Uguale

 

Voglio pubblicare un post scritto il 12 agosto e che finora non avevo mai avuto modo di mettere.

 

foto, ricordi, 2004La vedete questa foto? (incipit tipo Il Testimone di Pif…) E’ del giugno 2004 ed è stata scattata in camera mia a casa di mia nonna. Nell’immagine sto controllando il mio NEC, uno dei primi videofonini, alla faccia di chi mi dice che non sono tecnologico. La maglia invece è una t-shirt che ho indossato alcune settimane fa per andare da mio cugino e questo fatto è piuttosto eloquente.

Il discorso della maglia è simbolico, un pretesto per dire che vista questa foto e una di oggi sono praticamente uguale, che indossi ancora quella t-shirt è quasi consequenziale.

Per qualcuno può essere scioccante, ma per me è normale nel senso che io sono identico a 9 anni fa, a quando avevo appena finito il terzo anno di superiori. Sono quello ritratto in questa foto e sono identico a lui in tutto e per tutto.

Non sono cambiato granché fisicamente ma soprattutto a livello di testa, mi rendo conto che penso le stesse cose di nove anni fa, dico le medesime frasi di nove anni fa, vedo le cose come nel 2004. Ora non so se sia un bene o un male e le interpretazioni possono essere solo due: o ero vecchissimo a quei tempi e ora sono “soltanto” vecchio, oppure prima era un anziano di 17 anni e ora sono un ragazzetto che è rimasto indietro senza evolversi. È evidente che qualcosa di strano ci sia.

È vero, nel frattempo sono successe tante cose: mi sono diplomato, mi sono laureato due volte, ho avuto le prime esperienze lavorative, ho studiato all’estero, ho fatto molti viaggi e ho incontrato tante persone, è vero tutto ma io sono esattamente quello. So di più, ho quell’esperienza dettata dagli anni che trascorrono ma in sostanza sono praticamente identico. Mi sento uguale.

Come a tempi di questa foto mi faccio la barba una volta alla settimana, ho un rapporto conflittuale con il sonno, ho lo stesso numero di cellulare. Continuo ad avere le stesse manie, come vedere tutte le partite dell’Inter sempre seduto sulla stessa sedia e nel medesimo posto. Continuo anche ad avere le stesse fobie: i topi, i serpenti, il timore di avere il naso sporco e la zip dei pantaloni tirata giù, il gesto compulsivo di guardare a intervalli regolari l’orologio senza vedere poi in realtà l’ora.

Continuo a essere un nostalgico, un solitario, un abitudinario, uno sempre con gli stessi interessi, un intollerante, un grafomane, uno con un sacco di allergie alimentari, un arguto osservatore, un ripetitivo con poche cartucce da sparare tra cui parlare (non casualmente) della figura dell’inetto nelle opere di Svevo.

Negli anni però ho imparato a dire sempre sì con l’esperienza: se mi dicono di fare qualcosa e so da chi parte l’idea, saprò anche e fin da subito che la proposta lanciata non si farà, ma io non dirò di no, anzi, dirò sì, quanto meno non passerò per quello che si è opposto immediatamente, tanto so come andrà finire e non mi sbaglio veramente mai.

Rispetto al 2004 ho qualche amico in più, dei sogni in meno perché un paio me li hanno fortunatamente realizzati ma come già detto vivo la sensazione di vedere le cose importanti allo stesso modo e di avere ancora quelle opinioni.

Nove anni dopo, sono uguale a nove anni prima. È possibile? Pare di sì.

 

Chissà chi mi aveva scritto il messaggio che stavo leggendo nella foto.

Il “frasario” di mia nonna

 

La tendenza della mia estate è stata quella di imitare mia nonna. Ironizzo sulle sue frasi, ripeto le sue espressioni, cerco di riprodurre le sue parole. In questa volontaria opera di imitazione, ci sono alcune battute che a me fanno particolarmente ridere.

 

“Eh, quello è ‘n artro del partito del Pio”. Questa espressione è un capolavoro per ciò che nasconde. Non è di facile comprensione e pertanto merita una spiegazione. La frase si rivolge a qualcuno, ad una persona che chiede, pretende, vuole e non dà mai. Il Pio alla fine sta infatti per prendere, ricalcando la prima persona singolare del verbo prendere in romanesco: Io pio.

Insomma se prendi e basta e non dai mai, sei uno del partito del Pio.

