniche due persone a cui ho mandato una richiesta. Un dettaglio che però qualcosa significa.

Non agirò su entrambi i tavoli, ma all’improvviso sono spuntati due personaggi dal peso specifico notevole che mi spingeranno a giocare il “dentro-fuori” rapido. Eppure la scoperta più importante, non sarà questo approccio, e nemmeno l’esito successivo, ma la gestione del dopo, del post.

Probabilmente la vera vittoria personale dell’estate del 2016.

La mia estate – “Forse non sono stato chiaro…”

La mia prima settimana tornato a Toronto coincide con l’ultima in Canada della “Ragazza di Woodbridge” pronta invece a fare la rotta inversa per trascorrere un anno a Roma. Giovedì 19 maggio mi trovo cosi per l’ultima volta a viaggiare verso il nord della città, stavolta però, non mi fermo come di consueto alla stazione metro di Wilson ma proseguo fino a Yorkdale, dove si trova uno dei più grandi centri commerciali di Toronto. È il momento dei saluti e degli in bocca al lupo. So bene che la sto per vedere per l’ultima volta, ne sono pienamente consapevole e di fondo ne sono felice. Mi è chiaro che la sua partenza sarà soltanto un bene, poiché è diventata per forza di cose un personaggio che genera più problemi e fastidi che altro. Allontanarla non è stato sufficiente, serve che lei se ne vada dall’altra parte del mondo, nella mia città, proprio come un anno prima, due giorni dopo che l’avevo incontrata.

Una settimana dopo, su questa replica della vicenda Fermata datata 2008-09, si pone però una pietra tombale. Sì, perché la ragazza inavvertitamente sbaglia a dire qualcosa, o meglio, fa saltare stupidamente un altarino che la smaschera nella sua pochezza, palesando il suo infinito egoismo. È lunedì, sono appena tornato dalla spiaggia dove sono stato per la seconda volta e in una conversazione su Whatsapp (che intanto ho reinstallato…) la sistemo rapidamente e le chiedo cortesemente di non cercarmi più. Inevitabilmente la questione mi accompagna per giorni, più che altro per il fastidio e il rendermi conto della bassezza di certa gente. Mi autocondanno a posteriori per il tempo datole in modo immeritato per diversi mesi ma evito anche di andare oltre. So molto bene che è una lezione importante, dal valore smisurato. La voglio vedere cosi, e me la tengo in tasca. Il risentimento svanisce in modo piuttosto rapido, probabilmente lo zero a cui si è ridotta in un attimo mi fa passare tutto con velocità inattesa. Il punto esclamativo sulla vicenda lo devo mettere giorni dopo però, in seguito al mio silenzio che lei non recepisce nel modo corretto.

Vengo infatti ricontattato e le rinnovo il mio invito a non scrivermi. Molto elegantemente le dico che non ho tempo per i bambini, quelli stanno fra di loro, e non con gli adulti. Il mio messaggio di risposta inizia con un “Forse non sono stato chiaro…” incipit che ancora fa ridere un paio di miei colleghi. L’infilzata questa volta basta e avanza. La “Ragazza di Woodbridge” sparisce per sempre dal radar, inghiottita dalla vita romana così affascinante per i giovani nordamericani e non riemerge più con mio immenso piacere. So bene, e lo dico oggi, che una situazione del genere attualmente non potrebbe più accadere. È successa come detto praticamente a distanza di sette anni, e ciò significa che se da Fermata in fondo non avevo imparato bene la lezione, un decennio dopo quando le dinamiche si sono fondamentalmente riproposte, non sono stato bravo a mettere le cose sul binario giusto. Ho sbagliato una volta, l’ho fatto una seconda, oggi non succederebbe più. Una delle conquiste di questa lunga storia o semplicemente di questa vicenda è proprio un approccio diverso a certe situazioni, come questa appena menzionata.

