La mia estate – “Vedi Catto quanto è facile?”

Ci sono un altro paio di cose che devono essere menzionate per chiudere il discorso relativo a luglio. Non è solo il mese delle figure citate nel post precedente perché assume una particolare centralità anche grazie ad un altro paio di fatti. Il primo, apparentemente superficiale, è invece molto importante.

Sono sempre stato un grande camminatore, uno di quelli in grado di coprire distanze oggettivamente molto grandi anche in ambito cittadino. Passeggiare, anche da solo, mi è sempre piaciuto, penso di essere un buon compagno di viaggio pure per questa ragione: cammino, vado, non mi lamento e se posso a volte evito anche di prendere i mezzi, probabilmente perché sono abituato a pensare che non funzionino mai troppo bene.

Anche a Toronto, soprattutto da quando vivo in centro, mi muovo solo a piedi e la cosa mi piace tantissimo. Eppure, dopo una passeggiata che si rivela un po’ troppo lunga, ossia 4,8 km per raggiungere il “Ragazzo d Versailles” in spiaggia, decido di comprarmi la bicicletta. L’idea mi aveva accarezzato diverse volte grazie alla bella stagione e alle tante persone che qui si muovono pedalando, ma alla fine avevo sempre lasciato stare. La scarpinata di metà luglio però mi convince definitivamente che una bici, anche la più economica, potrebbe risolvermi qualche problema e facilitarmi un po’ di cose.

Accantono l’idea dell’usato e alla fine al classico mega-store con 112 dollari, tasse incluse, mi porto a casa una bella mountain bike che pecca soltanto per i suoi colori, ossia un po’ troppo rosso su una base praticamente tutta nera.

L’acquisto mi esalta oltremodo e mi riporta indietro negli anni, all’infanzia, e ai giri in bici per il quartiere. Inizio a perlustrare le vie con la ciclabile, ma soprattutto volo verso il lago con una facilità impressionante, stesso discorso per il Crocodile il venerdì o per tutti gli altri impegni, escluso il lavoro.

La spesa di fatto la ammortizzo subito, non prendo i mezzi nemmeno per sbaglio, ma soprattutto risparmio tempo, tanto tempo, e sono ovunque nel giro di 15-20 minuti.

Con la mia spalla iniziamo a dominare l’asfalto con le nostre due ruote, io torno invece a ingaggiare duelli in mezzo alla strada portando la bici con la stessa arroganza del classico conducente di un motorino nel traffico di Roma.

Sbraito, fischio, passo in mezzo alle macchine e mi piazzo sempre davanti a tutti in attesa del verde al semaforo. Mi sento a mio agio e intanto riscopro il piacere e la liberta della bicicletta anche grazie alle tante ciclabili che si snodano per tutto il centro, aspetto affiancato anche da una cultura stradale diversa e una particolare attenzione degli automobilisti verso il ciclista di turno.

Mentre questo acquisto fa decollare definitivamente l’estate come mai avrei pensato, riesco finalmente ad apprendere l’ultimo dettaglio che mi mancava nella ricostruzione della vicenda relativa alla mia “Compagna di banco” e alla sua love story.

Tornando da una partita, un martedì pomeriggio di luglio, proprio come avevamo fatto quella volta a fine aprile, quella famosa volta, le chiedo come era nata questa sua relazione. La pura realtà è che voglio togliermi questa curiosità e glielo chiedo.

La risposta è bizzarra, ma di fondo è anche l’unica plausibile nella stranezza del fatto. Le ricordo l’episodio di aprile e di come avevamo incontrato questo ragazzo, ma soprattutto il loro modo di salutarsi piuttosto freddo e non così sciolto. Lei allora mi confessa che il giorno dopo a quell’incontro lui le aveva scritto e da lì in poi avevano iniziato a parlare, fino al punto di vedersi per la prima volta per conoscendosi da un paio di anni.

Tutto inizia così e si sviluppa rapidamente con grande entusiasmo e reciproca attrazione. Capisco eventualmente la sua di lui verso lei, meno quella della mia “Compagna di banco” nei confronti del personaggio, ma questo è un classico.

