Il Cimitero Teutonico del Vaticano

Facciamo che io ve lo metto qui, poi magari non vi interessa, però secondo me vale la pena. Anche perché certe cose mica si sanno. Ma questo mestiere è fatto proprio per “let people know” e mi pagano per raccontare queste cose.

A pochi passi dal colonnato di sinistra di Piazza San Pietro, su Via Paolo VI, si entra in quell’area in cui spicca l’Aula Nervi prima di arrivare al secondo controllo di identificazione. “Cimitero teutonico” è la parola chiave per il lasciapassare e pochi passi più avanti si entra nel Campo Santo dei Teutonici e dei Fiamminghi, in tedesco Friedhof der Deutschen und der Flamen.

Pur essendo in una via che tecnicamente appartiene alla città di Roma (Via Sagrestia 17), il complesso rientra nell’area extraterritoriale a favore della Santa Sede. Nonostante questo cavillo, il cimitero è di fatto considerato l’unico campo santo all’interno del Vaticano, un luogo che ispira preghiera e devozione.

La storia tramanda che nell’antichità qui si trovava il circo di Nerone che fu teatro di numerosi martiri di cristiani. Fu però il Giubileo del 1450 e l’arrivo di molti pellegrini a dare una spinta fondamentale alle ricostruzioni del cimitero e della chiesa. Proprio in questo periodo il complesso venne inglobato all’interno della struttura del Collegio adiacente. Questo avvenne per mano dei membri tedeschi della Curia i quali si unirono nell’anno 1454 in una Confraternita dei poveri morti, la quale in maniera un po’ diversa esiste tuttora ed è titolare della fondazione.

“Teutones in pace” recita infatti la scritta sul cancello di ferro all’ingresso, dentro lo spazio è suddiviso in quattro aiuole secondo una caratteristica che risale al Seicento. Del secolo successivo sono invece le statue in marmo raffiguranti i padri della Chiesa: san Girolamo, sant’Ambrogio, san Gregorio e san’Agostino.

Il cimitero ha un assetto artistico monumentale di grande effetto, culminante nella Cappella della Flagellazione. Intorno tanto verde fra alberi, palme, cespugli e fiori, il portico e le mura rossastre. Lapidi ma anche splendidi dipinti su maiolica che avvolgono lo spazio. Qui hanno trovato la loro sepoltura personalità ecclesiastiche, politiche e artistiche, come i pittori Johann von Rohden nel 1868 e Joseph Anton Koch nel 1839, la regina madre di Danimarca Charlotte Friederike e la suora Pascalina Lehnert, autentica regolatrice della vita di Pio XII nel 1983.

L’accesso alla Chiesa di Santa Maria della Pietà dal cimitero è costituito da un portale di Elmar Hillebrand regalato nel 1957 dal Presidente della Repubblica di Germania Theodor Heuss. L’altare maggiore presenta tavole pittoriche di Macrino d’Alba: al centro la Pietà, ai lati figure di personaggi del Nuovo Testamento.

All’interno della chiesa si trova anche “La Cappella degli Svizzeri” che servì dopo il Sacco di Roma come sepoltura per le guardie cadute. Sulle pareti si trovano invece splendidi affreschi di Polidoro Caldara, pittore italiano del XVI secolo che proprio in occasione del Sacco, fuggì da Roma per rifugiarsi a Napoli.

Ci sono dei criteri necessari e richiesti per essere sepolti nel Cimitero Teutonico: essere di religione cattolica e di madrelingua tedesco o fiamminga indipendente dalla nazionalità, e risiedere a Roma. Nel febbraio del 2015 il clochard Willy Herteleer, fiammingo di nascita, da decenni senza fissa dimora che viveva di elemosine nell’adiacente quartiere di Borgo Pio è stato sepolto nel cimitero teutonico. Un fatto insolito ma che ha riportato il campo santo alla sua vecchia funzione: accogliere i pellegrini poveri provenienti dal nord Europa, prima ancora di dare spazio ai nobili, ai cavalieri e ai benefattori della Chiesa.

