Quella a cui non interessa la mia disperazione

Minimal, un po’ maglia del Real Madrid, ma anche pulito ed essenziale. Di certo leggibile. Quando vedo la nuova veste grafica del blog queste sono le prime cose che penso e per queste ragioni ho deciso di dare l’ultima verniciata. Poco colore, ma quel senso stimolante di pareti appena rinfrescate dentro casa.

Tutto questo ci voleva, dopo quasi un anno era arrivato il momento di cambiare nuovamente e apportare qualche piccolo accorgimento come il ritorno alla colonna del post sulla sinistra e tutto il resto a destra, un’inversione per tornare all’impostazione precedente.

La frase? Sarà almeno tre anni che mi rimbomba in testa, da una mattina di pieno autunno quando camminando lungo Via Gela diretto verso la stazione Tuscolana, partì Mersey Paradise degli Stone Roses, pezzone brit-pop degli Anni 90 sul mio I-pod per ovvi motivi già dal titolo, da questa canzone appunto ascoltai “She does not care of my despair” e mi fermai al semaforo pensando: “Ecco, volevo proprio dire questo, bravi Stone Roses mi avete tolto le parole di bocca”.

È la verità. Anzi nella frase ci sono una serie di verità, l’ultima è forse la parole più persistente o meglio quella sempre presente, quella che a me non ha mai abbandonato e continuerà a viaggiare con me per i prossimi 200/300 anni, checché (era tempo che volevo usare questa espressione) ne dicano i ben pensanti.

Ma insomma, questo è, questa canzone oltretutto mi accompagnò mesi dopo nel mio viaggio Dublino-Liverpool. Il brano calzava a pennello e mentre aspettavo l’Aircoach per l’aeroporto con il primo sole che iniziava a sbucare, cominciai ad entrare in clima con Mersey Paradise, qualche ora più tardi camminavo per Mathew Street e pensavo che da lì, tante cose erano iniziate, in quella città che involontariamente aveva assunto poi negli anni dell’università un ruolo centrale.

Proprio in quella circostanza, in attesa del viaggio di ritorno, scrissi un gran bel post che giorni dopo, due per l’esattezza, l’otto maggio del 2013, durante Inter – Lazio, giorno del compleanno di mio padre, mi porto all’ultimo contatto con quella a cui non interessa la mia disperazione.

Mi vorrei come

Che poi spesso ragioniamo su come ci vorrebbe quello, o come ci desidera quell’altra, o magari cosa dovremmo cambiare noi per essere migliori, più bravi o roba del genere. Ribalto la questione oggi e mi domando, ma io come mi vorrei? Cioè in quali vesti mi vorrei e in quali assolutamente no. Vai, vai con un post introspettivo dal sapore ironico e spiazzante.

 

Amico: sicuramente sì. Mi vorrei come amico, vorrei un amico come me. Uno che sai che c’è e sai che troverà tempo per te malgrado tutto. Da maschio vorrei un amico del genere. Tutto mi si può dire tranne che non sono uno vero e allora, questa peculiarità è fondamentale nei rapporti d’amicizia. Ti dico tutto con onestà e tatto. Funziono però solo per gli amici, non per le donne, eccetto La Bionda.

 

Compagno-Fidanzato-Marito: no, per niente. È dalla prima media, quando iniziai ad invaghirmi di Veronica che mi domandai una cosa non proprio da bambino ma molto più da adulto, ossia: “Ma io che cosa ho da offrire? Cosa posso dare a una persona in una relazione di questo tipo?” La risposta dal 1998 galleggia fra il nulla e l’assolutamente nulla. Per cui, se io fossi dall’altra parte, non mi vorrei mai in quelle vesti.

 

Figlio: apparentemente sì, sostanzialmente no. Il rapporto genitore-figlio è troppo stretto e unico che spesso ti fa perdere l’obiettività e l’ordine reale delle cose. Si pensa sempre reciprocamente di conoscere l’altro come un libro aperto, ma rimane sempre una parte dentro di noi imperscrutabile e che nasconde tanto e può sorprendere. Come figlio, non mi vorrei.

 

Nipote: decisamente sì. Cambia il discorso rispetto al ruolo precedente, non è lo stesso. Come nipote sono perfetto. Mi vorrei sempre come nipote.