Ci salutiamo, e mentre faccio il pezzo di strada mancante per andare a casa penso due cose. La prima è la seguente: “Vedi Catto quanto è facile? Cioè, due si conoscono, a volte sono usciti insieme in un gruppo più allargato, poi si incrociano per caso un martedì pomeriggio in mezzo alla strada, uno comincia a scriversi e poi è tutta una normale conseguenza. Una cosa semplicissima”.

La seconda invece è diversa e mi riporta al concetto di sliding door. Sì, perché se è vero che il 7 aprile io la invito, lei dice di no, entro in un baratro emotivo e tutto sta storia che sto scrivendo inizia lì, allo stesso tempo sono convinto che a un punto, poco dopo, qualcosa stava cambiando. Credo questo e ne sono abbastanza convinto ripensando anche a quella conversazione avvenuta pochi minuti del suo incontro all’incrocio.

Per un po’ mi domando cosa sarebbe potuto succedere se fossimo passati per la strada normale anziché deviare il percorso perché lei doveva comprarsi qualcosa per cena, un qualcosa che poi nemmeno trovò. Non lo so, forse niente, forse sì.

Oggi magari starei qui a scrivere una cosa diversa, o magari nulla, eppure io so bene che è meglio così, nel senso che lei un regalo enorme me lo ha già fatto, rifiutando un cazzo di bicchiere di vino e nemmeno lo sa.

Forse non lo saprà mai, io invece l’ho scoperto settimana dopo settimana nel corso dell’estate e ancora oggi sono pienamente consapevole che la storia ha preso la piega migliore anche se ad aprile, naturalmente, non ero dello stesso avviso.

Penso più o meno tutto questo mentre sono ormai a casa in attesa dell’ascensore e mi viene in mente una poesia di Rainer Maria Rilke. Precisamente questa qui…

 

 

Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore
e cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.

Non al secondo anello verde

Ho sentito abbastanza e letto fin troppo di una storia chiara e con responsabilità evidenti, motivo per cui credo sia in fondo anche difficile ricamarci sopra.

Nella vicenda Icardi-Inter-Curva ci sono alcuni verità incontestabili come le seguenti ad esempio.

Punto uno

Come si può scrivere una biografia a 23 anni? È evidente che stiamo parlando di un qualcosa di fuori luogo per temi e contenuti. Può essere una scelta pubblicitaria o economica interessante, ma il personaggio in questione fa la figura dello sciocco, poiché chiunque si sarà domandato: “Ma cosa avrai già da raccontarci?”. Il capolavoro letterario è quindi oggettivamente insensato.

Punto due

La società ha notevoli responsabilità su questa vicenda. Non ha vigilato in modo adeguato. Se nessuno sapeva che Icardi era in procinto di rilasciare una propria autobiografia è colpa dell’Inter. Ultimamente si sono incontrati spesso considerando le trattative di rinnovo ma è evidente che l’opera non è mai stata menzionata. Un libro del genere per forza parlerà di Inter, società per la quale il giocatore è attualmente tesserato. Il club avrebbe dovuto controllare ma non è successo. Male, anzi malissimo. Se nessuno sapeva non è una valida giustificazione. È superficialità. Icardi rimane il colpevole principale, l’Inter segue a ruota. Ora non so se qualcuno abbia buttato un occhio su quella di Zanetti tre anni fa. Non lo so, è pur vero che sul capitano storico, conoscendo il livello morale della persona, magari la tentazione di non controllare nulla c’è stata.

Punto tre

Appurato tutto questo e additati i responsabili con le dovute colpe, subentra la Curva.

La Nord viene additata nel passaggio del libro contestato in modo chiaro. La ricostruzione non sembra perfetta ma in realtà è un dettaglio. Sì, perché in fondo ci interessa relativamente stabilire chi era stato più cattivo in quel pomeriggio di Reggio Emilia, se i tifosi o Icardi stesso. Resta un fatto, il contentino di dare la maglia a un bambino, in quel contesto specifico, profuma di paraculata ma la storia finisce con uno scontro verbale accesso. Bello, brutto, giusto o sbagliato, è un episodio. Un confronto. E potrebbe finire tranquillamente lì.

