La mia estate – “Forse non sono stato chiaro…”

La mia prima settimana tornato a Toronto coincide con l’ultima in Canada della “Ragazza di Woodbridge” pronta invece a fare la rotta inversa per trascorrere un anno a Roma. Giovedì 19 maggio mi trovo cosi per l’ultima volta a viaggiare verso il nord della città, stavolta però, non mi fermo come di consueto alla stazione metro di Wilson ma proseguo fino a Yorkdale, dove si trova uno dei più grandi centri commerciali di Toronto. È il momento dei saluti e degli in bocca al lupo. So bene che la sto per vedere per l’ultima volta, ne sono pienamente consapevole e di fondo ne sono felice. Mi è chiaro che la sua partenza sarà soltanto un bene, poiché è diventata per forza di cose un personaggio che genera più problemi e fastidi che altro. Allontanarla non è stato sufficiente, serve che lei se ne vada dall’altra parte del mondo, nella mia città, proprio come un anno prima, due giorni dopo che l’avevo incontrata.

Una settimana dopo, su questa replica della vicenda Fermata datata 2008-09, si pone però una pietra tombale. Sì, perché la ragazza inavvertitamente sbaglia a dire qualcosa, o meglio, fa saltare stupidamente un altarino che la smaschera nella sua pochezza, palesando il suo infinito egoismo. È lunedì, sono appena tornato dalla spiaggia dove sono stato per la seconda volta e in una conversazione su Whatsapp (che intanto ho reinstallato…) la sistemo rapidamente e le chiedo cortesemente di non cercarmi più. Inevitabilmente la questione mi accompagna per giorni, più che altro per il fastidio e il rendermi conto della bassezza di certa gente. Mi autocondanno a posteriori per il tempo datole in modo immeritato per diversi mesi ma evito anche di andare oltre. So molto bene che è una lezione importante, dal valore smisurato. La voglio vedere cosi, e me la tengo in tasca. Il risentimento svanisce in modo piuttosto rapido, probabilmente lo zero a cui si è ridotta in un attimo mi fa passare tutto con velocità inattesa. Il punto esclamativo sulla vicenda lo devo mettere giorni dopo però, in seguito al mio silenzio che lei non recepisce nel modo corretto.

Vengo infatti ricontattato e le rinnovo il mio invito a non scrivermi. Molto elegantemente le dico che non ho tempo per i bambini, quelli stanno fra di loro, e non con gli adulti. Il mio messaggio di risposta inizia con un “Forse non sono stato chiaro…” incipit che ancora fa ridere un paio di miei colleghi. L’infilzata questa volta basta e avanza. La “Ragazza di Woodbridge” sparisce per sempre dal radar, inghiottita dalla vita romana così affascinante per i giovani nordamericani e non riemerge più con mio immenso piacere. So bene, e lo dico oggi, che una situazione del genere attualmente non potrebbe più accadere. È successa come detto praticamente a distanza di sette anni, e ciò significa che se da Fermata in fondo non avevo imparato bene la lezione, un decennio dopo quando le dinamiche si sono fondamentalmente riproposte, non sono stato bravo a mettere le cose sul binario giusto. Ho sbagliato una volta, l’ho fatto una seconda, oggi non succederebbe più. Una delle conquiste di questa lunga storia o semplicemente di questa vicenda è proprio un approccio diverso a certe situazioni, come questa appena menzionata.

Fra i due ultimi nostri contatti però vengo a conoscenza della sliding door incontrata casualmente e non riconosciuta a fine aprile. E sì, giovedì 2 giugno infatti, complice la visita di un nostro collega di Montreal, ci riuniamo in un bar al termine della giornata lavorativa. Ad un punto, in modo casuale e forse inopportuno, esce fuori una conversazione dalla quale capisco con un pezzo dell’orecchio destro qualcosa di molto chiaro. Emerge infatti che la “Compagna di banco” ha iniziato a frequentare qualcuno, anzi, la situazione sembra essere già decollata nel modo migliore. La cosa mi turba, in parte ammetto che mi infastidisce anche. Non riesco a carpire il nome del ragazzo in questione, ne sento uno ma per una serie di ragioni non credo che sia lui l’indiziato. Torno a casa e scrivo immediatamente alla mia “Sorella acquisita” di Toronto e le dico cosa ho appena appreso, anche se in realtà l’aspetto più importante della vicenda è proprio il nome della controparte. Non mi serve molto per capirlo. Ventiquattro ore più tardi infatti è venerdì e andiamo come di consueto al bar. Si proprio quel bar su Adelaide e Duncan, con quel mio collega francese, quello della prima volta. Proprio loro infatti hanno ormai iniziato a essere appuntamenti fissi del venerdì dopo lavoro. Una tappa che ormai inizia a trascinarci in modo tale difficile da poter descrivere e giustificare.

