Quel 25 aprile

Il giorno dell’anniversario della Liberazione è passato da tre giorni, ma mia madre ha avuto la brillante idea di farsi raccontare qualche ricordo da mia nonna riguardo il 25 aprile e ha pensato bene di annotare quello che sentiva. Questo è il racconto, vita vera, di sofferenza e fatica, fra la miseria e il dramma.

Se ancora oggi il 25 aprile è così importante per me è anche perché sono cresciuto con questi racconti. Se siamo un paese libero è grazie anche ai nostri nonni. Loro hanno combattuto per la libertà e loro hanno ricostruito l’Italia. Loro sono la nostra memoria storica vivente.

 

Quel giorno la mia famiglia, 25 aprile 1945

Mamma mi racconti di nuovo quei giorni…

Certo figlia mia, allora i bambini piangevano sempre e non avevamo ormai niente da mangiare da molti giorni. Il poco rimasto lo lasciavamo da parte per loro e per me e per Rosalba erano rimaste solo poche castagne secche e qualche noce. Noi andavamo a letto completamente a digiuno. Avevo 15 anni. Vittorio e Teresa avevano poco più di un anno, Vittorio era nato nel ‘43 e Teresa nel ‘44.

La mia mamma, povera donna, e Maxin ci avevano lasciate sole con i bambini da giorni per andare in Piemonte a fare la borsa nera. Farina o riso in cambio di tanti soldi, questo è quello che chiedevano i contadini e che dovevamo obbligatoriamente dare  in cambio di qualcosa da mangiare.

A Genova ormai da molto tempo non si trovava cibo; i contadini nascondevano il poco che avevano per paura di essere derubati dai  fascisti. Loro ti portavano via davvero tutto. Non avevano pietà ne dei bambini, ne tanto meno dei malati.

Il pane non si trovava e comunque era veramente cattivo, era amaro e mi sono sempre domandata cosa ci potesse essere dentro quel pane per essere così cattivo, forse il cemento?

Quando sei disperato Anto, e devi mangiare, fai tutto, anche quello che non vorresti.  Così avevamo già rubato della legna per riscaldarci e la notte andavamo anche a rubare qualche frutto da degli alberi gelosamente custoditi.

Non si poteva pescare, le barche non erano autorizzate ad uscire, c’era il coprifuoco e comunque se provavi ad uscire con la barca, al ritorno trovavi i fascisti lì pronti ad aspettarti e a portarti via tutto il pescato.

Il Piemonte a piedi era tanto lontano, così i giorni passavano e Mamma e Maxin non tornavano.

La disperazione, la profonda tristezza e gli stenti, ci avevano messo in una condizione veramente difficile.

Nessuno ti aiutava, nemmeno i parenti stretti. Eravamo sole e tanto stanche.

Quella mattina, il 25, ricordo che arrivò una persona a casa di corsa e ci disse: “Venite venite, i fascisti se ne vanno!” Rosalba rimase a casa con i bambini, io invece corsi in via Merano come tutti del resto. La gente era felice, suonavano, urlavano, piangevano, battevano le mani.

Le truppe stavano lasciando la città. Se ne stavano andando via veramente. Li guardavo e mi domandavo cosa sarebbe successo. Pensavo a Mamma, e mi chiedevo: “Saranno ancora vivi? Sapranno di questa cosa?”.

Dopo qualche giorno Rosalba era in strada e passò una persona di Voltri che era partito per fare la borsa nera insieme a Mamma e Maxin, “Sono vivi gli chiesi? Dove sono?”

“Sono ancora in Piemonte” rispose e mi hanno dato questi pochi soldi per voi. “Vedrai  Rosalba che presto torneranno”.

“Presto quando?” domandò. Non ce la facevamo più!

Dopo un po’ di giorni arrivarono,  la mia Mamma era distrutta. Mi raccontò che aveva avuto una emorragia. La vergogna per strada con quel sangue che le scendeva tra le gambe. Dovevano camminare vicino ai ruscelli per permetterle di lavarsi. Povera mamma, ma per fortuna erano tornati a casa anche se con pochissime cose da mangiare.