Il problema invece è quello che viene raccontato nelle righe successive alla descrizione del misfatto. Icardi, parlando a non si sa chi, dice di far recapitare agli esponenti della Curva un suo messaggio e minaccia gli ultras nerazzurri. Nella sua versione sono infatti colpevoli di aver tolto la maglia al bimbo, e dice loro che a lui non costa nulla far arrivare dei criminali dall’Argentina per ammazzarli tutti. Il paragrafo termina con Icardi stesso che ammette di aver detto frasi offensive e esagerate.

Il fatto, datato febbraio 2015, non passa inosservato dai tifosi più accesi e non mi sento di condannarli. Al di là della ricostruzione, che per la Curva oltretutto non corrisponde al reale ma tenta di mettere in cattiva luce i tifosi, il problema consiste nella rivelazione delle minacce. Chiunque si sentirebbe toccato, o almeno infastidito da certe frasi. Anche il signore del primo anello rosso avrebbe una minima reazione se Icardi arrivasse a dire (esempio fantasioso): “Quelli mi fischiano sempre, li faccio ammazzare”

Magari il signore la farebbe finire lì, iniziando a considerare il 9 argentino un personaggio discutibile. La Curva invece la pensa diversamente e risponde.

Nel primo comunicato, con toni decisi ma mai volgari (il “pagliaccio” alla fine non mi sembra da catalogare come un insulto così offensivo) si espone la versione dei fatti della Curva e si lancia un appello: togliere la fascia da capitano al centravanti. Punto.

La Curva ha tutto il diritto di replicare su una questione nella quale viene tirata in ballo e su questo non penso si possa discutere. L’indomani però, giorno della partita, Icardi viene bersagliato dalla Nord. Una reazione facile da immaginare, i toni si inaspriscono, nel frattempo la partita inizia in un clima che non è certamente il migliore. Prima della gara invece, Zanetti si esprime a nome della società e annuncia provvedimenti, ma non potrebbe fare diversamente. Avrebbe potuto aspettare? Sì, ma non mi sembra questo il problema. Zanetti, anticipando una punizione a Icardi, ammette di fatto la colpa della società e la mancanza del club. La domanda a questo punto è anche un’altra: tutto ciò succede solo perché la Curva chiamata in causa reagisce e porta all’attenzione popolare il problema? Probabile. Rimane il fatto che la Curva fa da megafono, ma di nuovo, il problema non è questo. L’aspetto principale è quanto sia inopportuno tutto quello che si riconduce a Icardi. La biografia, cosa racconta, il rivangare vecchi episodi aggiungendo dettagli che indubbiamente avrebbero comunque causato dei dissapori.

L’Inter intanto gioca una partita mediocre. Sufficiente nel primo tempo, inammissibile nella ripresa, soprattutto dopo il gol. Perde meritatamente per quello che ha fatto durante i 90 minuti, non per il clima che magari non ha aiutato ma che ha pure una percentuale bassissima nella figuraccia nerazzurra. Spostare l’attenzione sul contesto o additare qualcuno come colpevole dell’insuccesso casalingo significa non voler riconoscere i problemi e le difficoltà tecniche e tattiche di una squadra in totale confusione.

La polemica non finisce, Icardi che ha sbagliato anche un rigore (forse condizionato? I numeri dicono anche che ne ha sbagliati 3 negli ultimi 4, quindi forse non è proprio un rigorista infallibile) rimane sul banco degli imputati. Il lunedì in un faccia a faccia di 70 minuti con la dirigenza non gli viene tolta la fascia ma viene multato. In più, in occasione della ristampa si impegna a modificare o addirittura a togliere (non è ancora chiaro) le pagine incriminate. Una scelta all’italiana, così, inutile e insensata visto che la bomba ormai è scoppiata e di danni ne ha fatti fin troppi.

