Tante facce, tante storie (Parte 2)

Parli di Olimpiadi e pensi a Bolt. Era l’uomo più atteso dei Giochi, l’eroe della seconda settimana e alla fine non ha tradito le aspettative vincendo, trionfando, esagerando nei distacchi.

Bolt è impressionante per la facilità di corsa, per come allunga, per come faccia sentire gli altri impotenti. Mi ha riportato indietro nel tempo, ad Atlanta 1996, quando mi alzavo la notte per ammirare un mio idolo Michael Johnson, un altro velocista unico, quello che sembrava volare con le sue scarpette d’ora firmate Nike. Scattava, partiva forte e poi allungava, dietro, il vuoto.

Bolt, seppur su distanze diverse come nei 100 metri, è l’erede di Michael Johnson ed il pubblico lo ama alla follia.

È stata l’Olimpiade anche di Josefa Idem, un mostro di longevità, la faccia più bella dello sport. A settembre compirà 48 anni ma alla sua ottava esperienza ai Giochi ha dimostrato di essere una campionessa unica, determinata e affamata. Donna, moglie, mamma, atleta, Josefa è l’emblema del sacrificio e della passione, lo spot più bello per chi vuole credere a certe favole.

Penso a Josefa, alla sua forza, alla sua grinta e mi viene in mente anche Schwazer, l’uomo su cui puntavamo per i 50 km di marcia, colui che poteva regalarci un altro oro dopo Pechino.

Non è andata così, la sua avventura non è nemmeno iniziata. Fuori prima di arrivare a Londra: niente gare, niente podio, zero sogni di gloria. Voleva essere più forte, ha dimostrato di essere il più debole, non sulla strada ma nella vita. Ha ammesso tutto, ha pianto e ha provato a giustificarsi senza nascondersi. Negli ultimi anni aveva perso male, si era ritirato, era diventato il fidanzato di Carolina Kostner, quella che nel frattempo aveva iniziato a vincere. Complessi di inferiorità? Paura di perdere ancora? Fragilità mentale? Può essere tutto, alla fine Schwazer ha perso ogni cosa nel modo peggiore, senza correre, senza lottare, consapevole di aver ingannato.

È stata la pagina più nera di Londra 2012, una macchia scura che non deve però rovinare le imprese della nostra spedizione.

Poteva essere l’Olimpiade di Federer, alla fine lo svizzero ha portato a casa un argento al termine di una finale in cui è stato travolto dalla voglia e dall’atletismo di Murray, spinto dal pubblico di casa e desideroso della rivincita di Wimbledon. Federer poteva coronare al meglio un 2012 importante ed una carriera unica, per lui vale lo stesso discorso di Bolt e Phelps, essere testimoni di questi campioni, averli visti in diretta, è una fortuna di cui forse in molti non si rendono conto.

Essere contemporanei a certi miti è un privilegio perché le loro imprese rimarranno per sempre, sono i tre atleti più grandi di tutti i tempi nelle rispettive discipline e noi li abbiamo apprezzati un passo alla volta. Fra qualche decennio racconteremo le loro gesta davanti ad un camino, come accade nei film, perché certe facce entrano nella storia e diventano leggende, favole, e non si possono non raccontare ai propri figli.

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