Per tamponare una situazione difficile andammo anche a bussare a casa dei genitori di Maxin, gli avevamo chiesto un po’ di patate per i bambini, del resto erano i loro nipoti, ma ci risposero che se avessero dato a noi le patate sarebbero rimasti senza loro. Così decidemmo insieme di lasciare mamma con i bambini e noi tre di andare a rubare nelle loro cantine appena era notte fonda.  Portammo via così fave fresche e patate, e per noi il giorno dopo  fu festa.

Mangiammo una zuppa talmente fitta di fave che se mettevi il cucchiaio al centro rimaneva in piedi…

Col tempo arrivarono poi gli americani, ci davano il pane bianco, la cioccolata, per almeno altri due o tre anni le cose furono sempre difficili, ma loro, i fascisti dico, non c’erano più.

La vita cominciò piano piano a riprendersi ed io andai a lavorare in Lomellina con la mamma.

Da li potevamo mandare le cose da mangiare a Rosalba ma non ricordo come facevamo a mandargliele, ci ha sempre pensato nonna.

Mamma, le dico: “Ecco questa è la nostra famiglia. Siamo sempre stati un’unica cosa”.

“Per forza, le persone quando gli parlo di noi non possono capire perché c’è un legame così stretto,  così forte,  così unico e lei mi ha risposto: “Sì, siamo sempre stati tutti una sola famiglia vera”.

 

 

“Milioni di luce davanti a noi”

Giorni fa, leggendo un tweet di Luca Bizzarri in cui citava la grande performance del Primo Ministro canadese il quale in una scuola aveva spiegato sorprendentemente bene la teoria quantistica a una domanda del tutto casuale, ho trovato alcune simpatiche repliche.

Una di queste era di un ragazzo che testualmente diceva: “Sono stato in vacanza a Toronto, milioni di anni luce davanti a noi”. La cazzata, perché in altro modo non si può definire, ha colto la mia attenzione e ho subito replicato, chiedendo su cosa questa fantastica città fosse così avanti a noi, così futuristica. Il giovanotto ha elencato tre punti: mezzi di trasporto efficienti, senso di sicurezza nel girare per strada e la possibilità di comprare a qualunque ora qualsiasi cosa. Ho concordato sul punto finale e smentito i primi due categoricamente, soprattutto il primo, che lo scorso anno mi ha fatto rimpiangere parecchie volte la metro di Roma e il mondo bizzarro dell’ATAC.

Quanto all’aspetto relativo alla sicurezza, fatico a dargli ragione, perché come ho scritto, la città è piena di sbandati, mediamente inoffensivi ma pur sempre potenzialmente pericolosi come tutte le persone disperate e non esattamente in controllo di se stesse.

Rispetto a Roma, ad esempio, è incredibile il numero degli homeless e di coloro che vivono senza nulla, l’aspetto che risalta ancor di più è che questa gente si aggira prevalentemente in centro piuttosto che lontano da downtown, una tendenza in contrasto con le nostre realtà dove le periferie soffrono mentre in centro si trova uno scenario diverso.

Il ragazzo alla fine mi ha dato ragione, dicendo che questo è ciò che aveva percepito, ma che io vivendo qui, rispetto a lui, sicuramente ne sapevo di più. Considerazione sensata e opportuna, ma che alla fine ha rivelato un aspetto ricorrente e fastidioso, quelle persone che parlano di un posto dopo esserci state solo in vacanza, e che si sbrodolano nel descriverlo come meraviglioso e nel quale vivrebbero, con il classico punto di vista del turista, che non è sbagliato, assolutamente no, ma che è esclusivamente di chi va in un posto per alcuni giorni e vive la città in un solo modo.

Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che è pieno di persone con questo vizio, quello di idealizzare certe posti dopo esserci stati solo di passaggio. Se pensiamo poi al Nord America questa visione si quadruplica, tutti vedono in questo spicchio di pianeta il simbolo dell’efficienza, di qualcosa di molto cool, dove il dollaro attira e la qualità della vita è alta per tanti motivi.

