Il primo giorno di scuola

 

Dopo il primo giorno dublinese, oggi è stata la volta del primo giorno di scuola.

Mi sono alzato all’alba considerando che dovevo essere alle 8 in quel di Magennis Court, quando sono uscito da casa era ancora buio. Mi sono dovuto registrare in qualità di nuovo studente, ho sostenuto il colloquio orale dopo il test on-line che avevo già fatto, e in attesa di essere inserito nella classe di mia competenza ho conosciuto un po’ di gente tra cui una canadese, due spagnole e cinque italiani. Terminati i colloqui per tutti i neo arrivati, su uno schermo al plasma posizionato al centro della sala d’attesa, sono usciti i nomi di ciascuno di noi con affianco il rispettivo livello e la classe verso cui dirigersi. Una cosa molto americana, molto da aeroporto ma comunque sia gagliarda.

Io sono finito nel gruppo B2 il quinto su sei poiché l’ordine è il seguente: A1, A2, B1, B1+, B2, C1 (Advanced). Non sto nel raggruppamento delle teste di serie (evitate ora battute scontate e già sentite) ma sto nella categoria prima, un buon punto di partenza. Dicevo degli italiani, sì, ce ne sono una marea. Nella mia classe siamo 8 e 5 vengono dal Belpaese me compreso. Ho trovato il napoletano che fa Esposito di cognome, il bresciano che quando parla inglese sembra di ascoltare un’intervista di Balotelli ma d’altra parte la provenienza e la pronuncia sono quelle, ed un ragazzo molto simile al mio compagno di liceo Dario. Tuttavia mi sembrano dei tipi simpatici, aperti e ben predisposti alla situazione.

La lezione è stata piacevole e stimolante, effettuata con metodi giovanili e divertenti. Abbiamo lavorato in gruppo, un po’ con il vicino di banco (nel mio caso Patricia, ragazza svizzera) e poi in squadre con tanto di sfide. La cosa più bizzarra del giorno è stata una specie di prova alla lavagna tipo gioco dell’impiccato in inglese. Io ho dovuto disegnare il soggetto che mi era stato dato attraverso un foglietto e gli altri, i miei compagni, dovevano capire quale fosse la frase.

Ho dovuto disegnare David Beckham con tanto di fascetta sui capelli poiché la frase era la seguente: David Beckham with the bandage on his head.

Finita la lezione sono andato al Trinity College per fare la student card necessaria per ottenere degli sconti oltre che per comprare l’abbonamento per la Luas (una specie di metro-tram).

In seguito, sono tornato a casa per le 2.30, ho mangiato, mi è rivenuta la tosse e più tardi vado a fare spesa.

Anche per oggi, è tutto.

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2/2/1997: La prima volta non si scorda mai…

 

Il pomeriggio prima, un sabato pomeriggio, ero andato con i miei compagni di classe alla festa di compleanno di Elena, una nostra amica di Trapani arrivata qualche mese prima a scuola.

Di quella festa ricordo il salone, la partita di calcio improvvisata con una bottiglia piccola di Egeria schiacciata (usando come porte lo spazio fra le zampe di una sedia) e le stelle filanti di carta lungo il pavimento essendo pieno Carnevale.

In quelle celebrazioni ricordo anche che Andrea fece a botte con la madre di Elena, una scena tanto surreale quanto comica, così come Daniele che all’uscita ricoprì totalmente uno Scarabeo bordò legato ad un palo con la schiuma spray bianca, strumento cult degli anni 90 a Carnevale.

Insomma, ricordo molte cose di quel sabato primo febbraio 1997, ma soprattutto ricordo il mio stato di esaltazione totale in attesa dell’indomani, aspettando la mia prima trasferta.

Da settimane avevamo deciso che saremmo andati a Perugia per vedere l’Inter e saremmo partiti tutti, ma proprio tutti: io, mia madre e mio papà. I biglietti erano per il settore ospiti, che al Renato Curi è metà curva sud. Sento ancora quelle sensazioni, quel eccitazione nel raccontare a Simone e Daniele che il giorno dopo sarei stato in curva, fuori casa. Cose del genere, all’elementari, valgono un sacco di punti, un bonus indefinito di credibilità.

Se a 9 anni eri stato già in trasferta eri uno “cazzuto” in sintesi. La mattina dopo partimmo per l’Umbria, c’era il sole, il cielo limpido ed un’aria fresca che tagliava la faccia. Andammo all’hotel dove la squadra era in ritiro e riuscimmo a scattare anche qualche foto nonostante la ressa.