 

Coinquilino: vorrei un coinquilino come me. Discreto, pulito, ordinato, presente il giusto. Le esperienze vissute in passato in contesti diversi mi hanno fornito questa certezza, sono un buon coinquilino.

 

Capo: non mi vorrei come capo, non vorrei mai avere un capo come me. Chiedendo molto a me stesso, finirei per farlo con gli altri. Potrei mettere pressione, essere spesso insoddisfatto del lavoro altrui, mi eviterei volentieri in queste vesti.

 

Dipendente: è tutto l’opposto della voce precedente. Vorrei avere tutta la vita un lavoratore come me nel mio team. Perché uno così mi darebbe il 100% della garanzia sotto il punto di vista dell’impegno, della voglia e della precisione. Sarei uno di quello che dopo un po’ non hai bisogno di controllare, vanno da soli e li lasci stare. Chi mi prende, fa un affare. Questo sì.

 

Compagno di squadra: è la mia perversione mentale più grande fin da quando ero bambino. Ho sempre sognato di giocare con un altro me in campo. Parlo proprio di gioco, non di compagno come amico e personaggio utile nel gruppo e nello spogliatoio. Ho desiderato ogni volta giocare con me stesso. Quando stavo in avanti speravo di avere me alle spalle pronto a mandarmi in porta con un assist inatteso, quando giocavo dietro sognavo di avere uno davanti che facesse certi movimenti o capisse al volo le mie intenzioni. Tutto questo è figlio dell’aver amato costantemente il mio modo di giocare e di stare in campo. Ma due Matteo sul rettangolo di gioco rimane un sogno impossibile da esaudire. Ahimè.

 

Studente: direi proprio di sì. Sono sempre stato un bravo studente, non il migliore, nemmeno il più intelligente. Ma di sicuro educato, rispettoso e diligente. Queste sono le qualità che in fondo un professore apprezza. Se fossi Antonio, uno come me in classe mi piacerebbe averlo.

Il post-operazione

Non è mai piacevole stare all’ospedale, me lo ripeto mentre cammino per i corridoi del Santo Spirito, ogni tanto mi fermo per guardare dalla finestra il Tevere sotto di me, cerco l’angolatura per osservare Castel Sant’Angelo illuminato, fuori intanto la vita corre, fra chi torna a casa e chi si prepara ad uscire per godere gli ultimi scampoli di estate.

I riti poi sono sempre quelli. La mia fortuna è quella di essere solo in camera, alle sei mi svegliano, non disturbo nessuno e comincio a prepararmi per la sala operatoria. Mi infilo il camice verde, arrivano con il lettino e me ne vado disteso. Quando tornerò, qualche ora dopo, so che starò molto meno bene. Mi preparano, il barelliere mi fa l’occhiolino bonario e mi lascia nelle mani di due infermieri. Si parla di calcio, ovviamente, si cerca di stemperare la tensione che io, onestamente, non avverto. Sono il primo ad essere operato, dentro fa freddo e mi riscaldano in qualche modo con dei tubi di aria calda. Non vedo molto, ho la testa bloccata, la mia visuale è solo il soffitto. Mi saluta il chirurgo, continuano a parlarmi del Canada e ad interessarsi alla mia vita che deve essere molto più spumeggiante e poco ordinaria di quello che penso. Una puntura sulla schiena, perdo la sensibilità su gran parte del corpo, mi coprono gli occhi e intervengono. Non sento nulla e non sentirò le mie gambe per ore. Cercherò di alzarle ma sempre senza successo, un gioco che mi fa pensare a chi non può mai farlo veramente. Terribile.

Passo due ore sotto osservazione e poi torno di sotto.  Continuo a rimanere a digiuno, il tempo passa molto più rapidamente di quanto immaginassi. Rimango solo in attesa di mio padre, finalmente posso cenare e poi inizia una lunga notte insonne, scontata quanto infinita, addolcita solo da una chiamata canadese che quanto meno mi risparmia un paio di ore di nulla.

Controlli, prelievi, visita, scendo e cammino un po’ per andare al bagno. Sento male ma non troppo, antidolorifici e morfina mi stanno sedando notevolmente. Faccio colazione, mi sento discretamente dopo 24 ore dall’intervento, ho solo tanto sonno ma non riesco a dormire perché sono bloccato da due posizioni e dopo un po’ mi sveglio puntualmente.