Siamo nel caro e familiare Crocodile quando gli chiedo chi sia il neo-ragazzo della mia “Compagna di banco”. La risposta è abbastanza clamorosa perché il nome è quello che io avevo sentito la sera prima ed escluso a priori. Un personaggio ambiguo a dir poco, molto lontano da lei. Eppure è incredibilmente lui. Mentre sorseggio un doppio Cuba Libre, drink che è diventato il nostro cocktail ufficiale, riavvolgo rapidamente il nastro e la mente mi torna alla sera della prima partita di calcetto. Ripenso a noi due che incontriamo uno all’incrocio, il rapido e freddo saluto fra tutti, mi fermo e mi domando: “Ma come cazzo è possibile? Cioè, quella sera era il 26 aprile, oggi è 2 giugno, ma tutto questo quando e come è successo? Io sono stato a Roma poco dopo per 9 giorni, ma come si è potuto sviluppare il tutto?” La domanda mi accompagna per giorni fin quando mi toglierò il dubbio più avanti, a luglio.

La rivelazione mi turba, ma mi dà una spinta insolita. Una specie di reazione nervosa, non tanto di fastidio quanto di risposta mentale insolita. È la sera infatti in cui conosco attraverso amicizie comuni la “Ragazza di Richemont” con la quale converso amorevolmente. Mi chiede se può aggiungermi su Facebook, acconsento, le chiedo il numero e rimaniamo d’accordo per rivederci presto. Vado a casa soddisfatto e soprattutto mi dò una ideale pacca sulla spalla per come ho ribaltato il mood della serata che era iniziata in salita e con una rivelazione strana, ma che si è conclusa con un atteggiamento ed un piglio ben differente, qualcosa che solitamente non mi è mai appartenuto, soprattutto davanti ad una inerzia palesemente contraria.

Non me ne rendo conto, penso sia una roba capitata casualmente, il risultato o la miscela di un semplice fenomeno di causa-effetto.

Mi sbaglio però, perché invece è l’inizio di un viaggio.    

La mia estate – “Parola d’ordine: retrocessione”

La mia estate inizia un giovedì pomeriggio di aprile, precisamente il 7 aprile, data già presente nel mio immaginario per una vecchia storia dell’università, una surreale conversazione di anni fa fra me, David e il Presidente il quale ci salutò dandoci appuntamento proprio al 7 aprile successivo, data che puntualmente ogni volta ritiriamo fuori.

È ovvio che per “la mia estate” intenda qualcosa di non strettamente legato al calendario e nemmeno al meteo, ma a qualcosa di più personale senza scomodare esistenzialismi vari. Tutto nasce in modo piuttosto accidentale, e si racchiude in un rifiuto, quello che arriva dalla mia “Compagna di banco” che dice di no ad un bicchiere di vino da condividere dopo il lavoro.

 

La storia della mia estate inizia lì, e questa è la storia che proverò a raccontare.