Io feci una fotografia con Giacinto Facchetti, uno dei ricordi più belli e significativi che mi porto dietro. Io e lui. In seguito al pranzo, ovviamente al sacco, entrammo al “Curi”. I cori, le bandiere, il clima, furono gli aspetti che mi lasciarono a bocca aperta, come la prima volta che andai allo stadio, tre anni prima. A me, fin da piccolo è sempre piaciuto stare in curva, perché lì vedevo che si divertivano, cantavano e saltavano. Ecco, per la prima volta ero proprio lì, con mia madre che badava a me secondo dopo secondo. Ricordo lo striscione vicino al quale ero io (quello della Brianza Alcolica) e i cori per Zamorano, il mio idolo. Come spesso mi capita (tuttora) fui preso più dall’atmosfera che dalla partita. Collina, arbitro della gara, annullò due gol all’Inter, entrambi siglati nel secondo tempo sotto il nostro settore, il boato mi rimase due volte strozzato in gola. Finì 0-0, Materazzi fece il suo esordio in A con la maglia del Perugia difronte a quella squadra con la quale avrebbe vinto tutto un decennio dopo. Rimanemmo nello stadio circa un’ora dopo il fischio di chiusura, ricordo il lancio di oggetti nel finale, un “contadino” che addosso alla griglia di separazione gridò a un’interista che lo avrebbe sgozzato mimandogli anche il gesto del dito sul collo. Io in tutto ciò fui costretto a fare la pipì in curva, ovviamente verso la parte dei tifosi del Perugia poiché la polizia ci controllava a vista e non mi fu permesso di scendere nel retro della gradinata e raggiungere i bagni. Tornammo a Roma in serata, mi addormentai prima di Orte sul retro della Regata di mio papà. Ero stanchissimo, esausto come se avessi giocato. Ero stato attentissimo a ogni dettaglio, e quello sforzo di concentrazione evidentemente mi aveva sfinito. Il giorno dopo in classe avrei dovuto raccontare tutto.

Io al “Curi” con i miei genitori, per la prima volta: un affare di famiglia. Ma d’altronde, come sostiene Alan Edge, chiamatela come volete la nostra passione, ma sappiate che è la fede dei nostri padri.

 

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(Io e il grande Giacinto, io porto addirittura due sciarpe, una è dei Boys San. Un giorno, magari, parlerò di quanto la cultura da stadio e la mentalità Ultras abbiano avuto un peso nella mia crescita)

L’Inno a scuola

Ci sono una serie di cose, un gruppo abbastanza ristretto, per le quali divento il capo degli intransigenti, il re dei conservatori, il custode della memoria. In questo gruppetto rientrano il tricolore e l’inno. Ecco, se qualcuno alza la voce su queste cose, le dileggia, non se ne cura e le critica in maniera ingiusta e insensata, mi incazzo rapidamente.

Sono italiano, sono profondamente italiano, condivido appieno il patriottismo e per me, sinceramente, anche un pizzico di nazionalismo fa anche bene, meglio essere spostati su quel lato che dall’altra parte, meglio amare il proprio paese che fregarsene. Sono un figlio della mia nazione, della mia patria e di questo me ne vanto, è un orgoglio che ho tatuato addosso e me lo porto ovunque. Il passaporto che recita in copertina Repubblica Italiana, per me è sinonimo di fierezza.

Il tricolore? È la mia bandiera, fosse per me rimarrebbe appesa alla finestra ogni giorno e non solo le estati degli anni pari in occasione della Nazionale. Ecco, per me l’Italia ha ancora un senso, quello dell’appartenenza, l’Italia è un valore. Non mi vergogno di essere italiano, non riesco a vergognarmi nemmeno quando vedo e vivo queste ultime classi politiche che trasformano il Belpaese nella barzelletta d’Europa. Io non mi identifico con questa gente, ci sono certo, ma passeranno, è gente che transita, nessuno se ne ricorderà. Nessuno può intaccare ciò che è la mia terra, il Paese per antonomasia, quello per cui ti devi esprimere sempre utilizzando il superlativo relativo.