Mi dispiace, ma non è proprio così e sono io il primo ad ammettere che pensavo a questo mondo in un modo e poco dopo ho dovuto ammettere a me stesso che era cosa ben diversa. Di certo, l’efficienza che trovi qui è lontana da quello che uno si aspetta, un esempio facile sono proprio i mezzi di trasporto.

Pessimi, vecchi, con continui guasti, in particolare la metro che si sviluppa su due grandi line (sì, solo due linee) e altri due mini segmenti. Il prezzo di una corsa metro e 3.25 dollari, l’abbonamento è invece 145 dollari, un costo spropositato ed improponibile per quello che viene offerto. I bus vanno, i tram (lo streetcar) hanno una ottima frequenza, alcuni girano anche tutta la notte, ma costano sempre 3,25, sono piccoli e soprattutto camminano in mezzo al traffico seguendo i semafori della macchine, senza aver mai corsie preferenziali, aspetti che in sintesi riducono di molto la loro rapidità.

Qualunque cosa prende tempo, ogni piccola commissione, al supermercato le file alla cassa sono più lunghe delle nostre perché se la prendono comoda, perché ti imbustano la roba, ma soprattutto perché tutti, e dico tutti, pagano anche una Coca Cola con la stramaledetta carta di credito. Il pagamento fatto così, anziché cash, rallenta tutto e la fila si alimenta, a volte ti fa passare la voglia di andare in certi posti, il problema è che non hai scelta anche perché di catene di supermercati qua non ce ne sono duemila.

Tutto costa tanto, spesso il servizio non è adeguato. La qualità non vale il costo, un esempio pratico è internet, sia a casa che sul cellulare. Quello che paghi in Italia per un certo servizio non è paragonabile a quello che ottieni qui.

Cose burocratiche? Che dire, ho richiesto in 11 mesi tre volte la tessera sanitaria che mi spetta e non l’ho mai ricevuta. Ho i fogli a casa, conoscenze all’ufficio dove fare la domanda, ma non se ne esce, un bell’esempio di efficienza burocratica.

E poi, così un po’ random, altra roba tipo gli alcolici che non li trovi al supermercato, li puoi comprare solo in una catena ben precisa LCBO, devi mostrare il documento d’identità, costano cari come l’oro, non dico le birre, ovvio, ma una bottiglia di vino decente è il triplo che in Italia. Non puoi bere per strada, se stai al parco non ti puoi gustare in pace una birra nel mezzo di un pic-nic, hanno divieti e restrizioni che fatico a comprendere e soffro tuttora.

Il valore del dollaro canadese è ridicolo, evito di convertire anche per gioco il mio stipendio in Euro altrimenti mi viene uno scompenso ogni volta. Che altro? Vabbè, la qualità del cibo, il meteo, l’hockey ed il baseball, la gente in generale, è di ieri ad esempio il tentato raggiro di un tizio verso un mio collega riguardo un annuncio per una casa da affittare su internet (tanto per chiarire anche l’aspetto che tutto il mondo è paese), potrei andare avanti altre due pagine ma mi freno.

Mi fermo e sottolineo che non esagero e che non ho nessun motivo nel voler dipingere questo posto peggio di quello che è realmente, ci tengo solo a dare un punto di vista vero, da persona che vive qui da un po’ e che può affermare senza problemi che Toronto non è anni luce avanti a noi in niente. E ribadisco in niente.

Quindi, state sereni che noi non viviamo nel Paleolitico. Fidatevi.

Ogni volta che torno

C’è qualcosa di strano che mi accompagna ormai quando penso a Roma e a casa. Una sensazione veramente difficile da spiegare, che capisco e avverto in prima persona ma che fatico a chiarire, soprattutto se la devo raccontare.