Posso tornare a casa, ricevo l’ok. Meglio il mio letto, meglio casa che l’ospedale. Sempre, malgrado tutto. Dormo molto, la notte è meno complicata e riposo ma ho un’altra decina di problemi e fastidi. Mi perdo un po’ l’angoscia del pre-derby, sento invece quella della seconda domenica di settembre, quella che conduceva al ritorno a scuola. Ci penso quando rifletto che domani il figlio di mio cugino tornerà sui banchi. Quella sensazione di attesa, di giorno prima, mi spinge a pensare seriamente che sia meglio avere dei punti addosso e una ferita da rimarginare piuttosto che riempire uno zaino.

Intanto domenica sta per scorrere via, fuori il tempo è cambiato, ripenso a domenica 13 settembre 1998. Il tempo era uguale e pareggiammo in rimonta a Cagliari 2-2 con doppietta di Ventola. Il giorno dopo avrei iniziato le medie e il sol pensiero mi angosciava.

Domenica appunto, fra sette giorni anche il concerto sarà un ricordo, ma prima dobbiamo andarci, e allora, una cosa per volta. Godiamoci quello, poi penseremo al resto. Dai.

Chiudete le valigie, si va al Santo Spirito!

In fondo sono tornato per questo, per vivere la giornata di domani, per finire sotto i ferri e operarmi. Il motivo reale del mio ritorno in Italia era strettamente legato all’operazione e domattina cercheremo di risolvere questo problema con la speranza che il decorso non sia pieno di complicazioni visto che sabato 19 ci attende Reggio Emilia, Campovolo, il concertone e verosimilmente l’ultima carrellata di brividi, forse una delle più grandi a sancire la fine di una serie di cose, in primis dell’estate.

Dopo dieci anni mi opero, e onestamente firmerei per questo tipo di cadenza, ma soprattutto dopo una ventina di anni risolvo un problema che per troppo tempo mi sono portato dietro.

Non mi preoccupa l’intervento, mi preoccupa più che altro l’umore con cui mi sto recando al Santo Spirito. Un escalation di fastidio, di arrabbiature, di insofferenze e sbadate coincidenze, un tourbillon che mi ha risucchiato dentro così.

Penso spesso a come ricorderò questa parentesi romana, la sensazione è che in fondo non l’ho vissuta bene, ma non solo per colpa mia. Probabilmente qualcuno direbbe che non l’ho vissuta bene perché non vivo bene in generale, e magari ha anche ragione, lui, l’uomo che ha varcato di nuovo l’Atlantico prima che sia io a farlo ancora.

Ecco, questo pensiero ultimamente si è fatto più insistente, in fondo manca un mese e mezzo e questo significa veramente poco, poco tempo ancora. Oltre a problemi tecnici e logistici come ad esempio la casa, c’è in lontananza la prospettiva del freddo, della solitudine, di un inverno pieno (stavolta veramente in versione integrale) da vivere nel modo peggiore. E poi c’è dell’altro ma evito di infilarmi in gineprai vari, certo è che l’idea del ritorno, attualmente, non mi fa battere il cuore per l’emozione, l’unica certezza è che lavorerò molto meno rispetto a quanto fatto finora da qui.

Ho cambiato telefono intanto, esattamente due anni dopo, era settembre e avevo appena strappato la promessa di un colloquio per tornare in Irlanda. Andai un sabato pomeriggio da Saturn a Roma-Est e comprai un Samsung Advance S. Ieri ha terminato la sua corsa con un declino rapido e quasi imprevedibile. Ha raccontato poco in fondo, o meglio, dentro a quella memoria non ci sono troppe emozioni e pochi ricordi. Ha raccontato un settembre 2013, appena comprato, di grande entusiasmo ma poi, quel display ha visto più messaggi normali, cazzari e polemici che frasi da scolpire sulla memoria.

Questo chissà cosa vedrà e raccoglierà, a me fa un po’ pena, mi sembra un po’ Gasperini al suo arrivo a Milano, e non per quanto durerà poco (spero di no anche per le mie tasche) ma proprio perché ha l’aspetto del telefono che racconterà poco.

Mica è un Nokia 5800 per dire…

Sembra quasi la felicità, sembra quasi l’anima che va

il sogno che si mischia alla realtà

puoi scambiarla per tristezza ma è solo l’anima che sa

che anche il dolore servirà.