Quello e nient’altro

Parlando con Donna Ilaria, giorni fa, siamo finiti a ragionare sul lavoro, sulle prospettive, su quello che sarà o potrebbe essere soprattutto nel suo caso. Le ho chiesto quali sono le sue aspirazioni, cosa pensa del dottorato, quali strade potrebbe aprirle e quant’altro. La conversazione ha successivamente virato su temi più generici, fin quando lei, partendo da una frase finale, ha chiuso dicendo: “È un po’ come se a te chiedessero perché vuoi fare il giornalista”.

La mia risposta, fra il serio e il faceto è stata semplicemente: “Perché è l’unica cosa che posso fare decentemente”, una considerazione che per quanto scherzosa è in verità anche abbastanza realistica.

Sì perché io sono fermamente convinto che questo sia il mio mestiere, ne ero certo prima, quando studiavo o quando ero un bambino, figuriamoci dopo che ho iniziato a farlo veramente. Di tutte le persone che conosco da quando ero piccolo, sono ovviamente l’unico che è riuscito a fare ciò che desiderava quando aveva 7, 13, 19, o 24 anni. Un fatto che non mi stupisce, o meglio non mi stupisce che io stia facendo questo, mi sorprende che magari nessun altro sia riuscito a dare seguito a certe aspirazioni o semplicemente sogni.

Anche in momenti oggettivamente complicati, quando le porte chiuse in faccia non sia contavano più sulle dita delle mani, e nemmeno dei piedi, in fondo sapevo che in qualche modo avrei fatto questo.

Ecco, io credo che esistano dei percorsi, non del destino, ma proprio delle strade che si vanno a percorrere e sai in fondo che percorrerai. Però un conto è convincersi solo per il gusto di farlo o credere che andrà così, altro discorso è quando tu hai la percezione e la convinzione netta che tanto farai quello, lo farai perché non potresti fare altro, perché nell’ordine delle cose tu sei quello e quello è ciò che devi fare. L’ho sempre vista così, e quindi io sto esattamente facendo quello che dovevo, non c’erano altre storie e nemmeno alternative e lo dico ancora oggi che posso essere più convinto vista la mia posizione, ma lo direi anche se domani finisse il mio contratto.

Può sembrare un ragionamento privo di argomentazioni ma la realtà è che ci sono cose che nella vita senti, non voglio dire scritte ma in qualche modo stabilite e sai che andranno in quel modo.

Provavo a spiegarlo a Donna Ilaria, ma non so se sono stato in grado di far passare il mio messaggio o quello che intendevo.

Questo discorso secondo me vale anche per i rapporti personali, quelli relazionali – sentimentali. Non sta scritto da nessuna parte che le cose debbano andare per tutti allo stesso modo e secondo me c’è chi è destinato ad alcune dinamiche piuttosto che altre. Si capisce chi starà da solo, chi invece si sposerà presto, chi avrà tutto apparecchiato e anche chi si separerà presto. Non penso si debba essere indovini, ma a un punto, a un momento della nostra parabola, alcune cose iniziano ad essere abbastanza chiare. La vita sa sorprendere, certo, ma spesso è anche facile da prevedere agganciandosi ad alcune evoluzioni.

Io galleggio in quella zona d’ombra, quella a cui gli altri non credono, quelli che mi annoiano con le frasi fatte, io sto là e in fondo, forse mi piace proprio così, o magari mi ci sono abituato e quindi mi piace, o me la faccio piacere. Conosco altre persone che si aggirano per quei posti, così come conosco quelli che si sapeva che avrebbero esattamente fatto certi passaggi.

Appunto, come un determinato mestiere, ci sono cose che in fondo sai, senti e capisci. C’è poco altro da dire.

Il blog, ora.

Credo che in maniera quasi inevitabile questo blog abbia avuto un’ultima recente evoluzione. Spesso sono le dinamiche esterne ed il contesto che delineano nuovi scenari ed anche in questo caso specifico sta andando esattamente così. I mesi in Canada sono stati importanti ed un continuo spunto per scrivere, non sono mancati sfoghi, resoconti e racconti relativi all’esperienza, è ovvio però che con il tempo, soprattutto da quando sono tornato, il blog stia vivendo una fase meno brillante. In realtà, e qui mi collego all’incipit, mi rendo conto di come sia cambiato il mio approccio verso queste pagine e di fondo sono contento di questa svolta.

Quando il tuo lavoro è scrivere e sei pagato anche e soprattutto per quello, deve attenerti a regole, principi e sfumature da tenere bene a mente. Sei libero ma ovviamente hai un margine di manovra preciso, una cura del dettaglio sempre presente, un’attenzione al lettore diversa.

Tutto questo fa sì che il blog diventi ancor di più un cortile nel quale fare quello che si vuole. Sempre più questo spazio diventa la mia cameretta dove sono libero, o “abbastanza” libero di scrivere ciò che desidero, con toni, frasi e parole su cui non devo stare troppo a pensare.

E quindi capita anche che il taglio torni a essere personale, più profondo, meno comprensibile ad un esterno, tutto questo perché ho il piacere di scrivere per me, solo per me. E così il blog è tornato ad essere spesso il luogo in cui riordino i miei pensieri, il posto in cui metto tutto a posto e mi chiarisco, l’angolo in cui sono libero e posso sperimentare, dire, ripetermi e non dover pensare necessariamente a chi leggerà e a quanto sono stato politically correct.

