Quelle giornate in cui si decreta chi si fomenta al mondo: la 10 km di Toronto

PREMESSA

“Sei un esteta, un D’Annunzio.” Giorni fa mi è capitato di rileggere questa frase del giorno dell’aprile del 2013, una affermazione pronunciata a Dublino da Gabriella, la quale dopo ormai diverse settimane mi aveva inquadrato in questo modo. Facendo centro, cogliendo in pieno il personaggio, individuando una caratteristica forse abbastanza lampante.

Un’altra frase che qualche mese dopo mi venne affibbiata uscì un venerdì mattina a Napoli, dalla bocca di Alfredo che rivolgendosi a David pronunciò il celebre ipse dixit: “Ma il Ciofi è un esaltato”. Questa, ancor più della prima, mi definisce alla perfezione. Si perché se mi osservate attentamente, quella cosa che vedete non è la mia coda, non è il classico prolungamento animalesco, no, è il filo della miccia. Quella che quando viene accesa mi infiamma e mi rende incontenibile, mai a livelli di David Speranzi, sia chiaro, ma nemmeno così lontano.

Tutto questo lungo preambolo per parlare di ieri mattina quando Marie, mentre mi bevevo il mio succo d’arancia pregustandomi il primo vero caldo weekend di Toronto, mi guarda dicendomi: “I have something for you”. Vedo una busta, due maglie, e soprattutto un pettorale. Mi parla della corsa di 10 km dell’indomani e mi chiede se ho voglia di partecipare. Penso in due secondi una serie di cose, in primis che negli ultimi 4 mesi ho corso solo la domenica precedente 20 minuti e che 10 km non li ho mai fatti nemmeno quando ero molto più allenato, però dico sì, senza indugi.

Sì, vengo, corro, mi fomento. Ci siamo capiti insomma.

Vengo colpito in un punto debole, quello dell’esaltazione, della corsa, dello sport e dell’impresa. Tutti questi elementi messi insieme creano quella miscela unica dalla quale non posso stare lontano e accetto, consapevole della follia. Ma dico sì, perché sono un esaltato e quindi la mattina dopo sarò all’incrocio fra Castlefield Avenue e Yonge Street, dietro casa oltretutto, sarò allo start. E correrò…

LA CORSA

IMG-20150510-WA0004Sul mio pettorale c’è scritto Matthieu, non perché siamo in Canada e quindi hanno voluto francesizzare il mio nome, ma perché originariamente sarebbe proprio dovuto essere l’implacabile Matthieu a solcare con i suoi piedi Yonge Street alla velocità della luce. Alla fine ha rinunciato e quindi io sono stato tirato in mezzo alla vicenda. Il nome va bene uguale, l’avrei presa con meno diplomazia se avessi dovuto correre con un nome diverso, tipo Bruno o Jean Francois, invece no, il destino mi regala Matteo in salsa transalpina e con quattro classiche spille da balia me lo appiccico sulla mia maglia blu della New Balance.

C’è il sole, fa caldo, siamo tanti e si respira veramente un’aria di festa e di divertimento. Alle 9.16 si parte, passo vicino allo speaker che mi cita elencandomi fra i podisti che si stanno mettendo in marcia, costeggio la mia fermata della metro e il gruppone inizia a diradarsi. Il primo km lo chiudo in sette minuti, tanti, ma l’imbottigliamento iniziale ha inciso sul tempo. A Davesville c’è la prima discesa e anche la prima salita, allungo l’occhio e vedo questo serpentone blu che si allunga su Yonge street mentre ai lati della strada, passanti, amici e curiosi ci incitano. Le donne anziane con i campanacci (le mie preferite), i bimbi con i cartelloni colorati, persone qualunque che fra un “Well done” e un “Keep going” ci tengono a partecipare in qualche modo facendosi sentire. Penso che su alcune cose gli americani siano terribili, su altre impareggiabili, l’organizzazione degli eventi sportivi è un loro punto forte, anche in circostanze piccole come questa.

Non vedo il cartellone del terzo km e me ne dispiaccio anche perché non ho potuto trarre carica dalla frase che accompagna ogni tabellone chilometrico: citazioni, incitamenti, riferimenti alla bellezza della corsa. So che al quarto km c’è il primo rifornimento acqua, bevo correndo e mi tengo il bicchiere il mano, non lo butto per terra, mi costa fatica anche in occasioni del genere. Aspetto il primo secchio e lo infilo dentro, mente guardo l’orologio che mi dice che continuo ad andare a 7 minuti al km, non sgarro di un secondo e credo sia giusto così, dopo il quinto, che chiudo immancabilmente a 35 minuti, mi rendo conto di stare bene e di avere ancora energie.