Fra i due ultimi nostri contatti però vengo a conoscenza della sliding door incontrata casualmente e non riconosciuta a fine aprile. E sì, giovedì 2 giugno infatti, complice la visita di un nostro collega di Montreal, ci riuniamo in un bar al termine della giornata lavorativa. Ad un punto, in modo casuale e forse inopportuno, esce fuori una conversazione dalla quale capisco con un pezzo dell’orecchio destro qualcosa di molto chiaro. Emerge infatti che la “Compagna di banco” ha iniziato a frequentare qualcuno, anzi, la situazione sembra essere già decollata nel modo migliore. La cosa mi turba, in parte ammetto che mi infastidisce anche. Non riesco a carpire il nome del ragazzo in questione, ne sento uno ma per una serie di ragioni non credo che sia lui l’indiziato. Torno a casa e scrivo immediatamente alla mia “Sorella acquisita” di Toronto e le dico cosa ho appena appreso, anche se in realtà l’aspetto più importante della vicenda è proprio il nome della controparte. Non mi serve molto per capirlo. Ventiquattro ore più tardi infatti è venerdì e andiamo come di consueto al bar. Si proprio quel bar su Adelaide e Duncan, con quel mio collega francese, quello della prima volta. Proprio loro infatti hanno ormai iniziato a essere appuntamenti fissi del venerdì dopo lavoro. Una tappa che ormai inizia a trascinarci in modo tale difficile da poter descrivere e giustificare.

Siamo nel caro e familiare Crocodile quando gli chiedo chi sia il neo-ragazzo della mia “Compagna di banco”. La risposta è abbastanza clamorosa perché il nome è quello che io avevo sentito la sera prima ed escluso a priori. Un personaggio ambiguo a dir poco, molto lontano da lei. Eppure è incredibilmente lui. Mentre sorseggio un doppio Cuba Libre, drink che è diventato il nostro cocktail ufficiale, riavvolgo rapidamente il nastro e la mente mi torna alla sera della prima partita di calcetto. Ripenso a noi due che incontriamo uno all’incrocio, il rapido e freddo saluto fra tutti, mi fermo e mi domando: “Ma come cazzo è possibile? Cioè, quella sera era il 26 aprile, oggi è 2 giugno, ma tutto questo quando e come è successo? Io sono stato a Roma poco dopo per 9 giorni, ma come si è potuto sviluppare il tutto?” La domanda mi accompagna per giorni fin quando mi toglierò il dubbio più avanti, a luglio.

La rivelazione mi turba, ma mi dà una spinta insolita. Una specie di reazione nervosa, non tanto di fastidio quanto di risposta mentale insolita. È la sera infatti in cui conosco attraverso amicizie comuni la “Ragazza di Richemont” con la quale converso amorevolmente. Mi chiede se può aggiungermi su Facebook, acconsento, le chiedo il numero e rimaniamo d’accordo per rivederci presto. Vado a casa soddisfatto e soprattutto mi dò una ideale pacca sulla spalla per come ho ribaltato il mood della serata che era iniziata in salita e con una rivelazione strana, ma che si è conclusa con un atteggiamento ed un piglio ben differente, qualcosa che solitamente non mi è mai appartenuto, soprattutto davanti ad una inerzia palesemente contraria.

Non me ne rendo conto, penso sia una roba capitata casualmente, il risultato o la miscela di un semplice fenomeno di causa-effetto.

Mi sbaglio però, perché invece è l’inizio di un viaggio.    

La mia estate – “Parola d’ordine: retrocessione”

La mia estate inizia un giovedì pomeriggio di aprile, precisamente il 7 aprile, data già presente nel mio immaginario per una vecchia storia dell’università, una surreale conversazione di anni fa fra me, David e il Presidente il quale ci salutò dandoci appuntamento proprio al 7 aprile successivo, data che puntualmente ogni volta ritiriamo fuori.

È ovvio che per “la mia estate” intenda qualcosa di non strettamente legato al calendario e nemmeno al meteo, ma a qualcosa di più personale senza scomodare esistenzialismi vari. Tutto nasce in modo piuttosto accidentale, e si racchiude in un rifiuto, quello che arriva dalla mia “Compagna di banco” che dice di no ad un bicchiere di vino da condividere dopo il lavoro.

 

La storia della mia estate inizia lì, e questa è la storia che proverò a raccontare.