Il blog è questo, o meglio, anche questo, ci sono periodi diversi, e quello attuale dà a questo spazio un valore specifico, più intimo e meno legato a vicende che non mi appartengono.

Può piacere o meno, di certo è il mio e in questo preciso segmento, va benissimo così.

Una risposta banale

Ma sì Catto, diciamo che ad una domanda retorica spesso segue una risposta banale. Mi spiego. Da giorni mi chiedo perché mi sto intristendo, immalinconendo gradualmente. Ci pensavo, qualche motivo pratico l’ho anche trovato sai, poi però mi sono detto semplicemente: “Sta succedendo perché sei un nostalgico”. Questo significa che quegli acquazzoni agostani che preannunciano seppur in lontananza la fine di qualcosa mi mettono addosso malinconia, così come l’inizio del campionato che mi lascia sempre un retrogusto strano, pensa te.

Poi non lo so, penso che fra due mesi ripartirò ancora e a volte mi dico che avrei voluto fare qualcosa in più in questa parentesi, in più l’incertezza sull’operazione, nel senso della data, mi sta dando un po’ fastidio come tutte le volte in cui non so esattamente quello che mi deve succedere.

Vedi Dà, la scorsa settimana è stata a livello umorale abbastanza strana, molto fastidiosa, un malumore che serpeggiava quasi incontrastato, talmente forte che su Via Monza, per andare a P.le Re di Roma, giovedì, mi veniva quasi da vomitare. Il giorno dopo, fortunatamente, e sottolineo fortunatamente, ho capito che stavo anche male con lo stomaco davvero, di mio, e questo fastidio l’ho accolto quasi bene, con sollievo, be sì mi ha alleggerito e raccontato che il giorno prima quella reazione non era solo uno stato emotivo.

E poi? Incubi ciclici, fastidi miei, che ne so, quel piacere strano e inspiegabile di immalinconirmi, mescolato a un po’ di fatica che certi giorni avverto senza troppi giri di parole, ma una cavalcata che dura da 8 mesi senza pause a un punto la puoi anche accusare.

È così Dà, che ti devo dire, settembre alle porte poi, per me è un nemico storico che detesto e che digerisco male puntualmente.

Lo scorso anno fa stavo rientrando da Belgrado, oggi sono qui, quante cose sono cambiate in un anno eh? Tranne me. Tranne certe cose che sono me.

Buonanotte Dà

 

“Abito sempre, qui da me…”

(Anche sta canzone sta contribuendo, però l’ascolto uguale, perché sono così…)

In collegamento da Tor Vergata

Involontariamente sto collezionando tutta una serie di immagini di questo mio soggiorno italiano. Istantanee che già so che mi accompagneranno fra qualche tempo, quando mi guarderò indietro e tornerò a rivisitare questi tre mesi.

Detto già di me che cammino sotto il sole agostano per via della Lungara con il panino all’ora di pranzo in preda a decine di pensieri, l’altro ieri il caso mi ha regalato quasi inevitabilmente un’altra fotografia.

Per una ricorrenza speciale ho deciso di registrare il programma da Tor Vergata, sotto la grande croce di legno simbolo della GMG del 2000. Sulla mia destra un casolare di cui non ricordo il nome, ricordo però che andai lì anni fa a prendere dei soldi che mi dovevano dopo aver lavorato all’Ufficio Eventi dell’università per loro.

È venuto anche mio padre, mi ha accompagnato e mi ha sollevato del doppio peso cavalletto-telecamera. Poco dopo le 19 il sole ha iniziato a scendere e filtrava dai rami di una pianta mentre io aspettavo che sparisse del tutto per avere una luce completa e compatta, senza bagliori.

In quello stesso punto ero 15 anni prima, in occasione di quella serata storica, due milioni di persone praticamente sotto casa mia per il Papa nell’anno del Giubileo, ieri ero ancora lì, stessa data, stesso accompagnatore ma scopo diverso: parlare e raccontare con tanto di riferimento a quell’episodio. Una serie di ricorrenze che si sono incrociate e rincorse in maniera incredibile, dinamiche che spesso sono già avvenute in vita mia.

Eppure, per me, ieri aveva un sapore diverso, speciale. Non per le coincidenze ma per il posto, essere lì, in quello spazio periferico di Roma, in quei prati in cui ho passato giorni e attimi indimenticabili, fra un panino e un abbraccio.

Mentre guadagnavo la via della macchina, con il sole ormai nascosto del tutto dietro le case, ho ripensato a mille cose, agli incroci, agli incastri, al tempo che è passato da certi momenti. L’insegna verde del PTV iniziava a risaltare sempre più e come mi capita ultimamente, ho ripensato ad una frase che mi accompagna da tempo “Questa strada, tutto questo, questa fatica, queste privazioni, questi sacrifici, devono portare da qualche parte, non posso pensare che non sia così”.

Cantando inspiegabilmente “Il campo delle lucciole” di Ligabue ho attraversato lo sterrato prima di arrivare ad uno dei parcheggi di Medicina, nelle narici a ogni passo sempre più forte entrava il profumo delle piante di liquirizia che circondano quel pezzo di Tor Vergata. Poche macchine erano rimaste, due signori rientravano dalla corsa, io cambiavo spalla alla borsa mentre guardavo dove mettevamo la mia 600 in quei momenti di pausa che ci prendevamo dalle lezioni e dal mondo intorno a noi, quando questo posto era la mia vera casa, forse l’unica.