Il periodo che mi descrive meglio

Non vorrei stare lì sempre a rivangare certe cose, però in fondo provo un piacere nel farlo che deriva da non so dove. Troppo facile la scusa del tipo nostalgico, la realtà è che ultimamente Gabriele mi manda le immagini della sua applicazione TimeHop la quale gli ricorda i suoi status su Facebook giorno per giorno scritti nei vari anni. Una sorta di enorme mostro che ricalcola e ti spedisce all’indietro. Più me li manda e più commentiamo. Un po’ perché sono il suo biografo, un po’ perché in quegli anni ci sono episodi e passaggi che si intrecciano, resta il fatto che questa app ci porta alla deriva fra riferimenti e ricordi.

Ultimamente, essendo dicembre, e quindi mese di lauree e di ricorrenze accademiche per entrambi, ho risposto a un suo vecchio status dicendo che quella è una delle sue versioni che ho più amato e che tuttora ho maggiormente a cuore. È lui al ritorno da New York, quello della seconda parte del 2009. Come ho detto quella è una sua edizione  profonda, drammatica e fondamentalmente letteraria, insomma, troppo magnetica per non considerarla interessante.

Mentre scrivo gli sto dicendo che quella attuale, lui che sta sulla metro alle 6.20 per andare a giocare a tennis a Victoria Park, acchiappa di meno l’attenzione. Troppo vincente, un borghesotto ripulito, uno yuppie alla Ezio Greggio trapiantato nel cuore di Hong Kong.

Ripensando a lui e alle sue varie versioni, mi sono soffermato su quella che mi dipinge meglio. Casualmente, il periodo è proprio lo stesso che citavo in precedenza: seconda metà del 2009. Lì senza dubbio si annida la mia essenza, la mia personale cartina di tornasole. Quei mesi furono un riassuntone del sottoscritto nei minimi di dettagli. Si andarono a condensare una miriade di fatti e incroci, sfighe e resurrezioni, tempi stretti e rincorse che non possono non definirmi.

In quel semestre ci sono io al 100%. Io che parto con un’idea e finisco dopo mille peripezie a fare tutt’altro e di fondo sono più contento perché era ciò che volevo, io che mi incasino e mi devo tirare fuori assolutamente da solo. Ci sono in tutto e per tutto mentre mi ritrovo a mettere in dubbio un sacco di cose: a correre contro il tempo e a sbattere fino all’ultimo istante prima di togliermi una soddisfazione. C’è il mio attendismo, il mio “Vorrei ma non posso”, il “Non si può fare”, il non aver in fondo coraggio fino alla fine. Ci sono una infinita di sfighe che si sommano e si assemblano in maniera quasi studiata, la mia capacità patologica di preoccuparmi sempre del dopo e di non godermi del tutto il gusto del successo e del traguardo. Io che ho il piano B, che mi sfomento e mi intristisco, la voglia di stare da solo e isolarmi per concentrarmi e fare pulizia sulla mia scrivania mentale. La complicità, un senso di totale fratellanza e condivisione, la pazienza che mi sfugge clamorosamente mentre mi ritrovo a dare un calcio di una potenza inaudita alle porte del treno della ferrovia Roma Nord. In quei sei mesi c’è il sudore e il timore di non farcela, l’eccitazione della rimonta, la rabbia e l’ironia della sorte, ci sono io, perché sono quello senza dubbio.

Non sono quello del 2010, troppo fortunato, vincente e perfetto, geometra del proprio destino. Sono quello del 2009, quello che ci crede, che sbaglia e paga e che raramente si pente per quello che ha fatto.