La Curva nel frattempo rimane della propria posizione e delegittima simbolicamente Icardi che non sarà più considerato il capitano. Fine della storia.

Ho letto molte critiche alla Curva, colpevole di aver creato un clima da “guerra civile” e di non aver supportato la squadra. Mi pare una considerazione non obiettiva. Dare la colpa alla Nord mi sembra sbagliato anche solo per un motivo.

San Siro nella sua lunga storia ha distrutto a livello mentale ed emotivo decine di giocatori con mugugni e fischi e sappiamo bene che chi si infastidisce al primo tocco sbagliato non è certo il ragazzo che sta in curva, ma qualcuno che si siede nei restanti tre quarti del Meazza. Ora, condannare la Curva come colpevole del mancato sostegno mi sembra assolutamente folle. Non esistono “tifosi più tifosi” degli altri, ma di certo delle 800 persone che erano a Praga tre settimane fa per vedere una figura vergognosa, molti erano della Curva e non del primo anello arancio o rosso, o quelli che stanno davanti alla tv sempre (e per scelta) e si permettono oggi di accusare la Nord.

L’estremo sostegno della Curva, così come le meravigliose coreografie sono da anni un vanto per tutti i tifosi interisti. La Curva è stata condannata in passato per tanti episodi scellerati che tutti ricordiamo, additarla ora, per un fatto del genere, dopo che un ragazzo racconta delle sue minacce verso certa gente, a me sembra ingiusto e anche inappropriato.

Non devo difendere nessuno, non mi va e non ho interessi. L’unico che ho è il bene dell’Inter. Icardi non mi fa impazzire, ne come giocatore e ancor meno come personaggio pubblico, il teatrino estivo per il rinnovo è stato rivoltante ma nessuno gliel’ha fatto pesare e qualche ragione in tal senso ci sarebbe anche potuta stare. Se segnerà sarò felice, se andrà via domani non sarà un problema e non ne sarò di certo addolorato.

A me interessa l’Inter e che la mia squadra vinca, e in questa storia, onestamente, prima della Curva, ammesso che poi abbia veramente delle colpe, i responsabili vanno cercati altrove.

Ma non al secondo anello verde.

La mia estate – “Dentro o fuori. Rapidi”

Se dovessi sintetizzare il mese di luglio penso che potei usare 3 nomi ed un concetto che consiste in un primo cambio abbastanza epocale per me, un modo di fare sviluppato in tempi anche piuttosto rapidi e che ha dato un’altra dimensione alla mia estate.

Prima di tutto questo però, finisce l’Europeo e mi ritrovo nella strana situazione di dover decidere se voglio veder l’atto conclusivo con i francesi o con un portoghese. Opto per il mio amico di Viseu anche perché poi so che non sarei felice di ritrovarmi nei festeggiamenti transalpini.

La mia scelta però non mi agevola, perché la “Ragazza di Richemont” mi chiede di raggiungerla in un bar del centro per vedere la finale insieme. Ho già dato la mia parola, ed in più sono stato invitato a casa a pranzo per la partita da due persone alle quali sono particolarmente legato, per cui devo dirle di no, ma non mi dispiace, aggiungo anche che mi unirò a lei a fine gara, verosimilmente per i festeggiamenti.

Il calcio è magnifico anche perché regala storie come questa, il Portogallo infatti fa l’impresa, cancella la delusione del 2004 e vince un titolo ampiamente immeritato. Tutto questo inevitabilmente non fa il mio gioco e so che la persona che andrò ad incontrare non sarà proprio ben predisposta ma è un altro segno evidente di come debbano andare le cose.

