Il pentatleta

Ho sempre pensato che la metafora in grado di spiegare meglio la vita sia certamente lo sport. In quest’ultimo c’è davvero tutto: il successo e la sconfitta, la fatica, le beffe, l’importanza della fortuna e del caso, l’ostinazione, il valore di saper imparare dagli errori. In nessun ambito si può trovare una tale vicinanza di dinamiche e dei punti di contatto con la vita reale. Certo, non è esattamente questo il motivo per cui amo lo sport e la possibilità di praticarlo, ma rimane indubbio il fatto che sono sempre stato rapito da questo universo e da ciò che racchiude.

Lo sport è magnifico, è bello da fare, ma spesso guardare è altrettanto emozionante. Quando si assiste alle Olimpiadi è difficile pensare che ci possa essere qualcosa di più suggestivo o coinvolgente. Da appassionato di sport in generale, mi sono sempre divertito nel cimentarmi in qualcosa e tentare anche altre discipline al di là del calcio, gioco (?) sacro di questo paese.

Quando ero bambino alternavo il pallone alla ginnastica, quella artistica precisamente. Per anni sono andato tre volte a settimana in palestra, e mentre sognavo di diventare Jury Chechi, ho sviluppato una mobilità e una flessibilità che sfrutto ancora oggi. Il fatto di essere snodato e di mettermi tuttora un gamba dietro al collo da seduto è il risultato di quegli anni. Crescendo mi sono innamorato della pallacanestro, quella che puoi giocare raramente sui campi di cemento di periferia, magari nel retro di una parrocchia. Alle medie ho iniziato a giocare più a basket che a calcio e ancora adesso mi trasmette un gusto diverso, mi hai divertito per anni. Un paio di estati fa, nella calura di agosto, il pomeriggio andavo in chiesa e passavo ore a tirare a canestro da solo, una sensazione avvolgente. Pur non essendo un fenomeno non ero nemmeno l’ultimo, anzi, bravo nei recuperi e nel fare quelle cose “sporche” che nel basket sono poi fondamentali, ero una via di mezzo fra Ricky Pittis (per le doti appena elencate) e Marcelo Nicola essendo un valido tiratore da fuori. Per Flavio Tranquillo e Federico Buffa sarei stato uno di quelli con la mano tuttavia “educata”.

In mezzo a questi sport mi sono dilettato a giocare a tennis, a pallavolo a scuola, a beach-volley d’estate, a racchettoni, a ping pong, a biglie sulle spiaggia, freccette, calcio balilla (a 10 anni ero mostruoso), in bicicletta, fino a entrare nuovamente in palestra ma in una sala pesi. Sono passati più di dieci anni ormai e solo nel 2013, dopo nove anni fila, mi sono preso una pausa per andare in Irlanda. Ho ricominciato a marzo e ovviamente non ho mai saltato un giorno, tre volte a settimane abbinate alla corsa domenicale, altro appuntamento fisso dall’estate del 2006, quando senza volerlo mi infilai in un tunnel podistico sfociato poi in qualche corsa ufficiale, così, per non farmi mancare nulla.

A calcetto per anni ho dispensato classe senza mezzi termini, a “Tedesca” penso di essere stato tra i più grandi del secolo, semplicemente perché prendevo 9 volte su 10 la porta da ogni posizione e quindi era dura finire tra i pali e perdere. Antonio e David lo hanno potuto constatare recentemente al mare, dove oltretutto la superficie non è delle migliori. Penso di essermi cimentato in tante discipline, non amo troppo quelle di montagna, o quelle estreme, il golf mi piace ma solo se inteso come mini-golf, una delle attrazioni che amavo a Rimini di cui ero assiduo frequentatore.

Non sono mai stato un campione, ma di certo non sono mai stato l’ultimo ad essere stato scelto per una partita di qualsiasi cosa. Oggi ad esempio, dopo quattro anni esatti, ho impugnato nuovamente una racchetta per due scambi in allegria con mio zio e sono tornato a casa soddisfatto della discreta performance. Mi piace il sudore dello sport, le sue storie, la competizione, il divertimento che sa regalare, il profumo dello spogliatoio, le scarpe adatte, la maglia perfetta, lo spirito di sacrificio e il gusto di mettercela tutta, sempre e comunque. Lo sport è questa roba qua.

La vita dopo il Mondiale

Parto da un dato: ho visto 41 partite integrali (senza quindi perdere un minuto) delle 64 disputate in questo Mondiale, se consideriamo anche qualche spezzone e il problema delle gare a mezzanotte e di quelle in contemporanea alla terza giornata, posso dire di essere estremamente soddisfatto della mia performance, un record personale difficile da poter battere in futuro.

