Quella normale serata speciale

Il giorno dopo sarebbe stato il Canada Day. Giugno finiva e luglio iniziava, dell’estate, ovviamente, nessuna traccia. Eppure fu una serata diversa quella. Le finestre erano aperte e la tv gracchiava malgrado il volume basso, era fresco ma l’aria che entrava passava quasi inosservata. Mi chiese perché continuassi a lavare i piatti con l’acqua corrente anziché riempire il lavandino e sciacquare tutto, per comodità e risparmio. Ci pensai un attimo prima di rispondere, riflettei su questa mia abitudine sbagliata ma riuscii a cavarmela dicendo che stavo usando l’acqua fresca e che quel contatto, malgrado una temperatura non particolarmente torrida, mi procurava un discreto piacere.

Avevamo cenato come tante altre volte, nulla di particolarmente romantico o memorabile, nessuna tavola imbandita o candela sparsa qua e là. No, nulla di tutto ciò se non una bottiglia di vino rosso argentino invecchiato, esattamente un Alta Vista Terroir Selection Malbec che avevo riportato da Buenos Aires dove ero stato pochi giorni prima per lavoro.

Fu una serata speciale nella sua normale essenza, quelle in cui ci facevamo una domanda importante, come spesso capitava per sigillare il momento, come una specie di lucchetto che sanciva l’unicità di un attimo particolarmente bello e limpido. Le chiesi di accendere la radio e spegnere la tv, e mentre asciugavo i piatti con un canovaccio da classica cucina italiana, quelli con i disegni delle città, nel caso specifico era raffigurata Sorrento, dalle casse uscì fuori Blue Moon cantata da Frank Sinatra. Un punto esclamativo emotivo a quegli istanti, una melodia che mi riportò a diversi anni prima, al ristorante in cui lavorava Gabriele a Pechino, dove la ascoltai seduto su un divanetto mentre mi riprendevo da una giornata di grandi camminate.

Parlammo a lungo, come non capitava da tempo, quasi da amici, con i piedi poggiati sul tavolino basso davanti al divano. Ridemmo tanto, scherzammo, finendo come spesso capitava a ironizzare sulle parole italiane e sulle frasi difficili da spiegare in un’altra lingua. Godemmo di quella serata fino in fondo, e senza perdermi il gusto di quei minuti mi tornarono in mente tante cose: Alfredo, il compleanno di mia mamma otto giorni dopo a cui sarei stato ancora una volta assente, al fatto che la mattina successiva, finalmente, avrei potuto dormire più a lungo.

Pensieri banali, altri invece più profondi, come se dovessi in qualche modo fare subito un paragone e ricordarmi qualcosa di negativo per assaporare maggiormente quella parentesi. Ripensai a tempo prima, ad una sera in cui ero in un letto a Rochester scrivendo a due amici che mi sarebbe piaciuto avere qualcuno che mi aspettava a casa l’indomani. Mi tornò in mente quel pensiero come succedeva spesso, come capitava ogni volta che mi mettevo in coda all’imbarco sotto il monitor con scritto in giallo Toronto.

Non sprecai nemmeno un secondo pensando a quei frammenti, ricordi o momenti, no, in realtà gustai tutto meglio, come non succedeva da tempo, provandomi a spiegare cosa fosse quella sensazione, finché mi venne la parola esatta mentre prendevo posizione sul lato destro del letto.

Compiutezza.

Chiudete le valigie, si va a Buffalo!

Ero arrivato da poco quando si parlò della grande convention dei media di Buffalo e io fui coinvolto in questo viaggio. Era gennaio. Sono passati mesi, fa caldo, è umido, la valigia è già pronta, la sveglia è puntata alle 5, perché alle 6 partiremo in 11 da davanti la redazione, diretti in America.

Per me è la terza volta in un mese, ma sarà la prima in cui entrerò in Canada con tanto di visto e nessuna preoccupazione e questo dettaglio rende il tutto un po’ più cool.

Ci attendono tre giorni di meeting, anche se il nostro scopo, così ci è stato ricordato anche oggi, sarà quello di fare relazioni pubbliche. Parlare con tutti, presentarci, farci conoscere. Fantastico. Non avere particolari impegni ci permetterà di essere liberi, di prenderci appunto del tempo per chiacchierare e instaurare quelle conversazioni fondamentali in questi ambienti.

Il microfono è già in valigia, il “dado” anche, con tanto di dicitura in italiano. L’hotel è stato cambiato oggi in una giornata semplicemente folle, ma in compenso io starò nella singola, come Totti in ritiro.