Raccolgo qualche incoraggiamento mentre in lontananza sbucano i grattacieli della City e penso a quanto possa essere unico e suggestivo fare la maratona di New York, ci rifletto, continuo a superare persone e mi viene in mente il messaggio della mattina di Gabriele che mi diceva “Fai 80 minuti in scioltezza”. Corro e comincio a prenderci gusto, so che taglierò il traguardo, so che non dovrò fermarmi per riprendere fiato e camminare e di conseguenza inizio a vivere la gara in tutt’altro modo. Voglio fare un bel tempo, mentre lo penso, al km 6,5, dopo College street arriva il dolore al ginocchio destro. Lo aspettavo, lo temevo e si affaccia nella mattinata di Toronto quando sono da poco passate le 10. Capisco che è quel dolore che so sopportare, è all’esterno e non dentro, quello che mi blocca del tutto. Mi sto gestendo meravigliosamente e il mio punto di riferimento sono i 7 km, il secondo rifornimento.

Bevo, guardo l’orologio e allungo addirittura il passo. Più vado avanti e più scendo sotto i setti minuti. Più la stanchezza dovrebbe incalzare e più le gambe girano, in un modo che mi sorprende e mi esalta, anche perché sotto la tabella del settimo chilometro c’è scritto un emblematico “Run, walk, crawl…keep going!” Miglioro costantemente, mi domando dove possa tenere tutto questo fiato, ma la voglia e l’adrenalina stanno colmando ogni mancanza, l’ottavo km lo taglio su Richmond Street West, la via dove lavoro, la CN Tower si staglia fra due palazzoni, la ammiro, giro alla curva a poi spingo forte. Mi sto tenendo per lo sprint finale, il clima nel frattempo è cambiato, avvicinandoci al lago corriamo con un aria fresca che si fa sentire e ci accompagna fino alla fine.

Alla tabella del nono km, parto definitivamente e dò tutto, supero più concorrenti possibili per arrivare meglio in graduatoria, mi sento all’improvviso il Matteo Ciofi del Triplete, quello del 2010, passo sul ponte, e prima dell’ultima curva, un partecipante che ha già tagliato il FINISH, legge il mio nome e da dietro la balaustra mi grida forte “Let’s go Matthew!”, lo saluto con un cenno e termino sprintando, sotto i 70 minuti, fermo il cronometro a 67.19: un tempone. Arrivo senza boccheggiare, senza arresti cardiaci e proseguo camminando felice e soddisfatto di una performance sulla quale non avrei scommesso un centesimo. Ritiro la mia medaglia, mi mangio una ciambella di pane e una banana al ristoro. Faccio i conti con due vesciche che avevo avvertito correndo, stretching e mi incammino verso il tram per tornare a casa.

Il viaggio di ritorno è lungo e me lo faccio tutto in piedi. L’esaltazione è tale che non mi interessa la fatica. Penso che dovrebbero fare una puntata di Sfide su questo ragazzo italiano che dopo 4 mesi di nulla, e 20 minuti di corsa la domenica prima, ha fatto la 10 km in 67 minuti, completando la seconda parte in tre minuti meno della prima. L’alone di invincibilità (e stupidità) mi accompagna fino a casa, potrei tranquillamente radunare 4 sbandati e dichiarare guerra agli Stati Uniti in un delirio di onnipotenza che ormai mi pervade.

Entro a casa orgoglioso della mia prestazione e la racconto a Marie che non so a che punto abbia mollato tutto. Mi tengo la medaglia al collo come un ragazzino di 12 anni e ripeto il tempo in maniera quasi compulsiva.

Dentro di me so che ancora una volta ho sottolineato a fuoco il mio nome nell’esercito dei fomentati del pianeta Terra e questo è il dato più importante.

 

Come direbbe Settore, viva la corsa, viva lo sport, viva l’Inter. 

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Quelle giornate in cui si decreta chi si fomenta al mondo: la 10 km di Torontoultima modifica: 2015-05-10T22:45:03+02:00da matteociofi
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