Un figlio della working class

Riguardando l’intervista mi sono rammaricato soltanto di un dettaglio, ossia di non essere riuscito a sottolineare un aspetto a cui tengo abbastanza: essere uno del popolo, inteso come un figlio della working-class.

È un aspetto che mi piace ribadire soprattutto quando si sta in certi ambienti e si lavora in alcuni settori che rientrano in una sfera un po’ diversa, in particolar modo quando inizi a mostrare sistematicamente la tua faccia in una tv.

Mi picco di questo fatto perché sono uno di periferia e di borgata, non sono un figlio della Roma bene, ma di quella dimenticata e verace, sporca e disordinata, in cui ogni tanto ti devi guardare le spalle. Sono uno del popolo perché figlio di lavoratori normali, di gente che ha fatto sacrifici e non ha mai vissuto di rendita. Sono figlio di scelte, di questo sì, ma quello forse è meglio di no.

Al giorno d’oggi sembra che certe posizioni siano ad appannaggio solo di chi ha sganciato migliaia di euro, o dollari, per master, corsi, formazioni di ultimissimo livello. Non sono nulla di tutto ciò e ci tengo molto a dirlo, anzi a ribadirlo.

Perché sparare con un bazooka è un discorso, con una pistola a sei colpi è piuttosto diverso. Però, ha tutto un altro sapore e qui torno a un vecchio post, scritto mesi fa (3 febbraio) e che vi dovevo. Non me lo sono mai dimenticato, voi sicuramente sì e ne avete anche tutto il diritto, ma io no.

Sì, perché in quel post chiudevo parlando del ragazzo di Elena, il celebre “Top Player”. Bello, cool, trendy, soldi, corsi, carriera apparecchiata su una tovaglia di raso rosso, con i bordini bianchi, con champagne e primizie. Tante volte mi è capitato di fare questo discorso, in particolar modo con Gabriele e sempre ho avuto la sensazione che in fondo sia più bello così. Ossia con la fatica, il sacrificio, le attese e tutti quei percorsi aggrovigliati che segnano ciascun fuoriuscito dall’incantato mondo universitario negli ultimi anni. Si fa quel che si può e oggi, 9 volte su 10, non basta.

Più si ha in tasca e più si hanno chance, come sempre, ma attualmente ancor di più. E certo, la storia è veramente diversa. Poche settimane dopo quel post, lessi per coincidenza un annuncio su un sito da parte del The Post Internazionale, ammirevole progetto giornalistico portato avanti da giovani rampanti. Leggendo le biografie di ciascuno di loro, a disposizione sul sito, facevo fatica a pensare come queste persone fossero partite dal mio stesso livello. Master a Londra, scuole di Giornalismo nei posti più stimolanti e formativi, tutti step che richiedono denari, tanti denari. Non metto in dubbio il valore di nessuno, per carità, certo è che magari se hai del talento e un conto in banca che ti permette di mostrarlo, o di entrare in certi circoli, è veramente tutta un’altra storia, soprattutto in questo ambiente. L’alternativa è galoppare senza prendere fiato, e sperare.

Ecco, io sono contento del mio percorso che non so dove mi porterà, ma sto in pace con me stesso e più vado avanti e più capisco come questo mestiere sia uno di quelli che impari giorno dopo giorno, facendolo davvero sul campo, e non c’è scuola che ti possa formare altrettanto. Quei posti inventati per legalizzare delle mazzette, perché 20 mila euro l’anno ad esempio dividono ancor di più il mondo in chi può e chi non può, sono uno specchio volgare e becero, ingiusto. Ed è intollerabile che il proprio talento o le proprie capacità in fondo siano legate ai soldi e a quanto si possa mettere sul tavolo.

Rimane una cosa abominevole, come magari quelli che hanno il cuore a sinistra e il portafoglio gonfio a destra, che viaggiano idealmente da anni con il braccio fuori dal finestrino e pensano di essere stati bravi e meritevoli.

State bene lì, io sto di qua, da quest’altra parte, anzi qui sotto, nel ceto dei normali, da fiero figlio della working-class. E meno male.

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