 

Lascio la redazione, cammino verso casa mentre inizia a piovere all’improvviso, fortunatamente il percorso non è lungo e la pioggia è leggera. Varco la porta e mi siedo sul letto, mi addormento nel giro di cinque minuti. Non sono stanco, ma sento una fatica inspiegabile, una cascata di non so cosa mi è caduta addosso, ho un buco allo stomaco e tutto questo si rivela in una stanchezza strana. Mi addormento. Mi risveglio verso l’ora di cena stranito dalla quantità di ore che ho dormito in una parte della giornata non propriamente adibita a quel tipo di attività. Inizio a elaborare quello che è successo qualche ora prima e so bene, fin da subito, che c’è molto di più, molto sta venendo a galla, qualcosa di più antico e sopito ma mai sparito. So perfettamente che quello che è successo certifica la mia retrocessione, un parallelismo che nelle settimane precedenti avevo spesso citato, probabilmente sapevo che qualcosa stava per succedere. Il pomeriggio del 7 aprile è come il gol che arriva da un altro campo e azzera le tue minime speranze di salvezza. Mi sento esattamente così e inizio a ragionare su questo fatto. Sono molto meno lucido del solito, un dettaglio che per forza di cose significa tanto. Considerando l’orario, scrivo al “Ragazzo di Hong Kong”, al quale racconto il fatto, attaccandolo anche ad un certo punto, addossandogli delle responsabilità, parole dette tante volte ma che mai si sono rivelate reali.

Da quel momento in poi stacco tutto in senso pratico e non solo. Disinstallo Whatsapp che mi permette di isolarmi e mi trincero in un silenzio lungo che interrompo con una email soltanto, indirizzata alla Bionda. In quei giorni inizio a prendere coscienza di tante piccole sfumature e diverse realtà. Di base però, non ho voglia di ascoltare nessuno, perché preferisco evitare chiacchiere superflue e frasi retoriche. Entro in una acuta fase di egoismo, inteso come occuparmi proprio solo ed esclusivamente di me stesso. La modalità però mi piace fin da subito.

Venerdì 8 aprile, il giorno dopo, mentre sono al bagno della redazione, un mio collega francese, all’improvviso e senza un motivo valido, in italiano mi dice: “Andiamo al bar”. Rispondo sì senza pensarci, alle 5 salutiamo tutti e ci dirigiamo verso Adelaide e Duncan, in un posto in cui il venerdì fino alle 22.00 ogni cosa da bere costa 2.50 dollari. Uno dei protagonisti di questa storia è anche lui, il “Ragazzo di Versailles” con il quale mi dirigo verso il posto che sarà luogo centrale di questa estate, ma io sono ignaro ovviamente di tutto.

Nel frattempo, l’azione più sensata che mi ritrovo a fare è comprare il biglietto per andare a Roma a maggio. Sono incastrato da una serie di cavilli che mi obbligano ad usare le mie ferie entro il 31 maggio e dopo qualche ora passata a perlustrare su Volagratis diverse destinazioni statunitensi e centro-americane, decido di comprare il biglietto per tornare a casa 9 giorni. La data è il 5 maggio, coincidenza che certamente non mi esalta ma il prezzo è troppo vantaggioso e così lo prendo. Quattro mesi dopo torno a Roma e l’idea si rivelerà più che azzeccata.

Domenica 17 aprile intanto  a Toronto inizia di fatto la primavera, è una splendida giornata di sole, la prima veramente calda che ci spinge ad un brunch per pranzo e a distenderci su un parco davanti casa mia prima di concludere quel week-end con un funerale che riguarda un po’ tutti.

Inizio nel frattempo a giocare a calcetto, la prima partita è a 8, ed è l’ultima di un torneo. Mi diverto molto, riassaporo dopo anni il gusto di infilarmi gli scarpini e tirare due calci ad un pallone, farlo poi così lontano da casa ha un qualcosa di esotico che mi attira. Un mio collega che organizza questi tornei mi chiede se voglio prendere parte a quello successivo che comincia a fine mese, accetto senza esitazioni ed entro a far parte della squadra per un torneo di calcetto di dieci partite che finirà ai primi di luglio. La formula di questa lega prevede però la presenza anche di una donna in campo, una cosa molto canadese. La ragazza in questione, ironia della sorte, sarà quasi sempre la mia “Compagna di banco”, sempre presente da tempo a queste partite.

