La mia idea di paradiso

Tante volte ho provato a rispondere ad uno dei più grandi interrogativi che accompagnano l’essere umano da sempre: il paradiso. Spesso mi sono domandato se effettivamente esista, come possa essere e come funzioni. In fondo, se credi, sei convinto della vita nell’al di là, sai che dopo l’esistenza terrena c’è qualcos’altro, teoricamente migliore. In tutta onestà, da fine umanista, mi piacerebbe se ci fosse una dimensione dantesca, con tanto di gironi, bolge, dannati, tre livelli e tre mondi diversi che spettano a ciascuno in base alla propria vita terrena. Finora, senza timori, posso dire di essermi comportato da personcina adorabile, 27 anni senza essermi macchiato di nulla di compromettente, a oggi, per me, avrei le carte per puntare al massimo, al regno dei cieli. È divertente pensare come ognuno immagini questo luogo, ma soprattutto è coinvolgente l’idea che ciascuno di noi ha, il modo in cui lo descrive se si ferma un attimo a riflettere.

Ieri ripensavo a tutto ciò, e lo facevo mentre giocavo a basket. Sì, perché insieme a Vincenzo siamo andati in chiesa a farci due tiri come ai vecchi tempi e proprio come anni fa (e come tutte le volte che prendo un pallone davanti a un canestro) provo un piacere profondo e intenso. Godimento. Credo sia una delle cose che mi diverte più fare al mondo e che non mi annoia mai, nemmeno farlo tutti i giorni come capitava in passato. Ripensando a questo, mi è tornato in mente a quando dissi come immaginavo il paradiso. La mia personale visione è la seguente: sbrigate le pratiche burocratiche del caso, sicuramente si incontreranno i parenti e gli amici. Dopo aver organizzato un bel pranzo ci si saluta e inizia la vita ultra terrena. Per me il paradiso è giocare con Alessandro, Paolo, Chicco, Cristiano e Marco tutto il giorno a pallone sotto casa di mia nonna, nel cortile, sull’asfalto. Partite lunghe un eternità (appunto), rivincite, discussioni, gol. Per me il paradiso sarebbe quello, giocare tutto il giorno con i miei amici d’infanzia come ho fatto per anni. Spaccarmi le suole delle scarpe, sbucciarmi le ginocchia, impolverarmi, sporcarmi le mani e cercare il dribbling perfetto. Non dover aspettare le 16 o che faccia meno caldo, giocare con loro all’infinito, senza che nessuna mamma o nonna si possa affacciare alla finestra a richiamarti dicendo che la cena è pronta e la pasta nel piatto, senza quel triplice fischio a mettere un punto alla gioia.

Ci ripensavo ieri, mentre giocavo a basket come quando avevo 14 anni. Per me il paradiso sarebbe quello e augurarsi di vivere in eterno una qualcosa di sperimentato per lungo tempo, significa, molto probabilmente, essere già stati molto fortunati.