 

“Porta un culo che pare ‘n quadrimotore”. Diciamo che questa frase è molto più chiara, o meglio, lascia spazio a pochi dubbi. Si riferisce a qualcuno che pesa molto, ad una persona grassa che inevitabilmente ha messo su dei chili in una zona particolare del proprio corpo, il proprio fondoschiena. Il parallelismo con il quadrimotore, storico aereo della Piaggio il P.108, si collega all’ampiezza del velivolo paragonato alla larghezza del Lato B della persona in questione.

 

“Bono pure quello, fa parte de ‘na ghenga”. Altra espressione volta a sottolineare le qualità non eccelse di qualcuno. Nel caso specifico, l’ironico Bono all’inizio apre la strada ad una conclusione che si caratterizza in ghenga, parola che a me fa molto ridere. Credo sia una sorta di traduzione italiana e antecedente di Gang.

 

“Sì, ciao”. Frase che sta diventando un tormentone anche per merito di mio padre. L’espressione detta da mia nonna è un modo per sottolineare la sua poca convinzione o il non interesse in qualcosa. Se qualcuno le dice un fatto poco credibile lei ti dice così, un po’ come te saluto

 

“E lallero”. È un intercalare di difficile interpretazione forse una sorta di ellapeppa o qualcosa del genere. Anche qui la frase viene esclamata quando mia nonna non crede troppo a ciò che sente o che le è stato riferito.

 

“La messa cantata che dicono ‘r giorno de Pasqua”. Qui ci addentriamo nel complesso e spinoso mondo delle imprecazioni, a me fa ridere perché non riesco a capire il motivo per cui si debba scegliere una cosa così specifica, particolare. Insomma, la sua ricercatezza le conferisce un tono quasi aulico.

 

“Vaffa frega”. Le persone anziane a Roma usano questa espressione che non si può nemmeno considerare un epiteto, è una finta imprecazione la quale non si rivolge ad una persona ma più che altro alle cose. Non so sinceramente se ci sia un legame tra il termine frega e ciò che nel romanesco significa nella sua accezione più volgare nella forma verbale fregare. Malgrado tutto siamo difronte ad una frase che appartiene alla più profonda cultura popolare.

 

“E dimo che vabbé”. Il pezzo forte è questo. Frase secca e chiara. Intercalare, puntini di sospensione, chiosa su qualunque discorso di ogni tipo. Tra il saggio e lo speranzoso, con un filo di convinzione che le cose potevano andare comunque peggio.

 

“E’ tutto ‘n fracantò”. Impossibile tradurre o spiegare il termine fracantò, non saprei analizzare l’etimologia, credo sia un qualcosa di onomatopeico che richiama il rumore e il chiasso. La frase sottolinea come una situazione sia ingarbugliata, incasinata, difficile da decifrare.

 

“Io nun ho mai aperto il frigo dei fiji mia…”. Quanta discrezione in questa frase! Una considerazione che mia nonna fa sempre, a prescindere, un po’ per mettere le mani avanti, un po’ per sottolineare che lei non si intromette, che si fa gli affari suoi e che non si permetterebbe mai di aprire il frigorifero a casa degli altri, nemmeno dei suoi figli. Educazione e rispetto. Prima di tutto.

800

 

Ottocento post. Ottocento non sono pochi, mi pare chiaro, ma è un dato che testimonia la continuità e il vissuto di questo blog, quando mancano una cinquantina di giorni al suo sesto anniversario.

Ottocento dicevo, Ottocento come il pub dietro la Stazione Tiburtina in cui sono andato un sacco di volte con i miei amici, Ottocento come il secolo che più di tutti gli altri mi ha affascinato studiare.

Il secolo del Romanticismo, della Passione e dell’Amor di Patria, dell’Individualismo, della Fantasia, di tutte quelle cose che vivono dentro di me.

Il secolo in cui sono state inventate tantissime cose che appartengono ancora in maniera consistente alla nostra vita di tutti i giorni: la radio, l’automobile, la fotografia e la Coca Cola, ma anche il cinema, il telefono, la lampadina e il cibo in scatola.

Ottocento come i post pubblicati, anche se sono in realtà 805 ma parlo come gli juventini e dirò che sono 805 sul campo e 800 quelli riconosciuti, quelli on-line.

