Qua’a foto là


IMG-20160909-WA0013Massì, chissà che s’eravamo detti, chissà se io j’ho detto ‘na cosa a Arfredo o lui a mme, boh, vacce a ccapì, de sicuro c’era ‘na frescaccia de mezzo. Ah che bbello Catto! Che poi m’è presa ‘n po’ ammale perché ho ricevuto sta foto ner ber mentre che stavo ‘n mezzo a tutti francesi. Quanno attaccheno a parlà tra de loro, gnente, nun li fermi e a dilla tutta manco s’areggheno dopo ‘n po’. C’ho vaghi ricordi de qua’a sera e nun zo perché. Me ricordo quer majone, qua’a camiscia, ‘e scarpe. C’ho ancora ‘na foto der tappo de sughero da’a bottija su ‘na scarpa mia. E Lacoste. Que’e scarpe che me comprai ‘na domenica pommeriggio de fine ottobre der 2008 a Porte de Roma.

Quanno m’hai ricordato che c’avevi er mar de capoccia m’è tornato in mente sto dettajo. Embè, gennaio der 2010, me ricordo er compleanno de Saretta prima che partisse. Stavamo a Marino, Albano, me sbajo sempre, e mica so’ di’i Castelli io. Annammo là, io passai a pià Francesca, me so seduto vicino a Arfredo a tavola e se perdemmo una de’e partite più esartanti de qua’a annata magnifica. La sera da’a rimonta cor Siena e er gol de Samuel ar recupero che ecco che viè ggiù ‘o stadio.

Tu nun c’eri e er motivo era pure giusto, ‘nzomma te rodeva er culo. Lei stava a partì e tu no pe’ corpa da’a tesi.

Gennaio der 2010, beh è er mese der primo viaggio che’emo fatto inzieme all’estero. Atene, ‘a Grecia, tutto vecchio ‘n po’ come Roma. Ammazza che brividi, ma ‘n te ricordi?

Era n’artra cosa daje, de che stamo a parlà… Sai che c’è, è che serate come quelle, quelle de qua’a sera là dico, da’a foto, beh que’e serate me mancheno. Forse più mò de prima, che quarche anno fa intendo. Sarà perché sto qua, ‘n culo ar monno, ma ‘n poi capì che darei pe ‘na cosa così. Che poi significherebbe tornà ndietro, perché se a rifamo domani, ‘nzomma, ‘n zarebbe ‘a stessa cosa, però ‘na robba der genere, de sentitte parte de ‘n gruppo de persone che frequenti e vedi, con cui ce connividi ‘n percorzo e poi te ce vedi ‘a sera, sta cosa qua come fa a nun mancatte?

‘A vita va avanti, anzi, troppo c’è ita si vai a vedè e nun zolo pe’ l’anni che so’ passati, è solo che nun ce sta gnente da fà, ogni cosa c’ha er tempo suo e si funziona è perché in quer momento ce stavano evidentemente pure ‘na serie de fattori pe falla funzionà. Me segui in quello che te sto a ddì?

Vabbè va, è solo che è venerdì, speramo de nun ritrovamme ‘n mezzo a n’artra serata come quella de 7 giorni fa, sinnò so cazzi da cagà tanto pe’ capisse. Mentre ce penzavo prima e me lo stavo a augurà, m’è tornata in mente sta foto e sti du’ penzieri che ho messo ‘n fila dopo che er cellulare m’ha fatta vede.

16/09/2016

Il Maestro e l’apprendista

Dieci anni fa ero a Tor Vergata a fare i test d’ammissione all’università, a distanza di dieci anni mi sono ritrovato a Toronto ad intervistare per mezz’ora Gianni Minà.

Avevo in testa questo ricordo, un giro mentale che mi capita spesso quando mi appresto a vivere momenti importanti o suggestivi. È un po’ come se mi volessi ricordare il percorso, la fatica e i passaggi attraverso i quali sono arrivato a vivere quel momento, deve essere una roba del genere.

Anche per questa intervista con Gianni Minà è avvenuto lo stesso e ho pensato che 10 anni prima iniziavo un sentiero che indubbiamente ha contribuito a farmi ritrovare intorno ad un tavolo con davanti a me un maestro vero e proprio.

