Stralci

 

Rientrato dall’Irlanda ho ricominciato a leggere, soprattutto la sera prima di dormire. In questi due mesi, in realtà, ho riletto 3 libri, diversi fra loro ma a mio avviso molto belli. Ci sono tre passaggi, uno per ciascuno testo, che mi coinvolgono particolarmente: sono questi che vi riporto qui di seguito.

 

 

C’era la luna piena quella sera del 4 luglio 1982. Ci fermammo a guardarla, nell’atrio dell’albergo che ospitava la Nazionale. Ero con Gaetano.

Gaetano aveva un suo modo di essere divertente, ma aveva anche un velo di malinconia quando stava in mezzo agli altri, quasi intuisse il suo tragico destino.

“E se fosse un segno?” se ne uscì Gaetano sorridendo e con gli occhi rivolti al cielo.

E poi riattaccò: “Vedi, ci sono momenti in cui respiri un’aria diversa, avverti che il vento sta andando nella direzione giusta. È come se una pioggia magica, improvvisamente, ti investisse. Ti sembra di essere Achille immerso nel fiume Stige: ti senti invincibile”.

È ciò che capita a quella Nazionale. È ciò che mi disse nella notte di luna piena prima di Italia-Brasile, Gaetano Scirea.

 

 

Domani mi sposo.

Io e V. siamo nella casa di campagna, la mia futura moglie in quella di città, dai genitori. La sera prima del matrimonio gli sposi non dormono insieme. Mi verso un goccio di whisky, giusto un goccio per godermi il sapore, e fumo l’ultimo sigaro da scapolo con V., seduto in terrazza.

Sono felice.

In sottofondo De André finisce Sinàn Capudàn Pascià: meravigliosa, struggente, puro piacere. Poi anche lui, il Faber, mi dice: “Ciao, buonanotte, e soprattutto buona fortuna”.

È il lato A. E non parlo del disco. È il lato buono. Dodici anni fa ho pensato che fosse il lato B della mia vita a cominciare con la ribellione a tutto quello che ero stato fino a quel punto. Ma ho vissuto la vita al contrario. Questo è il lato A, questo è il lato buono e ci sta dentro un sacco di roba: il dolore e l’amore, la stupidità e l’intelligenza, gli errori e le parolacce, il piacere e la curiosità.

“Ci sono dei giorni di merda, certe volte, ma in questo momento, qui, con questo bicchiere e questa musica e con domani che sta per arrivare…Cristo, sarei disposto a essere triste per mille anni, per ogni giorno come questo”, dico al mio amico.

“Ha un nome, questa cosa. Si chiama vivere e porta inevitabilmente alla morte. Ma in fondo, è tutto ciò che puoi avere”.

 

 

Nella ricostruzione cinematografica dell’attacco giapponese su Pearl Harbor, quando gli ufficiali festeggiano al grido di “Tora, Tora, Tora” l’ammiraglio che comanda la flotta imperiale resta imperturbabile. “Abbiamo tirato la coda alla tigre che dormiva” dice serio, ed il film finisce.

Ci sono diverse analogie tra i giapponesi del ‘41 e i fortitudini degli anni 90: intraprendenti, coraggiosi, devoti alla propria causa fino al fanatismo, ma ottusi nel non capire la forza dell’avversario, nell’insistere a stuzzicarlo.

La Virtus infatti è un po’ come gli Stati Uniti di Roosvelt: una grande potenza che non ha voglia di entrare in guerra con il vicino, ma se vi è costretta, provocata, lo fa senza risparmiare energie e va fino in fondo. Fino alla bomba atomica, se necessario: Via San Felice viene spianata come Hiroshima, il 16 settembre del 1993, data della più trionfale, schiacciante e micidiale vittoria virtussina di sempre: 41 punti di scarto in un derby.

Nagasaki e il secondo fungo nucleare sono invece storia del maggio ‘98.

La tigre bianconera a cui i fortitudini hanno tirato la coda si sveglia e ruggisce nel 1993. Sabato 8 maggio la Virtus vince il suo undicesimo scudetto…