E quindi si riparte per gli USA anche se io dovevo rimanere qui. Sono tre settimane che ripeto al mio direttore marketing che io dovevo restare a Toronto per uscire con una ragazza, e tre giorni a Buffalo sarebbero stati un danno temporale enorme per me, però mi tocca andare, anche se lui mi ha detto di non venire, dando giustamente il peso adeguato alle priorità.

Tutto questo mi ha riportato a un mese fa quando ero a Rochester e nella mia camera d’albergo mi immalinconivo dicendo a Gabriele e a Ilaria che mi sarebbe piaciuto avere a Toronto, di ritorno dall’America, qualcuno che mi aspettava sentendomi dannatamente solo.

Non mi attende nessuno sia chiaro, però, almeno, ho un motivo in più per tornare questa volta. Mettiamola così dai.

Oh Gallo, ci sentiamo eh, stammi bene dai, un abbraccione e non fa’ casino, mi raccomando.

Chiudete le valigie, si va a Buffalo!

 

Queste sono le normali prese in giro a chi si fa prendere in giro e non sa di fondo cosa sia la serietà…

Un bella foto estrapolata dal montatore stamattina, con uno screen-shot in sala editing. Thanks Jay.

“Ho bisogno di una sorpresa ogni tanto”

La scorsa settimana mentre mi aggiravo su Youtube ad un punto ho deciso di vedere dopo tanti anni da Zero a Dieci, il secondo film di Ligabue. Dei vari spunti che la pellicola regala, ce ne è uno che mi è rimasto più a cuore, in realtà è una frase del protagonista, di Giovanni Benassi il quale ad un punto esclama: “Ho bisogno di una sorpresa ogni tanto.”

Un pensiero che mi ha portato a bloccare per un attimo il film, perché mi sono fermato e rivolgendomi idealmente all’attore gli ho detto: “Bravo, è esattamente quello che sto pensando io da alcune settimane.”

Sì perché in fondo ci vorrebbe una sorpresa, un colpo di scena, un episodio inatteso che ti meraviglia e ti stordisce un po’, ovviamente in senso positivo. Questa frase mi ha riportato a quella utilizzata due anni fa quando scrissi una citazione tratta dal libro di Maffucci: “La vita è una traiettoria imprevedibile, casuale. Tutto sembra andare storto e finisci dritto nel posto giusto. Basta una buca, un sussulto, una svista improvvisa che sposta l’asse e rompe la geometria del destino.”

Pochi giorni dopo aver finito di leggere questo libro andai in Svizzera senza aspettarmi nulla, se non di passare dei giorni diversi in un paese con degli scorci incantevoli. E poi? Appunto, tutto sembra andare storto e finisci nel posto giusto. Cinque giorni dopo infatti, mentre mi aggiravo per la stazione di Lugano, con i biglietti del treno per Milano in tasca, continuavo a ripetere da solo e a voce alta: “Quanti brividi, quanti brividi, quanti grandi brividi per la Madonna.”

Quella è una istantanea magnifica di come ad un punto succedano cose che vanno al di là dell’immaginazione, eventi che scappano di mano e al massimo puoi rincorrerli, consapevole che sarà dura raggiungerli. Visto che poi non sono uno che rinnega nulla e si rimangia certe cose, quel fomento, quella parentesi magica e sorprendente, la rivivrei altre cento volte pur mettendo in conto tutto il resto. Perché sì, come dice il Benassi, ho bisogno di una sorpresa ogni tanto, e onestamente avrei bisogno di questo tipo di sorprese ora, soprattutto adesso.

Essendo dotato di una consistente dose di fantasia da sempre, mi capita di immaginare ipotesi e scenari, è uno dei miei passatempi, soprattutto la mattina o la sera. Fantastico, disegno scenari, mi pongo domande e organizzo come potrei fare o come sarebbe se succedesse questo o quello. L’ho sempre fatto, più che altro credo sia una reazione naturale al fatto che quasi sempre so già quello che succederà, e quindi vivo una specie di “noia esistenziale” dettata dal fatto che so come andrà. Sarò un visionario, uno troppo scaltro, o semplicemente conosco certe dinamiche che mi circondano per cui la vita normale mi offre poche sorprese, pochi colpi di scena, rare situazioni inimmaginabili.

Tutto è sempre abbastanza pronosticabile, spesso nel male, e quindi in questa specie di agnosticismo mi creo una sottospecie di dimensione parallela nella quale solitamente entro quando mi dico: “Ma pensa se…”

Mi diverte, mi distrae, mi alleggerisce. Non c’è nulla di male, ogni tanto una scappatoia fantasiosa ci sta anche bene, o no?