Ottocento, numero tondo, altri cento a partire dal 26 dicembre 2012, quando scrissi il post numero 700 parlando del Natale appena vissuto con un foto-racconto.

Tocco quota 800, con ritrovato entusiasmo e con dei bei giorni alle spalle, consapevole che toccherò 900 tra una decina di mesi più o meno, quando il blog non sarà più su questa piattaforma ma su WordPress. Questa è la novità più grande che riguarderà il futuro prossimo, pochi giorni fa infatti abbiamo ricevuto questa comunicazione e siamo pronti a traslocare, anche se io lo faccio a malincuore.

E sì, perché ci si proietta al domani, perché un blog serve a questo, a ricordare, a fissare emozioni e ad avere una memoria storica dalla quale poter attingere sempre.

Molto c’è da raccontare, e niente va dimenticato.

Un blog, ed ottocento post, servono proprio a questo.

 

blog, 800, post

 

 

 

I’m the last of a dying breed

and it’s not the end of the world, oh no

It’s not even the end of the day…

Quella serata a Frascati, con la Rossocrociata e tutti gli altri

 

E fu così che mi ritrovai un sabato sera di fine estate, nel giorno del mio onomastico, in un ristorante di Frascati accompagnato da alcuni amici. Alla mia sinistra avevo Antonio e La Bionda, a destra Andrea e Martina. Davanti a me la ragazza elvetica, la famosa Rossocrociata che era tornata due settimane dopo la celebre improvvisata. Eravamo noi sei, e dopo un fritto misto seguito da una pizza, fummo raggiunti dal mai dimenticato Gallo con tanto di baffetti e da Alfredo che a quei tempi stava facendo uno stage alla Gazzetta dello Sport, quando la poltrona da dirigente Rai (posto che occupa ormai da 36 anni ininterrottamente) era soltanto una pura chimera.

Si creò un’atmosfera solare, un’aria distesa. Era stato rotto il ghiaccio e la mia insistenza nel far si che La Bionda e la Rossocrociata parlassero tra di loro un po’ in francese era stata parzialmente soddisfatta. Nel frattempo Andrea aveva provato argutamente a mettermi in imbarazzo e a ridicolizzarmi, mentre Antonio, fedele compagno alla mia sinistra, vigilava attento come un ufficiale sabaudo. Il Catto era felice, aveva riottenuto una palla di vetro da Dublino che però ruppe maldestramente la notte stessa, quando arrivato al casello di Anagni venne aggredito da due briganti dai quali si divincolò eroicamente tirandogli la palla addosso e ferendo loro gravemente.

Usciti dal ristorante ci dirigemmo verso San Rocco: Alfredo faceva strada, con il suo passo dinoccolato, le mani in tasca e la testa piegata verso destra, con la sua andatura da uomo di mondo introduceva la ragazza svizzera nei meandri di Frascati.

A quel punto, giunti dinnanzi ad un muretto, mi tornò in mente una situazione capitata esattamente tre anni prima, quando in quel posto preciso, Alfredo e David mi prendevano in giro prospettando il mio futuro. Eravamo nuovamente lì, di tempo ne era trascorso e di cose ne erano successe, anche soltanto in quel mese del lontano 2013.

Fu una serata allegra, piacevole, in cui pensai ripetutamente che in fondo mancava solo Gabriele per completare il concistoro in questa riunione ufficiale.

Tirammo avanti fino alle 2.30, poi Alfredo mi riportò a Villa Sciarra per prendere la macchina e lì ci separammo. Fu proprio lui a salutare la Rossocrociata con tre baci sulla guancia seguendo le tradizioni elvetiche, fece una bella figura se non fosse che poco dopo, risalutandoci nuovamente, gliene diede due rientrando nella parte dell’italiano medio.

Io mi gustai la scena, mentre il Catto davanti a me si lisciava i suoi mustacchi fiero del suo nuovo look.

Tornammo verso Roma e la Rossocrociata inserì il frontalino della radio per farmi compagnia, consapevole che si sarebbe addormentata dopo aver raggiunto la rotonda dell’ospedale ed infatti avvenne proprio questo. Io rimasi in silenzio senza musica in sottofondo, assecondai le curve della strada ripensando alla serata, ripercorrendo alcuni momenti e certe battute.

Convinto che era stata una serata per tanti motivi molto importante, una di quelle che iniziano a cambiare i punti di sospensione in punti esclamativi.