Insieme a lei e c’è anche una sua amica, passiamo un’ora in un sport-bar del centro e poi ci dirigiamo verso Union Station dove lei deve prendere il treno per tornare a Burglinton, quello che avrei dovuto fare io alcune settimane prima. Mentre siamo su una panchina in sala d’attesa mi dice che nel giro di due settimana verrà a trovarla la cugina, o meglio the Goddaughter, una ragazzina di 15 anni che passerà da lei tre settimane e sarà in Canada fino a metà agosto. Capisco in un attimo che è il terzo indizio che sbarra la strada, perché un impedimento del genere complica veramente tutto. Prende il treno, ci salutiamo e so bene, mentre rincaso, che la situazione è compromessa ormai al 99%.  “Il ferro va battuto finché è caldo” dico al “Ragazzo di Versailles”, pur essendo consapevole che invece è iniziata una fase di raffreddamento sulla quale sarà difficile intervenire. Nel frattempo però, nelle settimane di assenza della mia spalla, ho continuato a frequentare il Crocodile e lì, per la prima volta si è palesata nel gruppo una nuova ragazza mai vista in precedenza. Scoprirò più avanti che nell’unica sua presenza al venerdì, io ero a Roma. È bella, anzi, molto bella, un gradino sopra tutte le altre che vediamo ripetutamente. Mi annoto il nome mentalmente e pochi giorni dopo al rientrante “Ragazzo di Versailles” chiedo informazioni a tal proposito. Diventa subito “Sonia Ibrahimovic”, giocando sull’origine del suo cognome slaveggiante anche se è di Lille e nei Balcani non ci ha mai messo piede.

Sembra essere in rotta di collisione con il ragazzo, in realtà poi saprò che si è appena lasciata, una concomitanza apparentemente utile. Inizia ad essere più presente al bar e questo ci dà modo di parlare un po’ di più. Diventa un motivo di interesse per quanto mi riguarda, ma capisco dopo un paio di volte che qualcosa non quadra. Ancora oggi infatti credo di essere bravissimo nella lettura di alcune situazioni, nel percepire in anticipo o rapidamente alcune dinamiche, venerdì scorso è stato un esempio lampante di questa mia capacità.

Il problema, e da anni me lo imputa il “Ragazzo di Hong Kong”, è che non ho lo stesso spunto nel captare le situazioni positive. È un limite, lo so, ma intanto mi tengo l’abilità che ho e gli ho promesso che prima o poi svilupperò anche il restante 50%.

Tuttavia, al mio referente asiatico, un sabato sera mentre sto per andare a una festa nei pressi di Pape Station gli dico che ho intenzione di accelerare la manovra con Sonia Ibrahimovic, garantendogli un “dentro o fuori rapido”, ma qui devo aprire una parentesi.

Fossi stato un giovane inglese di fine Ottocento sicuramente avrei fatto parte della Società Fabiana. Ora non tutti vi sarete laureati due volte in Storia della Gran Bretagna e quindi questa frase la devo spiegare, semplicemente perché custodisce una dimensione mia personale importante.

Wikipedia che sa più cose di tutti noi messi insieme, la definisce così:

“Il Fabianesimo (detto anche Fabianismo), è un movimento politico e sociale britannico di ispirazione socialdemocratica, nato alla fine del XIX secolo e facente capo alla Phabian Society, associazione che fu istituita a Londra nel 1884 e che si proponeva come scopo istituzionale l’elevazione delle classi lavoratrici, per renderle idonee ad assumere il controllo dei mezzi di produzione. Prese tale nome in quanto si avvalse sempre di una tattica gradualistica e temporeggiatrice che ricordava, sotto alcuni aspetti, la politica militare di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, che nella lotta contro Annibale e i suoi cartaginesi si avvalse di una strategia attendista di lento logoramento, che permetterà a Scipione l’Africano di battere il nemico nella battaglia decisiva, nonostante le molte sconfitte subite”.

Ecco, io non sono certo Quinto Fabio Massimo, ma ho sempre avuto questo enorme difetto di temporeggiare, aspettare, tergiversare, attendere, guardare, capire, razionalizzare, riflettere, analizzare, pensare, senza poi essere un vincitore come lui. L’aspetto inspiegabile è che questa attitudine l’ho sempre avuta solo ed esclusivamente in un ambito, quello relazionale, visto che in tutto il resto sono decisionista, intraprendente e non aspetto granché.