Però, ora, mi rendo conto che servirebbe una roba del genere, quel qualcosa che sposta l’asse e rompe la geometria del destino, sarebbe intrigante, anche perché capisco che dopo 5 mesi sto iniziando a prendere il controllo della situazione e quindi sarebbe utile e curioso uno scenario spiazzante che cappotta tutto. Solitamente però, sono cose esterne, situazioni che capitano e che non vengono in base o in seguito alla propria volontà.

Sì, sì, ci vorrebbe una cose del genere, ne sono profondamente convinto e mentre riflettevo sul termine giusto da usare, e ripensavo alla frase del film mi dicevo: “Sì però la parola non è sorpresa, va bene, ma non è quella, nemmeno situazione o colpo di scena, no, è un’altra parola.” Dopo un po’ mi sono fermato e mi sono detto: “Brivido! Brivido! Serve un brivido.”

E sì, capita anche questo, un po’ come quando giri per casa e cerchi le chiavi e poi ti rendi conte che le avevi già in mano.

Ecco, mi è successa la stessa cosa. 

La mia terza casa

Per me casa è quel posto in cui arrivo e posso mettermi le ciabatte. Questo succede in due posti soltanto: a casa dei miei genitori e da mia nonna. Da venerdì sera, però, in questa particolare classifica devo inserire anche il 15 di Rosewell Avenue, l’abitazione in cui ho trascorso i miei primi 4 mesi e mezzo in Canada. Sono tornato per prendermi le ultime cose l’altra sera, ma anche per trascorrere una cena in compagnia della mia famiglia francese e quando sono entrato in quella che era la mia camera, mi sono tolto le scarpe e mi sono infilato subito le mie ciabatte lasciate appositamente lì. Un gesto banale ma significativo, perché nel farlo mi sono sentito veramente a casa, così come quando mi aggiravo per la cucina e preparavo per tutti la pasta.

È stata una bella serata, ovviamente, e mi ha fatto uno strano effetto andarmene stavolta, perché sapevo che sarebbe stata l’ultima e mentre svoltavo l’angolo e dall’Ipod uscivano le note di Albachiara mi sono immalinconito terribilmente.

Percorrendo quella strada mi è tornato in mente quando la calpestavo con gli scarponi e la neve, o quando il verde ha iniziato a impossessarsi dei marciapiedi con fiori e colori, e ovviamente, come è successo per mesi, sono passato davanti a quella scritta fatta sul cemento che ha un nome scolpito in terra. Un nome, che inevitabilmente non può essere casuale, e questo non perché sono io che ci faccio caso, ma per 4 mesi e mezzo ho letto sempre un nome fisso sul marciapiede prima dell’incrocio: Emily.

Mi sono fermato allo stand degli hot-dog e mi sono messo a parlare con il mio amico polacco e dopo aver azzannato il panino mi sono infilato dentro lo Yonge-Eglinton Centre per tornare in centro a casa, in quella che però per me non potrà mai essere la mia casa.

Anche perché, se per assurdo dovessi rimanere qui 10 anni, la mia abitazione sarà sempre e solo quella della famiglia Garin a Eglinton.

 

Sabato pomeriggio invece sono andato a Little Italy, lungo College Street per la manifestazione Taste of Italy. Un fiume di gente per un qualcosa che era tutto tranne che italiano se tralasciamo due stand della Barilla. Un miscuglio di locali, bancarelle e punti ristoro. Un bel clima, tanta gente, un via vai che intorno alle 17 ha raggiunto il suo apice.

Camminando per College Street riflettevo sui tanti italiani che sono qui, e con molti dei quali ho avuto modo di parlare, pensavo a loro e a questo forte senso di appartenenza che hanno con le loro radici dopo mezzo secolo. Un qualcosa su cui non posso esprimermi, a differenza del fatto che molti di questi sono persone che mentre il paese usciva dalla guerra e stava nella merda se ne sono andati, si sono imbarcati e tanti saluti al all’Italia per sempre. Non tutti, certo, ma molti hanno fatto così, mentre i miei nonni, come quelli di tanti miei coetanei si rimboccavano le mani e ricostruivano quotidianamente un’Italia a pezzi e distrutta della guerra.

Per questi ho il massimo rispetto, la totale stima, sono loro l’Italia, al di là dell’età, per quelli che se ne sono andati, ed erano liberissimi di farlo, ci mancherebbe, onestamente ne ho un pochino meno.