Detto questo, arrivo alla notizia dell’Inno di Mameli insegnato nelle scuole. La trovo una cosa talmente giusta che lo scandalo per me è che non ci fosse da sempre. È una cosa anacronistica? Ottocentesca? Fuori luogo? Per niente. È giusto che tutti i bambini sappiano e possano cantare il nostro inno, un testo ricco di storia che deve essere imparato a memoria e capito. Che italiano sei se non sai tutto l’inno? A me lo hanno insegnato alle elementari ma già lo sapevo, lo imparai a Italia 90’, a quei tempi non era obbligatorio ma ho avuto la fortuna di avere maestre intelligenti.

Il Senato ha approvato, la Lega ha detto no e per me possono beatamente fottersi, un paese si distingue simbolicamente per bandiera e inno, quest’ultimo è giusto che venga insegnato e spiegato.

Sì, deve essere parafrasato, raccontato, pensate all’ultima pagina veramente bella di televisione a cui abbiamo assistito, sapete quale è stata? Benigni che fa l’esegesi dell’Inno di Mameli a Sanremo. Uno spettacolo unico e non solo perché il buon Roberto è un fenomeno unico…

Viva l’Italia, viva il nostro inno, viva Goffredo Mameli.

 

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Nove anni fa…”Il Plinio”

Esattamente nove anni fa, era il 10 settembre del 2001, varcavo per la prima volta la soglia del liceo scientifico Plinio Seniore e mi apprestavo a vivere il quinquennio delle scuole superiori. Intimorito e preoccupato, forse in maniera esagerata, ho ancora impresso il ricordo di quel lunedì, un misto di ansia e paura che si aggiungeva alla consapevolezza di non essere nella stessa classe dei miei due compagni delle medie. Ricordo Vincenzo zoppo, Christian, l’appello in aula Magna, e lo sguardo con cui salutai mia madre prima di salire su in classe. Fu un inizio veramente difficile considerando anche la strage delle Torri Gemelle che si era consumata il pomeriggio del secondo giorno, mentre ero da Caporale su Via Tiburtina per comprare i primi libri. Il giovedì di quella settimana, parlando con la vicepreside, che l’anno successivo sarebbe diventata anche la mia insegnante di inglese, alla fine riuscii a farmi cambiare la sezione, spostandomi dalla D alla B, classe in cui ritrovai finalmente Christian e Vincenzo. Il ricordo del primo anno resta più o meno incubo, impreziosito dalla disfatta calcistica del 5 maggio, mentre dal secondo liceo in poi, le cose andarono decisamente meglio. Onestamente non ho mai avuto uno splendido ricordo di quegli anni, sono nella mia testa, ma non nel mio cuore, ho vissuto momenti divertenti ma non ho mai avvertito rimpianti o nostalgie varie, il passaggio all’università mi ha entusiasmato molto di più sotto qualsiasi aspetto. Ci sono certamente situazioni memorabili che è impossibile dimenticare, attimi che hanno regalato dei sorrisi eterni: le occupazioni, i tornei scolastici vinti, le gite a Firenze e Praga, qualche festa, il Real Montebello, il trasloco e la notte prima degli esami. Momenti notevoli ma anche professori che in modi differenti sono rimasti nel nostro immaginario: Gargano, Trezza, Graziosi, La Salvia, “Il Viti”, la Formichella. Alcuni rapporti d’amicizia continuano anche se mi capita raramente di vedere i miei vecchi compagni, paradossalmente il legame più forte che ho iniziato ad instaurare durante quel periodo è stato proprio con Gabriele, il quale era più grande di me di due anni e quindi non frequentava nemmeno la mia classe. La sua bocciatura, lo spostamento nelle mia stessa sezione e qualche amicizia in comune, hanno permesso ad entrambi di stringere questa amicizia che dura ormai da diversi anni. Un incubo che invece continuerà a turbarmi rimarrà quello della matematica, la “croce” che per tutto il liceo mi sono portato dietro: 5 anni e 5 debiti consecutivi sempre nella stessa materia, tutti con 5 e mai recuperati a settembre. Questo spauracchio, almeno fino al quarto, non mi ha permesso di vivere benissimo anche se dopo aver combattuto con ogni mezzo, soltanto prima del quinto, decisi di mollare con totale rassegnazione per dedicarmi meglio a tutte le altre materie in vista della maturità.

Sono passati già 9 anni e di cose ne sono successe, ma il Plinio Seniore continuerà malgrado tutto a conservare un ruolo importante nei miei ricordi di adolescenza.  

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“In vino veritas” (Plinio)