Due mesi dopo

Due mesi forse sono abbastanza per tracciare un primo bilancio e parlare di questo ritorno e di quella partenza. Era giusto aspettare un po’, raccogliere le idee dopo aver elaborato delle sensazioni ed aver rivisto persone e luoghi. Le vacanze sono alle spalle, il calendario corre verso il 21 settembre e quindi la fine ufficiale dell’estate, il lavoro ha ripreso a pieno regime e anche il programma settimanale è ripartito. La Colombia, il mare, Montalcino, le visite dei parenti e i matrimoni sono già in archivio, così come un normale periodo di adattamento che mi ha lasciato delle certezze.

Sapevo che tornare a Roma non sarebbe stato semplice, in primis perché sarei rientrato in una certa vita, in una vecchia vita, in antichi schemi e dinamiche rimaste lì. Sapevo che mi sarei ritrovato disorientato e temevo che una sensazione in particolare potesse inizialmente abbagliarmi per poi non svanire più.

È strano rendersi conto di come i propri occhi siano cambiati, il modo di vedere le cose, di viverle, di guardarsi attraverso gli altri e capire che molto è cambiato, forse più del previsto. Fa uno strano effetto tornare a casa e non sentirsi più a casa come un tempo, come prima di partire, quando il tuo posto era appunto Casa.

Sono uscito pochissimo, forse il minimo indispensabile, ci sono persone che ancora non ho rivisto ed in generale non ho tutta questa grande voglia.

L’aspetto più complicato è che molte cose non si possono dire. Non si può parlare liberamente a volte perché c’è sempre il rischio di ferire qualcuno, e ancor di più il pericolo che qualcuno possa darti del superbo o di quello cambiato in peggio.

Vedo però persone chiuse nel cortiletto, vittime dei loro modi di fare a mio avviso ottusi, persone che parlano con orizzonti che finiscono un metro più avanti. Gente che si lamenta, nessuno che prova a cambiare le proprie sorti. Critiche, e mai idee. Chiamiamolo “provincialismo”, una cosa del genere. Vedo queste persone e avverto un disagio io.

Difficile spiegare alcuni concetti e far passare delle ragioni, la verità è che la gente o ti dice che sei cambiato con accezione negativa, oppure forza nel continuarti a vedere in un modo. Quella figura cristallizzata fa comodo a chi non cambia o non l’ha fatto. Notare i tanti cambiamenti di qualcuno, che spesso sono miglioramenti o una crescita, è un colpo nella mente dell’altro, perché è un confronto diretto, dal quale non si può scappare e che ti fa pensare: lui è cambiato e io no.

Fa comodo pensarmi in un modo, toglie a qualcuno il rischio di confrontarsi e di capire magari di aver perso qualche treno o di non essersi mai messo in gioco.

Ritornare e mettersi a cercare casa è un’altra rincorsa, con le mille difficoltà che implica una tale ricerca. Rifare tutto a distanza di due anni, è un déjàvu, un montare di nuovo un puzzle.

La perenne instabilità di questi anni, dettata da viaggi, valigie, case, traslochi, un ciclo che sembra non finire mai, al massimo avere una pausa. C’è forse anche una stanchezza di questo tipo presumo, nel rimettersi in moto in una certa maniera.

Ho provato a fare alcune metafore ultimamente, la più azzeccata a mio avviso è che sono una scatola di cartone che non entra più bene in un vecchio cassetto. Si può sgualcire e piegare, alla fine entra pure, ma ovviamente non nel modo appropriato.

Qui, la mia città, la mia vita a queste latitudini, è un recipiente nel quale non entro più bene ed è in fondo la più normale delle conseguenze di tutto quello che c’è stato e ho vissuto negli ultimi anni.

Sono cambiato io e non è cambiato nulla intorno a me. Ne il posto, ne le persone, e nemmeno la maleducazione, l’atteggiamento, i modi di fare, di vivere e vedere le cose. Provare una profonda fase di rigetto presumo sia abbastanza naturale.