 

Lascio la redazione, cammino verso casa mentre inizia a piovere all’improvviso, fortunatamente il percorso non è lungo e la pioggia è leggera. Varco la porta e mi siedo sul letto, mi addormento nel giro di cinque minuti. Non sono stanco, ma sento una fatica inspiegabile, una cascata di non so cosa mi è caduta addosso, ho un buco allo stomaco e tutto questo si rivela in una stanchezza strana. Mi addormento. Mi risveglio verso l’ora di cena stranito dalla quantità di ore che ho dormito in una parte della giornata non propriamente adibita a quel tipo di attività. Inizio a elaborare quello che è successo qualche ora prima e so bene, fin da subito, che c’è molto di più, molto sta venendo a galla, qualcosa di più antico e sopito ma mai sparito. So perfettamente che quello che è successo certifica la mia retrocessione, un parallelismo che nelle settimane precedenti avevo spesso citato, probabilmente sapevo che qualcosa stava per succedere. Il pomeriggio del 7 aprile è come il gol che arriva da un altro campo e azzera le tue minime speranze di salvezza. Mi sento esattamente così e inizio a ragionare su questo fatto. Sono molto meno lucido del solito, un dettaglio che per forza di cose significa tanto. Considerando l’orario, scrivo al “Ragazzo di Hong Kong”, al quale racconto il fatto, attaccandolo anche ad un certo punto, addossandogli delle responsabilità, parole dette tante volte ma che mai si sono rivelate reali.

Da quel momento in poi stacco tutto in senso pratico e non solo. Disinstallo Whatsapp che mi permette di isolarmi e mi trincero in un silenzio lungo che interrompo con una email soltanto, indirizzata alla Bionda. In quei giorni inizio a prendere coscienza di tante piccole sfumature e diverse realtà. Di base però, non ho voglia di ascoltare nessuno, perché preferisco evitare chiacchiere superflue e frasi retoriche. Entro in una acuta fase di egoismo, inteso come occuparmi proprio solo ed esclusivamente di me stesso. La modalità però mi piace fin da subito.

Venerdì 8 aprile, il giorno dopo, mentre sono al bagno della redazione, un mio collega francese, all’improvviso e senza un motivo valido, in italiano mi dice: “Andiamo al bar”. Rispondo sì senza pensarci, alle 5 salutiamo tutti e ci dirigiamo verso Adelaide e Duncan, in un posto in cui il venerdì fino alle 22.00 ogni cosa da bere costa 2.50 dollari. Uno dei protagonisti di questa storia è anche lui, il “Ragazzo di Versailles” con il quale mi dirigo verso il posto che sarà luogo centrale di questa estate, ma io sono ignaro ovviamente di tutto.

Nel frattempo, l’azione più sensata che mi ritrovo a fare è comprare il biglietto per andare a Roma a maggio. Sono incastrato da una serie di cavilli che mi obbligano ad usare le mie ferie entro il 31 maggio e dopo qualche ora passata a perlustrare su Volagratis diverse destinazioni statunitensi e centro-americane, decido di comprare il biglietto per tornare a casa 9 giorni. La data è il 5 maggio, coincidenza che certamente non mi esalta ma il prezzo è troppo vantaggioso e così lo prendo. Quattro mesi dopo torno a Roma e l’idea si rivelerà più che azzeccata.

Domenica 17 aprile intanto  a Toronto inizia di fatto la primavera, è una splendida giornata di sole, la prima veramente calda che ci spinge ad un brunch per pranzo e a distenderci su un parco davanti casa mia prima di concludere quel week-end con un funerale che riguarda un po’ tutti.

Inizio nel frattempo a giocare a calcetto, la prima partita è a 8, ed è l’ultima di un torneo. Mi diverto molto, riassaporo dopo anni il gusto di infilarmi gli scarpini e tirare due calci ad un pallone, farlo poi così lontano da casa ha un qualcosa di esotico che mi attira. Un mio collega che organizza questi tornei mi chiede se voglio prendere parte a quello successivo che comincia a fine mese, accetto senza esitazioni ed entro a far parte della squadra per un torneo di calcetto di dieci partite che finirà ai primi di luglio. La formula di questa lega prevede però la presenza anche di una donna in campo, una cosa molto canadese. La ragazza in questione, ironia della sorte, sarà quasi sempre la mia “Compagna di banco”, sempre presente da tempo a queste partite.