Penso che uno dei danni principali causati da questi ultimi anni in giro, soprattutto l’ultimo anno e mezzo, è la percezione di scollegamento che vivo. Per quanto oggi le distanze geografiche si sono ridotte e la tecnologia ha abbattuto molte barriere mettendoci tutti in contatto senza troppi problemi, esistono ancora situazioni e incastri emotivi che perdurano.

Vivere così lontano e con un fuso orario piuttosto scomodo amplifica certe distanze, migliaia di km che inevitabilmente ti allontanano e ti rendono più distaccato e meno coinvolto. Non è menefreghismo o egoismo, è soltanto che tutto ti arriva in modo diverso, filtrato, e quindi con un peso diverso.

Roma e tutta una serie di cose mi sembrano lontane in ogni senso, quello che succede in Italia anche. È come se fossi sempre meno interessato alle vicende pubbliche quanto magari a cose familiari. Non penso che tutto ciò sia dettato dal fatto che essendo da solo ho già abbastanza problemi e situazioni da dover affrontare, è solo che alcune vicende nemmeno mi sfiorano, ma allo stesso tempo so che se fossi lì avrebbero un peso diverso.

Esserci o non esserci fa tutta la differenza del mondo, la verità è questa, e la lontananza distorce il tuo interesse, modifica l’emotività ed il tuo coinvolgimento.

Ogni volta che torno a Roma sono sempre braccato da due sensazioni: il naturale piacere, l’entusiasmo di tornare a casa e di sentirmi a casa in tutti i sensi, così come una strana forma di timore, vedere che durante la mia assenza magari è cambiato qualcosa, soprattutto in senso negativo, anche semplicemente cogliere qualche ruga in più nel volto di qualcuno.

Questo timore è il riflesso del fatto di non esserci stato e del renderti conto come in fondo, quel mondo che ti appartiene, ma che più che altro ti è appartenuto, va avanti senza di te e prosegue, come è normale e giusto che sia.

Quel mondo appunto, già in passato mi è capitato di dire che c’è una sensazione in fondo che mi infastidisce, ossia il non sentirmi più pienamente o in un certo modo a casa a Roma, e tanto meno dove sono attualmente. Per quanto la mia vita sia qui, il mio mondo di riferimento rimane quello, eppure non mi sento centrato al 100% in nessuna delle due realtà.

Non so se sia una conseguenza di un graduale distaccamento, di un passaggio esistenziale, di una normale conseguenza della vita, non lo so, e non lo riesco a capire, di fatto avverto questo non avere patria e non sentirmi più legato in un certo modo.

Non è tanto un discorso di sentirsi italiano e di patriottismo, tutt’altro, è proprio non avere più quella sintonia con un luogo come hai avuto per la stragrande maggioranza della tua vita.

Credo che l’essere di passaggio e il non aver tempo per riabituarmi incida, lo scorso anno, solo dopo qualche mese, mi sono sentito a casa, però c’è un qualcosa che non torna più come vorrei e il discorso mi urta inevitabilmente. Sostengo infatti che non sia un caso che quando penso al dopo Toronto, non penso a Roma, non è il posto in cui vorrei tornare se avessi scelta. Almeno non ancora, e non ora. Capiterà, ovviamente, e magari sarà il momento per risintonizzarmi su quella frequenza.

Intanto ci torno, per alcuni giorni. Poi, vediamo.

L’intervista. Con un taglio discutibile.

No, per carità, non c’è nessuna auto celebrazione, figuratevi, anzi. Sì, è per dare più che altro ragione a mia mamma e mia nonna che si oppongono ogni volta alla mia idea di andare dal barbiere. Ecco, voglio riconoscere loro, in questa occasione, l’onore delle armi. Diciamo che la parrucchiera indiana di Dundas Street si è fatta prendere la mano, io volevo tagliarmi i capelli per andare a Gerusalemme, lei ha esagerato,

E vabbé, non sono bello, scusate. Ma il postare questa intervista è una ammissione di colpa e un prendermi le mie responsabilità. Io, onestamente, non mi sarei mai mandato in onda.