Questo modo di essere in verità è sempre stato un limite, un problema enorme. In primis per il tempo perso concretamente, e poi perché quando si attende e si aspetta a lungo, si idealizza, si creano pensieri e sovrastrutture sbagliate, ci si immerge in gineprai del tutto privi di senso e di aiuto. Il concetto del “dentro – fuori” in tempi rapidi diventa una sorta di conquista di assoluto valore, un cambio di atteggiamento, un passo che mi accingo a fare nuovamente e stavolta ancora con maggior enfasi del caso della “Ragazza di Richemont”, con “Sonia Ibrahimovic”.

Prima di questo però, venerdì 22 luglio, irrompe uno dei personaggi che si rivelerà importante soprattutto successivamente. Quando la serata al bar è ormai decollata, spunta la “Dama Nera”, amica di diverse persone lì presenti ma che io non ho mai visto prima. Ho le spalle al muro sotto al televisore che trasmette il baseball e lei viene da me. Ci presentiamo, quando esplicito la mia provenienza “Rome, Italy” ottengo come sempre una felice reazione e lei mi comincia a raccontare la sua lontana origine legata al mio paese.

La “Dama Nera” ci sa fare. Questo è quello che penso mentre mi parla di Carbonara ed Eros Ramazzotti. Ha un passo diverso dalle altre, sia da quelle che la circondano che da quelle viste passare precedentemente sul palcoscenico. Ha un fascino diverso, un modo che ammalia e si percepisce che lo sa bene, ne è pienamente consapevole. I 31 anni che sta per compiere le conferiscono un’aria e uno charme difficile da spiegare. Mentre vado al bagno un attimo, a voce alta continuo a ripetermi: “Eh questa se schiera, eh come se schiera…” poco dopo infatti, da donna consumata, inizia a giocare, e a provocarmi parlandomi di “Sonia Ibrahimovic”.

Avrò bevuto 3 o 4 doppi Cuba Libre ma sono sufficientemente lucido per capire e difendermi in modo adeguato, sfuggendo alle trappole che comincia a piazzarmi ad ogni frase. Una delle quali è più o meno: “Io lo so che ti piace lei, se vuoi posso aiutarti…”

Capisco quanto sia demoniaca nel frangente specifico, ma la spiazzo, so bene che sta giocando una tattica ed io non le presto mai il fianco. Lei provoca e io non mi scompongo. Le chiedo come faccia a sapere certe cose, oltretutto errate, e lei ribatte che si nota, altra frase buttata con lo scopo di far saltare qualcosa, le dico di no e si va avanti così per un pezzo.

“Matteo you can not handle me” mi dice. La fisso e le scoppio praticamente a ridere in faccia. Cerca di incartarmi con le parole e la cosa è divertente, fin quando in italiano esclamo: “Ma che ne sai de che ho dovuto maneggià io…” accompagnata dalla gestualità tipica italiana.

Scendiamo di sotto a ballare e mentre la guardo, mi prende gli occhiali da sopra la testa, si diverte un po’, poi con la scusa di uscire fuori per fumare, sparisce e se ne va. Fantastica. Per me ha già vinto tutto.

Riordino intanto le idee e aggiorno la mia classifica personale nella quale “La Ragazza di Richemont” scivola in fondo, in modo inevitabile, io nel frattempo faccio una cosa rara, ossia aggiungo la “Dama Nera” su Facebook, così come avevo aggiunto “Sonia Ibrahimovic”, le uniche due persone a cui ho mandato una richiesta. Un dettaglio che però qualcosa significa.

Non agirò su entrambi i tavoli, ma all’improvviso sono spuntati due personaggi dal peso specifico notevole che mi spingeranno a giocare il “dentro-fuori” rapido. Eppure la scoperta più importante, non sarà questo approccio, e nemmeno l’esito successivo, ma la gestione del dopo, del post.

Probabilmente la vera vittoria personale dell’estate del 2016.