Finita l’avventura brasiliana è tempo di bilanci, per quanto mi riguarda è stata una coppa del mondo magnifica, bella e spettacolare. Tanti gol, poca noia, grandi partite, qualche sorpresa, volti nuovi e portieri fenomenali. Ho seguito tutto, ma veramente tutto, dalle partite agli approfondimenti, interviste, discussioni, Sky mi ha dato l’opportunità di avvitarmi al divano e di entrare in un tunnel calcistico che non ricordo prima. Ho pensato che il modo migliore per riempire il nulla fosse il Mondiale, oggi sono certo di aver fatto la scelta giusta. Tante partite sono riuscito a vederle grazie al magistrale e inarrivabile commento della Gialappa’s su Rtl, solo con loro in sottofondo sarei riuscito a vedere sfide tipo Iran – Nigeria 0-0. Come dicevo, Sky ha coperto l’avvenimento in maniera quasi esagerata con una maratona in diretta costante, il fatto di averci regalato le perle di cultura del Maestro Buffa è l’aspetto che a mio avviso ha arricchito ulteriormente questo Mondiale.

Termina tutto con i tedeschi campioni, l’epilogo più giusto. Ha vinto la squadra migliore, ha trionfato l’organizzazione, la programmazione e la pazienza. Il saper pianificare paga sempre, l’improvvisazione nel calcio non porta mai a grandi risultati. I tedeschi dal 2002 a oggi sono sempre arrivati in fondo se tralasciamo Euro 2004, in tutto ciò hanno portato a casa un oro (ieri), due medaglie d’argento (2002, 2008) e due bronzi (2006, 2010). Quando arrivi al rettilineo finale costantemente, prima o poi sei destinato a vincere, la ruota gira e la coppa la porti a casa.

Senza sbalzi d’esterofilia, credo che si debba copiare da chi ha fatto meglio, da chi ha saputo ottenere dei risultati con la costanza e la preparazione. Certo, capire una strada non significa essere in grado di percorrerla, però, ogni tanto, dovremmo lasciare da parte antipatie, luoghi comuni e rivalità per prendere quanto di meglio sanno proporre gli altri.

Vince la Germania ma perde l’Argentina e non Messi come molti vogliono raccontare. Il 10 dell’albiceleste vede sfumare l’occasione di trascinare i suoi al Mondiale e in eterno (molto probabilmente) sarà condannato a vivere il paragone con Maradona e a essere messo un gradino sotto non avendo vinto questa coppa. Mi dispiace personalmente per lui, ma ripeto quanto espresso in passato: i paragoni fra squadre e giocatori di epoche diverse non si possono fare, perché è anacronistico, sbagliato e inutile. Se manca il contesto non si può paragonare nulla. Fare parallelismi validi è veramente difficile e un motivo ci sarà. Messi è un giocatore fenomenale, il migliore della sua era. Stop. L’ossessione di Maradona è quasi scontata, ma per me rimane fuori luogo.

La macchia di questa rassegna rimarrà l’Italia, a casa subito, troppo presto, senza poterci gustare nemmeno il brivido della sfida diretta. A casa dopo un avvio promettente, nelle due partite seguenti sono venuti fuori tutti i nostri numerosi problemi e tutti sono i colpevoli. Con gli Azzurri eliminati la mia missione è stata tifare contro il Brasile per mille motivi e alla fine ho riavuto indietro idealmente parte di quelle lacrime versate in prima persona una notte di 20 anni fa a Pasadena. Il Brasile più mediocre di sempre ha perso giustamente, chiudendo senza nemmeno una medaglia al collo, avessero giocato in qualunque altro paese non si sarebbero affacciati nemmeno ai quarti.

Il Mondiale rimane l’avventura sportiva più grande che c’è, è stato bello poterlo vivere così, come non mai, una full-immersion fantastica, qualche partita raccontata (quasi sempre la Germania…) dopo l’esperienza di Euro 2012 e quel senso di spaesamento stamattina, dopo 31 giorni di gol, parole e pronostici.

Non sarà facile “riadattarsi” subito, soprattutto quando ti attende un campionato opaco, triste e tutt’altro che emozionante. Il Mondiale brasiliano è stato un spot per questo sport, una festa infinita e la gioia di correre dietro al pallone, perché come ha detto Adani giorni fa il bello del calcio è che appartiene a tutti. Sì, è vero, il calcio è di tutti e accomuna tutti.

Ci vediamo a Mosca.

Un messaggio e “Ubi sunt”…

Diciamo che da venerdì sera, momento in cui ho ricevuto un messaggio di risposta, mi è esploso un senso di fastidio dentro enorme. Un qualcosa che ha un sapore amaro e le forme del famoso rospo, quello che ti rimane in gola fisso e perenne, almeno per un po’. Sono quattro giorni che ragiono su un milione di discorsi, che riavvolgo nastri ideali, che ripercorro delle immagini e dei momenti, alternando cose positive e altre negative.

