Toronto Atto VII

Qualche ora e poi tornerò a Toronto. Non è certo la fine di ottobre 2015 quando con il Sinodo quasi all’epilogo ero pronto a imbarcarmi nuovamente senza biglietto di ritorno, ma al tempo stesso è pur sempre un qualcosa di importante.

Mi aspettano poco meno di tre settimane canadesi, e fra lavoro e motivi burocratici per sistemare un po’ di faccende, non ci sarà tantissimo tempo per svagarsi considerando le moltissime cose da fare e i tempi serrati.

Il tempo è peggio del solito, la neve sta andando oltre la metà di aprile, cosa piuttosto poco usuale anche a Toronto, arriverò con la neve lungo le strade, come tutte le volte a parte un paio di volte, ottobre 2015 appunto e maggio 2016.

Ci sono ovviamente sensazioni particolari in questo ritorno, molte più di quanto avrei immaginato. Tornare in un posto in cui hai passato due anni e mezzo ha sempre un sapore speciale, è un riappropriarsi di certi immagini che per lungo tempo sono state quotidianità, la normalità.

Fin dalla prima volta che rientrai a Dublino da Liverpool, dopo i primi mesi di Irlanda, rimasi sorpreso da quella sensazione di quando torni in un posto che non è il tuo ma ti senti a casa, perché quella, effettivamente è la tua casa, o almeno lo è diventata. Toronto è proprio questo.

Indubbiamente è il posto in cui ho vissuto più tempo escludendo Roma: la città degli ultimi anni con la quale ho avuto un rapporto altalenante, di profonda incomprensione reciproca, ma che col tempo si è evoluto e gradualmente migliorato, soprattutto negli ultimi 10 mesi.

Volo da Roma e Toronto per la settima volta, tornerò in un luogo che ha segnato veramente un prima e un dopo nella mia vita. Un posto in cui ritroverò facce amiche, colleghi, sguardi e profumi. Il Crocodile, la redazione, Dundas Square e forse anche un pizzico di malinconia, quella però che ti fa sorridere.

È tempo di andare, anzi, di tornare.

Gaudete et Exsultate

« Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi. »

«Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12). Inizia così la terza esortazione apostolica di Papa Francesco, presentata questa mattina nella Sala Stampa della Santa Sede, dove sono intervenuti Mons. Angelo De Donatis, Vicario Generale per la Diocesi di Roma; il giornalista Gianni Valente e Paola Bignardi di Azione Cattolica.

Il titolo del testo, “Gaudete et Exsultate”, è un invito a far risuonare nel mondo contemporaneo una vocazione universale, la chiamata a diventare santi. Nei 177 paragrafi del documento, suddiviso in 5 capitoli, il pontefice vuole sottolineare la possibilità della santità per ciascuno di noi, perché la storia della Chiesa racconta infatti di molti santi “della porta accanto”.

Nel primo capitolo, Papa Francesco si sofferma sulla chiamata alla santità e su quei santi che ci incoraggiano ed accompagnano al tempo stesso. Il Santo Padre, a tal proposito, afferma: “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante”.

Successivamente, il Santo Padre spiega quale sia il disegno per un credente con queste parole: “Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo”.

Andando avanti, nel secondo capitolo, Papa Bergoglio si concentra sui “sottili nemici della santità”: lo gnosticismo attuale ed pelagianesimo. Il primo suppone infatti «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti». Il secondo invece è la conseguenza contemporanea della dottrina di Pelagio, improntata a un moralismo ascetico-stoico. In base a questa teoria infatti, l’uomo con le sue forze può osservare i comandamenti di Dio e salvarsi; la grazia gli è data solo per facilitare l’azione. La conseguenza è la negazione del peccato originale e della necessità del battesimo e della penitenza.

Scorrendo le pagine del testo si arriva al terzo capitolo con il quale il pontefice riprende gli esempi di Gesù, colui che spiegò con grande semplicità il concetto di santità attraverso le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23).

“Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita”.

Nel penultimo capitolo, Papa Bergoglio, parla di alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale. Il pontefice menziona aspetti come la sopportazione, la pazienza e la mitezza. Tali caratteristiche vengono supportate anche dalla gioia e dal senso dell’umorismo, così come dall’audacia e dal fervore. Per il Santo Padre la strada della santità deve essere vista come un cammino vissuto “in comunità” e “in preghiera costante”, un percorso che arriva alla “contemplazione”, non intesa però come “un’evasione” dal mondo.