La mia estate – “Allora, ho visto i treni per Burlington…”

Ad inizio 2016, parlando con la Bionda, le dissi che questo anno sarebbe dovuto essere, almeno così lo prevedevo, per forza di cose, assestante. Recentemente ho dovuto correggere il tiro e l’ho definito didascalico. Questa estate è stata infatti ricca di insegnamenti, importanti o banali, ma tante piccole cose mi hanno evidenziato in molte circostanze la realtà dei fatti. Un esempio è la “Ragazza di Richemont”.

C’è poco da fare, uno ci può mettere tutta la volontà del mondo, ma se le cose non devono andare non vanno. A volte infatti, penso che impegnarsi sia importante ma quando il tutto non dipende da noi, bisogna anche lasciar stare la situazione, sedersi un attimo e vedere il flow. Tutto qui, perché poi si sviluppano dinamiche su cui non abbiamo semplicemente voce in capitolo.

Prima di arrivare però a questa beffa, una delle tante targate estate 2016, il 10 giugno inizia l’Europeo che suscita in me qualcosa di nuovo e mai vissuto, ossia lo smisurato ed estremo senso di appartenenza, di vibrante patriottismo che si prova quando c’è la Nazionale ma si vive fuori.

Mi piacciono le cause perse, gli under-dog, le sfide in salita, per questo l’Italia di Conte mi attira e in breve tempo mi trascina, anzi, sono uno dei pochissimi che crede in questo gruppo.

Mi invento qualunque cosa per vedere la partite degli Azzurri che capitano sempre in mezzo alla settimana e per via del fuso in orari lavorativi. Passiamo agevolmente il girone e nel frattempo la colonna scelta da Sky, “Happy” di Luca Carboni diviene la mia sigla mattutina, la prima canzone che parte dal mio I-pod mentre cammino verso l’ufficio.

Nel frattempo l’appuntamento del venerdì al Crocodile inizia a raddoppiare. Infatti se il venerdì si può bere liberamente fino alle 22, il mercoledì non c’è questo limite ed il prezzo di 2,50 dollari vale fino alle 2. Il caldo, il patio, ma soprattutto il gruppo di persone che raggiungono me e il mio compare diventa intanto sempre più grande. Il livello di aggregazione raggiunge vette notevoli, viene creato un gruppo su Facebook che in breve tempo conta 28 persone, tutte quelle che puntualmente si radunano intorno i tavoli del Crocodile. Occupiamo larghi spazi generando una discreta caciara ed è decisamente bello e divertente.

Parte di questo gruppo è francese, molti sono amici diretti del “Ragazzo di Versailles” ed in alcuni momenti mi sento uno dei protagonisti di Ritals, una simpatica web serie sugli italiani a Parigi. La frequentazione diventa assidua e noi non saltiamo un appuntamento, ma a proposito di Francia, contatto la “Ragazza di Richemont” che non vive a Toronto, ma a Burlington e lavora a Hamilton. Un po’ come se io vivessi a Roma, lei a Fiuggi ma ogni giorno deve raggiungere Frosinone per andare in ufficio. Il problema non è certamente quello delle distanze, i due weekend successivi alla nostra conoscenza lei è impegnata: con un farewell party prima e poi con un music festival per il quale aveva preso i biglietti da tempo.

Il tempo passa e conoscendo come vanno storicamente per me queste cose, si insinua nella mia mente uno strano senso di beffa. Vecchi retaggi mentali tornano a galla seppur con meno vigore, quando decidiamo di vederci fissiamo l’incontro per sabato 18 giugno. Io decido di andare a Burlingotn, e già l’idea di andare in trasferta, con il treno da Union Station mi esalta forse tanto quanto l’uscita perché rimango fondamentalmente un esaltato che vive di metafore.