Martedì 26 aprile c’è l’esordio, perdiamo subito e non gioco nemmeno troppo bene. Durante la gara e dopo, mentre torniamo a casa, la mia “Compagna di banco” dice una serie di frasi strane. Ambigue o comunque insolite per lei. Dovendo fare entrambi lo stesso percorso verso casa, ad un punto mi chiede in modo del tutto inavvertito, prendendo spunto da una conversazione molto generica, di un mio eventuale interesse per una stagista che lavora da noi da qualche mese. Nego tutto, infatti non ho alcun motivo di raccontarle l’assurdo pomeriggio di fine febbraio quando ci sono uscito e lei la sera stessa doveva andare ad incontrare per la prima volta i suoi nuovi suoceri. Sorvolo con grande maestria e andiamo avanti, ma la domanda improvvisa mi spiazza per diverse ragioni e mi fa pensare per la prima volta a qualcosa di diverso, non solo a me, poiché racconterò il fatto ad altre due persone che arriveranno alla mia stessa conclusione. Tuttavia, arrivati praticamente all’incrocio davanti casa sua, ci imbattiamo in una persona di nostra conoscenza, più sua che mia a dire il vero. Due battute e via. Ci salutiamo, lei entra nel suo portone io proseguo per la mia destinazione. In realtà ho appena assistito ad una sliding door, non lo so, non me lo immagino, ma un mese dopo lo capirò in modo casuale e rimarrò molto sorpreso, quasi esterrefatto.

Il giorno dopo esco intanto con una ragazza italiana conosciuta sulla community Internations, quelle realtà virtuali utili a mettere in contatto italiani espatriati. È una serata piacevole, un unicum per certi versi, realizzo come sia bello poter parlare con una persona italiana all’estero. Ci aggiriamo per Little Italy e dopo una pizza, torniamo a casa. Penso che la rivedrò, ci diamo appuntamento per quando tornerò da Roma. Non la rivedrò mai più invece, ma la sentirò un’altra volta perché mi chiederà un aiuto per un suo amico.

La sera prima di partire per Roma, è un mercoledì e la Serie A di basket arriva all’epilogo finale. C’è poco da decidere per le posizioni alte della classifica, tutto invece è da stabilire per la retrocessione e la Virtus dopo un campionato scellerato ne è drammaticamente coinvolta. La domenica prima ho visto la partita in casa contro Torino, prima battaglia per la sopravvivenza, stravinta ma non sufficiente per essere salvi. Tutto si decide a Reggio Emilia in una impresa che appare titanica. La storia è ciclica e mi torna in mente quando nel 1993 la Fortitudo si salvò clamorosamente a Reggio guidata da Alibegovic, in una partita epica. Mi auguro che possa accadere qualcosa di analogo. Non posso seguire la partita perché buona parte della sfida coincide con il consueto meeting del mercoledì alle 3. Lascio la mia postazione con la Virtus davanti nel punteggio di poco. Finita la riunione, mi alzo per ultimo, so che nel giro di pochi secondi aprirò la pagina dei risultati della Lega Serie A e sarà come una roulette russa con la sensazione però che i colpi a vuoto saranno molti meno di quelli che ti fanno fuori. È così, Reggio Emilia vince, la Virtus per la prima volta in 89 anni di gloriosa storia precipita sul campo in seconda divisione. La tristezza e il groppo in gola mi pervadono, parto il giorno per Roma con un peso sull’anima di cui avrei fatto a meno e che mi riporta al terribile biennio cestistico 2003-2005.

La settimana e poco più a casa scivola via quasi senza averne memoria. Incontro subito Andrea ed Aurora, la sua bambina nata il 9 aprile, trascorro più tempo possibile con Alfredo che è la mia priorità suprema dopo il dramma da poco avvenuto. Insieme andiamo anche al “Siviglia” di Fiuggi a trovare David, ritiriamo addirittura la pergamena della magistrale che mette veramente un punto finale e pratico a quel pezzo della mia vita e festeggio in famiglia il compleanno di mio padre l’8 maggio. Torno a vivere la strana ed antica sensazione di rivedere una partita dell’Inter dal divano di casa, poco dopo però mi ritrovo a tirare la zip della valigia per ripartire.

Mi aspetta Toronto ancora una volta ed una lunga estate senza pause, una interminabile corsa che finirà solo a Natale. Una maratona che però mai avrei pensato potesse farmi scoperchiare finalmente dei punti critici bene in vista dentro di me.