Il capitolo conclusivo serve al pontefice per ricordare un concetto fondamentale: “La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita”. Non manca l’attenzione al discernimento e ai giovani, spesso “esposti ad uno zapping costante” in mondi virtuali lontani dalla realtà. Un messaggio finale che risuona indubbiamente come un ulteriore richiamo al prossimo Sinodo di ottobre, nel quale proprio i giovani saranno i protagonisti.

Quello che pensano gli studenti

Vivo sempre un sorta di disagio quando mi ritrovo dall’altra parte, quando sono quello che deve parlare ma non davanti ad una telecamera, bensì di fronte a degli adolescenti. È successo oggi, ancora una volta, all’Istituto San Paolo di Torre Gaia, periferia sud-est di Roma, una scuola cattolica e gestita dalle Suore Angeliche di San Paolo.

Giornalismo, TV, ma anche Papa Francesco e tanti altri spunti che solo dei giovani studenti possono dare. Due ore di confronto fra spiegazioni e racconti, uno spazio breve ma sufficiente a fornire uno spaccato importante sulla realtà.

Dei 13 studenti presenti nessuno desidera diventare giornalista. Nessuno ha mai ponderato tale possibilità, anche in anni in cui si cambiano le idee piuttosto rapidamente, ma soprattutto, nessuno sfoglia un quotidiano.

Tre punti che evidenziano diversi elementi: il modo in cui le informazioni sono veicolate e raggiungono i più giovani (Internet ed app), l’assenza totale della carta stampata ed il ruolo sempre più marginale della tv. Quest’ultimo strumento, a detta dei ragazzi, è qualcosa di riconducibile ai genitori, fedeli spettatori del tg serale all’ora di cena.

Non mi ha sorpreso un ragazzo che ha parlato del mestiere del giornalista come di un qualcosa non più attraente anche perché “sottopagato”, dettaglio che evidentemente non aiuta a sviluppare un richiamo per i più giovani verso questo lavoro. Raccontare una tv e l’informazione religiosa è impresa ardua quando la platea è di questo tipo, ma se a volte la Chiesa, intesa come istituzione, non scalda, il Papa riaccende puntualmente l’interesse.

Ho parlato dell’emittente per cui lavoro, illustrando la nostra storia e l’ultimo magazine che si rivolge particolarmente ai giovani, ma la considerazione che ho fatto a fine lezione verteva su quanto la Chiesa sia pronta a questo Sinodo sui giovani.

Per quanto siano lodevoli e al tempo stesso necessarie le nuove vie scelte per arrivare ai ragazzi, come Twitter o Facebook, con tanto di pagine e profili dedicati, mi sono chiesto se questo possa alla fine effettivamente bastare.

Temo che non sia sufficiente adattarsi al linguaggio delle nuove generazioni e al modo in cui viene veicolato, la sensazione è che la Chiesa debba fare di più, andare oltre.

Prendendo spunto dal documento redatto alla fine della riunione Pre-Sinodo, credo sia opportuno soffermarsi sulla parte in cui testualmente i presenti hanno scritto che vorrebbero: “una Chiesa autentica, una comunità trasparente, onesta, invitante, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva”.

Una richiesta chiara e che facilmente si collega anche ad un altro passaggio, quello nel quale i ragazzi chiedono alla Chiesa di incontrare le persone dove socializzano: “bar, caffetterie, parchi, palestre, stadi, e qualsiasi altro centro di aggregazione culturale o sociale”. Ma anche in luoghi travagliati come “orfanotrofi, ospedali, periferie, zone di guerra, prigioni, comunità di recupero e quartieri a luci rosse”.

Il mio personale timore è che la Chiesa in realtà non capisca appieno quanto divario ci sia oggi fra l’istituzione stessa e le persone a cui si rivolge, i giovani. Perché il mondo attuale, soprattutto quello delle nuove generazioni, evolve ad una velocità impressionante, a differenza della Chiesa che per ovvie ragioni tende a mutare con particolare lentezza.

In un tempo in cui i ragazzi non vedono nemmeno più la TV, come detto e ribadito oggi durante il mio incontro, una istituzione che spesso si esprime ancora in latino, corre il serio rischio di vedere il divario con i teenagers allargarsi sempre più, con lo spettro che possa diventare ad un punto una distanza incolmabile.