Dire tutto ciò espone a critiche, ovvio. Alla gente, a chi non si è mai mosso, certe considerazioni non si possono fare perché si rischia di non essere capiti e soprattutto etichettati come esterofili o persone che vogliono mettersi su un piano diverso. Sbagliato, completamente errato. È il diverso punto di vista di chi ha semplicemente vissuto e sperimentato altro e quindi ha mixato stili di vita, colori e architetture.

Ho scelto di tornare soprattutto per lavoro. L’ho detto e lo ripeto, sapevo che era la scelta sensata e come ho sempre fatto ho anteposto il giusto a ciò che era facile o mi faceva più comodo.

Roma, oggi, è il posto in cui devo stare per tanti motivi, un passaggio obbligatorio, di crescita e formazione ulteriore. Una esperienza. Così ho sempre visto il ritorno, una tappa, una parentesi a casa. In questi anni ho capito che lavoro desidero fare nella vita, più avanti mi piacerebbe capire dove voglio vivere, forse in nessuno dei posti in cui sono già stato.

E proprio da qui nasce una delle convinzioni maturate in questi due mesi, una amara riflessione che ti conduce alla condanna di non sentirti più casa: non poteva essere Toronto per ovvie ragioni, ma non lo è nemmeno più di tanto Roma. Strano, ma vero, con il rischio che un giorno diventeremo un po’ tutti apolidi, perché un conto sono i sentimenti e l’appartenenza, aspetti nobili e romantici, diversa però è la vita nel concreto.

Due mesi alle spalle e molti altri davanti: sfruttare quanto di buono sa offrire questo mondo qua e lavorare sodo, tanto il guado è stato attraversato e indietro, dopo anni così, non si torna più.

Ripenso a due anni fa, al viaggio a Reggio Emilia e al concerto di Ligabue, quando ero consapevole che sarebbe stata l’ultima recita di un qualcosa: la fine di una fase, l’inizio di altro.

Non mi sbagliavo.

Ritornando

Ma sei tornato?

Sì, sì so tornato…

Molto diverso tornare a casa da turista o in pianta stabile. Diverso perché vivi tutto con un altro spirito e soprattutto imposti il cervello su una frequenza insolita che ti fa vedere la realtà circostante in modo totalmente differente.

Questa è stata una delle mie riflessioni più presenti in questi giorni, questi dieci giorni, dal secondo sbarco con provenienza Toronto.

Una settimana di vacanza che si è trasformata in tutt’altro con decine di cose da fare e sistemare anche rapidamente. La macchina con annesso passaggio di proprietà, l’assicurazione, le gomme, il meccanico, la revisione, le tappe obbligatorie per rimetterla in moto dopo quasi due anni.

Diversi giri e tanti soldi spesi, una enormità se aggiungiamo l’altra missione da completare, il vestito per il matrimonio, con la camicia, le scarpe e la cravatta. Ripianato il debito relativo al regalo per questo evento, mi sono domandato se tornare era stata proprio una grande idea considerando l’esborso iniziale. È come se mi avessero dato una cartella di Equitalia all’arrivo a Fiumicino, considerando poi quelle altre cosette, come il cavalletto, il telefono da far ripartire e altri ammennicoli vari.

Tutto molto bello però. Un ritorno in grande stile al quale ho voluto dare un tocco magico, fra il sentimentale e l’inatteso, comprando il biglietto per andare a Bogotà per far visita a chi di dovere.

Una bella cosa. Una di quelle che generano fomento al netto di soldi, fatiche, viaggi interminabili e intercontinentali a breve giro dall’ultimo. Chi se ne frega. Ci sta, e sarà un brivido capitale.

Poi? Poi è successo che questa settimana di vacanza è sfilata via senza che io ne abbia memoria, cercando di smaltire il fuso e provando a sistemare le varie commissioni. In compenso, non sono andato al mare, niente piscina, sono uscito appena due volte la sera, mi sono mangiato solo due pizze e 5 supplì complessivi, ho bevuto due limoncelli e sono ancora bianco cadaverico.