Scusate il ritardo. Intanto sono passati 10 anni

Sono rimasto un po’ indietro, forse come non accadeva da tanto tempo. Diversi sono stati i motivi, due quelli principali: gli otto giorni di mio padre qui a fine settembre e l’ultima settimana in cui ho dovuto scrivere come non ne ho memoria. Il solito carico di papiri da riempire con idee e frasi oltre a tre articoli per il prossimo magazine che uscirà prima di Natale.

Onestamente, lo scrivere molto per lavoro mi ha tolto quotidianamente la voglia ed il piacere di aggiornare il blog.

Finite le premesse e le spiegazioni, che diciamo? Settembre se ne è andato velocemente come gli altri mesi estivi, la visita di mio padre è stato una di quei momenti che fra tanti anni ricorderò di Toronto. Peccato per il tempo che soprattutto negli ultimi suoi giorni qui non ci ha dato una grande mano, problema che si è andato a sommare a quelli suoi, cronici, di salute. Potevamo e volevamo fare di più, ma non è stato possibile. Vorrei ma non posso insomma.

Tornando dall’aeroporto, sabato scorso, dopo averlo salutato, pensavo a come questa sua visita qui potesse essere l’emblema della mia Toronto. Quel costante senso di beffa, di presupposti che poi cambiano, di idee e possibilità che sfumano, e la conseguente sensazione di fastidio che poi scaturisce.

Meraviglioso rimarrà il ricordo della domenica a Niagara Falls, posto che merita una visita soprattutto considerando le due ore di pullman e quindi la vicinanza del posto a Toronto. La mia credenza (ma anche il frigo) si è intanto riempita all’inverosimile con pasta, sugo, formaggi, guanciale, un Borghetti, e altre cose random, tipo le rotelle di liquirizia della Haribo.

Otto giorni volati, e ora siamo proiettati verso l’altro super ospite che sbarcherà qui fra una quarantina di giorni.

Nel frattempo ottobre è iniziato e molte volte ho pensato a quello scorso, al Sinodo, a quei giorni, e alla mia contemporanea smania di ritornare qui a un punto. È passato già un anno e sinceramente mi fa effetto. È volato ma è stato pieno, mi sembra lontano ma allo stesso tempo molto vicino, una strana concezione temporale che racchiude diverse prospettive insieme.

Ottobre dicevamo, dieci anni fa cominciava la mia seconda settimana all’università. Una altra vita, una vita fa. Dieci anni sono tanti, è più di un terzo della mia esistenza, un mondo lontano eppure sempre presente perché alla fine dei giochi parlare tutti i giorni con quattro persone conosciute lì, in quel luogo, significa qualcosa, anzi significa tanto. Vuol dire essersi portati via un pezzo di quei tempi, e mantenere vivo un po’ tutto, con le dovute proporzioni attraverso i rapporti e le amicizie.

Avevamo 10 anni in meno, e questa decade davanti a noi da vivere. Se ci ripenso, rifarei tutto. E tornerei indietro per rivivere tutto e solo questo penso basti a spiegare la magia di quel lungo segmento. Dieci anni fa iniziavamo, 4 anni e mezzo fa invece è finito tutto. In mezzo, o meglio, dopo, tanti spaccati di vita. Italia, estero, Irlanda, Dublino, Toronto, fatica e solitudine. Attese, rifiuti, abbandoni, partenze e ritorni. Nuove volti, storie impreviste e botti improvvisi.

Intanto qui c’è ancora qualche capitolo da scrivere, fra un po’ capiremo quanti altri. Magari un paio, magari no. Ma a me piace quando ci si gioca qualcosa, quando arrivano i momenti decisivi e si scoprono le carte. A me piacciono quelle sensazioni. Un po’ come al primo esonero di geografia, dieci anni fa.

Quando si inizia a fare sul serio, anche se sul serio poi magari non è, e la vita in questi ultimi dieci anni ce lo ha spiegato bene.

 

Prima che il vento si porti via tutto

E che settembre ci porti una strana felicità

Pensando a cieli infuocati

Ai brevi amori infiniti

Respira questa libertà