Mercoledì ho avuto questo enorme privilegio di intervistare un personaggio che indubbiamente rappresenta il giornalismo italiano, probabilmente il più grande anche perché il più trasversale. Nessuno come Minà ha saputo spaziare per tre decenni dallo sport, al cinema, passando dalla musica per finire alla politica. Questa sua grande capacità lo mette inevitabilmente su un livello diverso e lo rende a mio avviso ancor più unico. Le persone più vecchie di me hanno vissuto l’incontro in modo diverso perché sono stati contemporanei a Minà e quindi avevano esattamente l’idea del valore del personaggio, meno nell’immaginario collettivo invece dei miei coetanei.

Uno dei miei primi ricordi di Minà in tv è legato al 1991-92, l’unica edizione della Domenica Sportiva da lui condotta e che io guardavo con mia padre. Ritrovarsi davanti qualcuno che hai visto centinaia di volte in tv è qualcosa di molto strano ma estremamente stimolante.

È stato tutto molto bello, così come le emozioni vissute tanto prima, quanto durante la chiacchierata. Un’ora insieme in cui in maniera del tutto naturale mi ha dispensato una serie di aneddoti, frasi, suggerimenti involontari, sorrisi ed una investitura finale con dei complimenti che saranno impossibili da dimenticare, e senza dubbio sarà un ricordo professionale e personale che terrò dentro di me con immenso piacere.

L’intervista si è basata sull’ultimo documentario di Minà che parla della visita di Papa Francesco a Cuba lo scorso anno, sullo sfondo il disgelo dei rapporti fra Cuba e Usa dopo oltre 50 anni. Parte dell’intervista ha ruotato intorno a questo, ma consapevole della ghiotta occasione ho sfruttato lo spazio per parlare anche di altro: di giornalismo, Olimpiadi, ricordi di carriera e non solo.

La percezione che fosse una bella intervista l’ho avuta fin dall’inizio, ma riguardandola ieri nella prima fase di montaggio ne ho avuto la conferma, una sensazione che mi ha reso felice perché il miedo escénico di trovarsi davanti un maestro ovviamente l’ho avvertito. Puoi essere freddo quanto vuoi e bravo a gestire le emozioni, ma quando ti trovi davanti a un Signore del tuo mestiere senti qualcosa di diverso dentro che ti solletica.

Minà, nonostante la stanchezza, il jet-lag, le interviste fatte in precedenza nell’arco di giornata, è stato molto disponibile e cortese, e da bravo narratore non si è mai sottratto a nessuna domanda anche a telecamere spente.

È stato un mercoledì pomeriggio divertente e per certi aspetti emozionante, e dieci anni fa, mentre mi accingevo a fare quel secondo test di ammissione, non avrei mai immaginato tanto. Sperato e desiderato sì, immaginato proprio no.

CrzeYzmW8AAbJTS

 

Era tardi, il sole tramontava e lo 059 era fermo al capolinea davanti l’ospedale PTV. In sottofondo passò una macchina, una Yaris azzurrina, con “Me Voy” di Julieta Venegas, la mia canzone preferita di quella estate che stava per finire in archivio, una nuova vita stava per cominciare, c’era un nuovo percorso da vivere con i dubbi e le incertezze di una matricola. Eppure, dal 2 ottobre del 2006, nulla sarebbe più stato come prima, perché il primo luglio 2006, giorno del mio orale di maturità, segna uno spartiacque nella mia vita, perché c’è un prima e un dopo in funzione di quella data.

Fiuggi – Università

In alcune ore si è condensato un po’ tutto. L’incontro con il beniamino di Fiuggi dopo otto mesi a casa sua, nel senso più pratico essendo stati suoi ospiti in hotel, il ritorno a Roma insieme ed il ritiro delle pergamene, un atto che anche a livello simbolico chiude definitivamente qualunque nostro rapporto pratico con l’università.

In poche ore spazio per prime ed ultime volte, dal Siviglia a Tor Vergata, da un albergo a una “casa”, fra discorsi seri e ricordi, la calata degli unni francesi stamattina, i racconti del Catto sul Cammino, l’ironia e la leggerezza ma anche le grandi questioni. Fra filosofia e morale, anche se alla fine “Questi siamo”.

