Il week-end pasquale che non vi ho raccontato

Mentre attendevo di poter pubblicare il millesimo post, inevitabilmente sono andato avanti nello scrivere, appuntandomi soprattutto il weekend pasquale che ha regalato al sottoscritto l’esordio in NBA nel sabato santo, e la messa più brutta a cui abbia mai assistito in tutta la mia vita l’indomani, ma andiamo con ordine.

Se ti piace la pallacanestro, il basket americano è il punto di riferimento per spettacolo e livello di gioco. Per quanto io sia stato appassionato di NBA ai tempi del liceo, anche grazie alle sfide con l’omonimo gioco per la Playstation, sono uno di quelli che tifando per una squadra italiana ha sempre avuto una propensione anche per la nostra Serie A per un discorso di cuore.

Nonostante tutto, la sera del 13 dicembre quando ho saputo che sarei dovuto venire qui una tra le prime cose che ho pensato è stata: “Che spettacolo, andrò a vedere i Raptors!”, la squadra di basket di Toronto.

Sabato 4 aprile, due mesi dopo essermi accaparrato un pessimo biglietto per la sfida contro i Celtics (trasformato poi in qualcosa di molto meglio da vecchio zingaro e frequentatore di stadi e palasport), ho varcato le porte dell’Air Canada Centre per immergermi in questo magnifico mondo, fatto di musica, colori, luci, intrattenimento, insomma il classico fomento all’americana.

Troppe cose hanno catturato la mia attenzione di spettatore europeo ed italiano. In ordine sparso direi: il disinteresse del pubblico, più coinvolto dalla cheerleader, e dall’acchiappare i gadget lanciati verso la folla durante i time-out che alla partita, le persone che se ne vanno a un minuto dalla fine con il punteggio in bilico, la musica ad ogni azione, il non-tifo, il menefreghismo generale riguardo il risultato, spettatori che si assentano per dieci minuti durante la sfida per andare allo store, o prendere birra e pop-corn ed infine aggiungerei il fatto che nessuno canti l’inno prima della partita.

Bello il clima, ma fino a un certo punto, perché se poi la partita rimane sempre in secondo piano, allora io mi indispettisco. Mi spiego: l’intrattenimento va bene, ma non portato all’eccesso, non può diventare più importante dell’evento attorno al quale dovrebbe ruotare. Lo sport per me rimane passione e coinvolgimento, essere felici o dispiaciuti alla fine se il risultato è favorevole o meno. Se manca tutto questo, è cinema, show, è un’altra roba che in fondo non potrà mai coinvolgermi davvero.

È stata una grande serata, perché è stato un viaggio di tre ore in questo universo anni luce distante dalla nostra cultura, concluso con un assalto al McDonald’s per mettere il punto esclamativo a questo tripudio di americanismo che mi ha ricordato però una cosa in particolare: mentre ero sulla metropolitana, all’altezza di King Station, mi è tornato in mente come a me in fondo piaccia andare a vedere una partita, e sottolineo l’andare, quel gesto, quello spostamento ricco di speranze e entusiasmo. Non c’entravo nulla, certo, ma quella vecchia sensazione l’ho avvertita e mi sono sentito un po’ a casa, e già questo ha significato molto, mi ha ripagato dei 42 dollari spesi.

(Per la cronaca la partita è stata magnifica, punto a punto, con un over-time necessario, e negli ultimi secondi lo score è stato ribaltato ripetutamente fino a quando Thomas ha vinto da solo con un’azione sulla sirena, così al limite che gli arbitri si sono dovuti rivolgere al tavolo per controllare l’instant replay che ha certificato come il tiro, il canestro e la vittoria fossero valide per Boston)   

Pasqua. Un po’ perché mi sembrava giusto, un po’ perché a volte si hanno degli obblighi, rimane il fatto che la domenica sono andato con la famiglia francese a messa in una chiesa che loro conoscono dopo St. Clair.

Siamo arrivati un po’ in ritardo, ma con loro ho capito che è una costante e questo ci ha costretti a non seguire la messa essendo tutto pieno, così ci siamo spostati nell’edificio affianco, dove in una saletta, in tv, veniva trasmessa l’omelia che si stava svolgendo a distanza di 20 metri.

Una situazione surreale, che con il tempo ha iniziato a indispettirmi. Lunghissima, in un’altra lingua (ovviamente), con la beffa di non essere presenti ma di viverla quasi via Skype, e con la neve fuori che fioccava, non l’ho vissuta per niente bene, anche perché l’indiana vicino a me puzzava mentre l’indomito Mathieu non riusciva a nascondere il suo profondo senso di pennica. In compenso, ho incontrato una mia collega coreana di redazione, una montatrice accompagnata dal figlioletto e dal marito. Insomma, non vedevo l’ora di tornare a casa dove ho pranzato da solo con linguine al pomodoro, patate al forno e fragole per chiudere questo insolito pranzo pasquale.

Certo, la neve rendeva tutto molto natalizio, gli scoiattoli e il procione fuori dalla finestra, tutto molto selvaggio e inusuale, però, diciamocelo, le feste vissute da soli sono davvero inutili, soprattutto se non puoi nemmeno rifarti con un po’ d’abbacchio… 

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