Il lavoro è ricominciato, e in un paio di giorni ho vissuto una quantità indefiniti di déjà-vu dell’estate del 2015: ricordi di fatica e corse, camicie sudate e microfoni a portata di mano, caldo isterico e la fermata Ottaviano.

Mi è tornata in mente anche l’antica sensazione di fastidio di quando devi fare tutto da solo, bello, per carità, stimolante, certamente, ma in giornate storte anche un filo logorante.

Ma tutto questo, e quando dico tutto intendo proprio tutto, era abbastanza in conto, i turni preliminare sono finiti, da domani sera iniziamo a fare sul serio e ci lasciamo trasportare dai grandi eventi che ci attendono con annesse emozioni.

 

L’ultima pedalata

Alla fine le cose migliori sono spesso frutto della spontaneità o del caso. Ci pensavo mentre pedalavo lungo lago mercoledì sera, nell’ultima – e forse unica – passeggiata ciclistica di questa stagione.

Dovevo andare al bar, ma a causa del tempo, tutto è saltato. Sono andato a portare un po’ di vestiti che ho scartato in un posto e poi, considerando che non sembrava esserci nessuna tempesta in arrivo, ho deciso di puntare verso sud e di allungare il tragitto con la bici. Da Parlament fino al lago e poi avanti, costeggiando la pista ciclabile che divide i grattacieli dall’acqua.

Proprio mentre pedalavo, e guardavo la città da un’altra prospettiva, ho pensato che fosse una immagine perfetta, molto cinematografica, per chiudere un racconto, prima che la voce del protagonista prenda il sopravvento ed arrivino i titoli di coda.

La pedalata mi ha portato davanti a diversi luoghi, angoli della città che mi hanno rispolverato ricordi divertenti, profondi o assurdi. Dalla pazza indigena con il cane, ai dolori del giovane Werther attualizzati nel weekend del Victoria’s Day di due anni fa, ai giri da turista nel luglio del 2015, o alle volte in cui ho preso il battello per andare nel mio posto preferito di Toronto, l’isola, così come la birra dopo la settimana infinita dalla GMG con la Ragazza di Richemont lo scorso luglio.

Ho pedalato tanto, assaporando questo momento imprevisto, ho pensato a quale colonna sonora poteva essere adatta ma non mi è venuto nulla in mente. Ho riflettuto ancora, come è successo spesso, su questi due anni e mezzo qui, su quante cose siano successe, su quanto sia cambiato, ma soprattutto migliorato come persona. Per me, almeno, è così. Vado via da qui in pace con me stesso sotto ogni aspetto e senza nessun rimpianto, l’unico è quello di non aver giocato mai a basket qui, considerando il numero esagerato di campetti e canestri.

Sono stati anni lunghi e complicati, e per questo preziosi. Senza le tante difficoltà in cui sono incappato, oggi, tutto questo non potrebbe avere lo stesso valore. È stato un crescendo di responsabilità, di lavoro e convinzioni, e indubbiamente sono stati gli anni che mi hanno traghettato da una fase, quella di ragazzo, ad un’altra, quella dell’età adulta.

Diventiamo adulti quando il numero delle responsabilità aumenta, quando ogni decisione spetta a noi e quando siamo autonomi. La maturità, mediamente è conseguenza di tutto questo e qui in Canada tali aspetti si sono compiuti un passo alla volta.

Tante volte ho detto di essere una persona fortunata e privilegiata, tornare a Roma con tutto quello che potevo in tasca è un grande successo ma è costato anche molto e so bene ogni sacrificio e ogni problema che mi sono dovuto sobbarcare. So benissimo la fatica che ho fatto.

Cinquanta minuti dopo, la pedalata era finita, la città iniziava ad illuminarsi sul serio e le nuvole lasciavano lo spazio alla notte.

Toronto mandava in archivio un normale mercoledì di mezza estate, per me invece era l’ultimo vero giro della città: amata, odiata, sottovalutata, spesso non compresa, ma sempre ringraziata.