Corre il tempo, è già mercoledì, piove da un po’ e continuerà a farlo con più insistenza nei prossimi giorni, un assaggio di estate qui l’ho vissuta e poi per me fa sempre caldo in questa parte di mondo, caldo ma non solo. Roma per me ormai è un qualcosa di ben definito, lo dicevo oggi in autostrada, un giorno, speriamo di tornarci a volere bene del tutto.

IMG-20160511-WA0007

Meglio tardi che mai

Ci sono voluti oltre 9800 giorni, più di 27 anni, praticamente il tempo per un bambino di diventare uomo e per un adulto di andare quasi in pensione, eppure, dopo tutto questo tempo giustizia è stata fatta, o quanto meno il campo, finalmente, è stato sgombrato da ipotesi e falsità.

Il 15 aprile del 1989, allo stadio Hillsborough di Sheffield, la carneficina che si consumò non fu causata dai tifosi stessi ma da diversi errori della polizia nel gestire l’afflusso delle persone alla Leppings Lane, la curva designata ai supporters dei Reds.

Liverpool da martedì scorso è una città che si è tolta un peso, l’Inghilterra tutta un paese un po’ più giusto. Certo, gridare alla giustizia e celebrare è sempre fuori luogo perché nessuno potrà riportare indietro 96 persone ad altrettante famiglie. Niente e nessun verdetto potrà cambiare la storia, però, è indubbio che questa sentenza rimette le cose su un piano diverso. Anni di battaglie sono stati ripagate, quasi tre decenni in cui decine di famiglie hanno cercato in tutti i modi di raccontare quello che era effettivamente successo e ora, dopo la riapertura delle indagini nel 2012 voluta anche dal primo ministro Cameron, la verità è venuta a galla. Ovviamente, rimane ancora oggi inspiegabile come ci siano voluti tutti questi anni e come sia stato possibile e fattibile insabbiare la tragedia soprattutto nel primissimo dopo Hillsborough, resta il fatto che il fango gettato su Liverpool e sulla sua gente non si dimentica, ma da adesso nessuno può più dire qualcosa in quella direzione.

È stato un bel martedì quello scorso, una giornata che mi ha riportato indietro nel tempo, ai miei mesi finali di università, ad un pomeriggio di metà agosto del 2011 in cui mentre giocavo a basket da solo su un campo della parrocchia, mi ripetevo che sarebbe stata una grande tesi. Quel giorno infatti avevo iniziato a leggere “The Truth”, il libro di Phil Scraton, personaggio cardine nella ricostruzione di quello che avvenne a Sheffield.

Entrando sempre di più in quella vicenda che conoscevo bene, ma non così precisamente come al termine del mio lavoro, mi rendevo conto del dramma e delle angherie subite da queste famiglie, dello spaventoso e inspiegabile corso della giustizia.

Ancora oggi rimane la cosa di cui sono più fiero, nel senso del lavoro che mi ha dato più piacere e gusto nella mia vita, una tesi che è stata la mia in tutto e per tutto, dalla prima all’ultima pagina, per la passione messa e l’impegno profuso.

È indubbio che per me questa storia abbia un valore diverso, speciale. È il mio primo viaggio in solitaria nel 2008 a Liverpool, momento in cui entrai in contatto con questa storia, è la parte finale della mia magistrale, un contenitore di tanti bei momenti, indubbiamente gli attimi in cui sono stato più felice come persona in senso globale.

Ogni anno di conseguenza, il 15 aprile, giorno di quel disastro, tanti pensieri corrono ad Anfield e a tutto quello che ha rappresentato per me questa storia. Ricordo l’emozione nel maggio del 2013 quando da Dublino tornai a Liverpool per mettere sotto l’Hillsborough Memorial la mia tesi. Un gesto che chiuse un cerchio, una finale degno e meritato per quelle pagine scritte.

È stata toccante la scena delle famiglie abbracciate fuori dall’aula di giustizia a intonare “You will never walk alone”, assurdo in qualche modo, assurdo perché quella squadra in fondo, è stato il pretesto per la morte di alcuni dei loro cari. Ma forse, quel coro, che non è un inno qualunque, è stato anche il modo per sentirsi vicini come non mai a chi non c’è più, a chi quell’inno non ha più potuto cantarlo da 27 anni a questa parte.

Questo perché il Liverpool è una roba veramente diversa, e la sua gente è semplicemente encomiabile.