Martedì 26 aprile c’è l’esordio, perdiamo subito e non gioco nemmeno troppo bene. Durante la gara e dopo, mentre torniamo a casa, la mia “Compagna di banco” dice una serie di frasi strane. Ambigue o comunque insolite per lei. Dovendo fare entrambi lo stesso percorso verso casa, ad un punto mi chiede in modo del tutto inavvertito, prendendo spunto da una conversazione molto generica, di un mio eventuale interesse per una stagista che lavora da noi da qualche mese. Nego tutto, infatti non ho alcun motivo di raccontarle l’assurdo pomeriggio di fine febbraio quando ci sono uscito e lei la sera stessa doveva andare ad incontrare per la prima volta i suoi nuovi suoceri. Sorvolo con grande maestria e andiamo avanti, ma la domanda improvvisa mi spiazza per diverse ragioni e mi fa pensare per la prima volta a qualcosa di diverso, non solo a me, poiché racconterò il fatto ad altre due persone che arriveranno alla mia stessa conclusione. Tuttavia, arrivati praticamente all’incrocio davanti casa sua, ci imbattiamo in una persona di nostra conoscenza, più sua che mia a dire il vero. Due battute e via. Ci salutiamo, lei entra nel suo portone io proseguo per la mia destinazione. In realtà ho appena assistito ad una sliding door, non lo so, non me lo immagino, ma un mese dopo lo capirò in modo casuale e rimarrò molto sorpreso, quasi esterrefatto.

Il giorno dopo esco intanto con una ragazza italiana conosciuta sulla community Internations, quelle realtà virtuali utili a mettere in contatto italiani espatriati. È una serata piacevole, un unicum per certi versi, realizzo come sia bello poter parlare con una persona italiana all’estero. Ci aggiriamo per Little Italy e dopo una pizza, torniamo a casa. Penso che la rivedrò, ci diamo appuntamento per quando tornerò da Roma. Non la rivedrò mai più invece, ma la sentirò un’altra volta perché mi chiederà un aiuto per un suo amico.

La sera prima di partire per Roma, è un mercoledì e la Serie A di basket arriva all’epilogo finale. C’è poco da decidere per le posizioni alte della classifica, tutto invece è da stabilire per la retrocessione e la Virtus dopo un campionato scellerato ne è drammaticamente coinvolta. La domenica prima ho visto la partita in casa contro Torino, prima battaglia per la sopravvivenza, stravinta ma non sufficiente per essere salvi. Tutto si decide a Reggio Emilia in una impresa che appare titanica. La storia è ciclica e mi torna in mente quando nel 1993 la Fortitudo si salvò clamorosamente a Reggio guidata da Alibegovic, in una partita epica. Mi auguro che possa accadere qualcosa di analogo. Non posso seguire la partita perché buona parte della sfida coincide con il consueto meeting del mercoledì alle 3. Lascio la mia postazione con la Virtus davanti nel punteggio di poco. Finita la riunione, mi alzo per ultimo, so che nel giro di pochi secondi aprirò la pagina dei risultati della Lega Serie A e sarà come una roulette russa con la sensazione però che i colpi a vuoto saranno molti meno di quelli che ti fanno fuori. È così, Reggio Emilia vince, la Virtus per la prima volta in 89 anni di gloriosa storia precipita sul campo in seconda divisione. La tristezza e il groppo in gola mi pervadono, parto il giorno per Roma con un peso sull’anima di cui avrei fatto a meno e che mi riporta al terribile biennio cestistico 2003-2005.

La settimana e poco più a casa scivola via quasi senza averne memoria. Incontro subito Andrea ed Aurora, la sua bambina nata il 9 aprile, trascorro più tempo possibile con Alfredo che è la mia priorità suprema dopo il dramma da poco avvenuto. Insieme andiamo anche al “Siviglia” di Fiuggi a trovare David, ritiriamo addirittura la pergamena della magistrale che mette veramente un punto finale e pratico a quel pezzo della mia vita e festeggio in famiglia il compleanno di mio padre l’8 maggio. Torno a vivere la strana ed antica sensazione di rivedere una partita dell’Inter dal divano di casa, poco dopo però mi ritrovo a tirare la zip della valigia per ripartire.

Mi aspetta Toronto ancora una volta ed una lunga estate senza pause, una interminabile corsa che finirà solo a Natale. Una maratona che però mai avrei pensato potesse farmi scoperchiare finalmente dei punti critici bene in vista dentro di me.