La mattina così mi sveglio, controllo per bene gli orari dei treni, mi segno i due più adatti e le scrivo. La risposta però, non è delle migliori, perché nel frattempo la ragazza ha deciso di andare in Portogallo una settimana per raggiungere i genitori che sono sbarcati in terra lusitana da poche ore. L’improvvisa voglia è incontenibile, e mentre si scusa in tutti i modi prepara la valigia. Qualche ora dopo mi comunica che sta andando all’aeroporto e che tornerà otto giorni dopo, promettendomi che rimedierà. Non posso fare altro che prendere atto del tutto, augurarle buon viaggio, imprecare per ore contro il destino cinico e baro e vivere il mio sabato in modo totalmente diverso.

La beffa non mi sorprende, ma mi irrita. Non sono infastidito per come sia andata, ma per come vadano puntualmente certe situazioni che a volte sfondano il muro del credibile. Mi metto l’anima in pace ma con un po’ di difficoltà. Intanto teniamo il ponte radio accesso malgrado le cinque ore di fuso ed il wi-fi che non può soccorerla costantemente.

In tutto questo, mentre la “Ragazza di Richemont” si aggira per Lisbona, io perdo anche la mia spalla, poiché il “Ragazzo di Versailles” torna in Europa per tre settimane di vacanza. L’attenzione si sposta così su Italia – Spagna ma soprattutto sulla Partita contro la Germania in scena sabato pomeriggio 1 luglio. Per la prima volta, grazie anche all’orario, decido di andarla a vedere a Little Italy, non tanto per condividere l’atmosfera con gli emigrati ma per trovare qualche italiano vero. Sono 120 minuti di noia e sofferenza, io sono invece sempre più infastidito dai finti italiani da cui sono circondato. Sì, i nipoti di chi è venuto qui nel secondo dopo guerra e che guardano la partita vestiti di azzurro ma gridano in inglese. Avverto uno strano sentimento, in primis quello di essere il tifoso con la T maiuscola ma anche come uno di quelli più coinvolti perché io so ad esempio cosa significhi la Nazionale in Italia e soprattutto la partita contro la Germania.

Al gol tedesco, la reazione rabbiosa si sfoga contro questi italoidi che sembrano disperarsi ed io inizio a mandare affanculo chiunque, issandomi sul gradino di colui che ha il diritto di essere più arrabbiato. Continuo a ripetere “Ma che cazzo ne sapete voi!?” e forse ho ragione, perché al pari di Bonucci la mia esultanza è ben altra roba rispetto alla loro. Mi tremano le costole per due minuti a forza di gridare e la cassa toracica mi fa male per quasi tutti i supplementari. Dietro di me intanto si è posizionato un giovanotto che sostiene la Germania pur non essendo teutonico.

È con la ragazza, ma da un commento a mezza bocca, oltre tutto sul fallo del rigore l’ho sgamato e penso: “Hai scelto il posto meno adatto, bello…” Dopo il gol del pari, capisce chi ha davanti e si allontana di qualche passo per salvaguardarsi. I rigori sono uno stillicidio raro, il finto tedesco accenna ad esultare, quando sbagliano loro e noi rimaniamo a galla io sono già da un pezzo in piedi su una ringhiera di un ristorante e mi tengo ad un palo di sostegno della copertura esterna, un palo che tento di sradicare diverse volte preda di una rara trance agonistica. Resta il fatto che la roulette gira sul bianco e non sull’azzurro. Vincono loro, il pupazzo dietro di me esulta, io mi giro per aggredirlo immediatamente, non tanto per la vittoria ma perché è un deficiente visto che in una città enorme e internazionale come Toronto ha deciso di vedere una partita del genere a Little Italy. Una pizza in faccia se la merita, se l’è guadagnata direi.

Scappa, faccio per corrergli dietro ma è andato ormai, realizzo che sto facendo una stupidaggine, anzi una cazzata vera e propria, cambio direzione e prendo la strada verso casa. L’amaro in bocca è enorme, abbiamo sognato un po’, ma ora c’è spazio solo per una cocente delusione.

Mi rintano in quella tanto familiare idea che tutto stia andando male e soprattutto allo stesso esatto momento. Fortunatamente però, la sensazione ed il tunnel mentale in cui sono entrato sono piuttosto brevi rispetto al solito, ma anche questo, in fondo, non è proprio un caso.