Questo messaggio (una parte, un concetto solo) mi ha infastidito nella sua essenza e nella sua idea futura, in prospettiva, ma anche attualmente. Mi ha messo di fronte ad una realtà che già a marzo mi aveva turbato ma che ora mi colpisce molto di più. Sto cercando spiegazioni valide, cerco di darmi delle risposte ma non trovo chiarimenti convincenti. Resta il fatto che vivo con uno sbattimento imprevisto, fastidioso e scomodo, uno stato d’animo infilzato da una notizia che mi perseguita.

Ieri, mentre guardavo il mare da una staccionata di legno di un bar e ripensavo a questo messaggio, lo sguardo si è fissato su quella spiaggia per anni teatro di giornate di divertimento e spensieratezza. Pulite e perfette. Ho riflettuto su quando andavamo lì, insieme, in 3, in 4, in 5, in coppia, quando giocavamo a beach-volley, quando intervallavamo un esame con un tuffo.

Ragionando su tutto questo, al fastidio, si è sommata un’ondata di tristezza e malinconia indicibile, e la domanda che mi sono posto quasi naturalmente è stata: ma tutto quello dove è finito? Quando si è perso quell’entusiasmo, in che momento è sparita quella magia? Ma perché ora sta qua e rimpiango tutto?. Un perfetto esempio di motivo letterario, quello dell’ “Ubi sunt” leopardiano.

Il mix di pensieri mi ha atterrito e mentre Daniele pagava il suo caffè alla cassa, con “Human” dei Killers che suonava in sottofondo, ovviamente non sono riuscito a trovare risposte valide se non tastare nuovamente e idealmente quel senso di vuoto. Una sensazione che si allarga e che è stata incendiata 5 giorni fa, al punto che pagherei per ritornare al 20 agosto scorso, una delle prima scintille dell’ultima fiammata degna di nota.

È così, un messaggio basta a cambiare umori e a pesare frasi e fatti, un messaggio appunto.

Ma ricordatevi questa parola, tornerà buona tra un po’…

Br-EaSxIYAAUROV

Ipse dixit: Alfredo

Stavolta non è come nel 2008, nel senso che quei mesi a Siviglia del nostro amico borghese ebbero un impatto diverso avendo un rapporto meno profondo e stretto, qui invece la storia è cambiata, sono trascorsi anni e la distanza e l’assenza pesano perché il legame è aumentato e allora, mentre è immerso nella faticosa avventura mondiale, concediamogli un meritato tributo con le sue frasi storiche che vengono tirate fuori ripetutamente, per non dire quotidianamente.

 

“Non se finisce mai…”: questa è un marchio di fabbrica, esclamata a fine giugno 2011 mentre con Fabi finivano di sistemare il grazioso appartamento al campus di Tor Vergata in vista di uno dei tanti traslochi. L’onere di essere uomo di mondo è anche questo: spostamenti, cambi, viaggi, pacchi e scatoloni. Lui con dei piatti in mano che si avvicina verso il divano guardando David con questa frase è una immagine storica.

 

“A Catto, ma che ne sai tu…”: siamo davanti ad un tormentone, forse l’ultimo vero tormentone. Frase rivolta al celebre velocipede fiuggino che ormai se la ripete da solo per quanto gli piace, il fatto che la usi come frase su WhatsApp certifica la passione di David per questa esclamazione, a dire il vero lui l’ha anche un po’ modificata e sviluppata con tanto di versione blasfema, rimane il fatto che non è una frase, ma una sentenza.

 

“Ma il Catto dorme con la vestaglia”: una delle mie preferite, preparando il Lettone, mentre armeggiava con un pupazzo ed un cappellino bianco del Real Madrid gli chiesi dove avrebbe dormito David e lui mi rispose spiegandomi il modo più che il posto. L’immagine del nostro amico sotto le coperte con la vestaglia per me è impareggiabile.

 

“Dai Catto, mi racconti un po’ di te, mi parli dei tuoi sogni, dei tuoi progetti”: altra frase cazzara, il bersaglio è sempre lui, evidentemente David lo ispira oltremodo. Siamo sulla piazza di Frascati, è fine luglio del 2010 e dopo una serata allegra passata in compagnia, mentre ci salutiamo, Alfredo abbraccia amichevolmente David e gli chiede di accompagnarlo alla macchina esortandolo a raccontargli qualcosa. Fantastica.

 

“Ma il Catto ha detto tutto ormai”: mano in tasca, l’altra (la destra) che volteggia a mezza altezza con le prima tre dita aperte, posizione stanca, postura discutibile e altra sentenza sul nostro amico, sempre in chiave ironica, certo, però l’obiettivo è lui. Su David non ci “crede” più tanto, lo reputa destinato al tramonto, questa frase lo certifica.

 

“Ma il Catto è pesante…”: questa fa il paio con la precedente, anche se cambia la posizione per dirla, mano sinistra in tasca, l’altra invece passata fra labbra e naso, inspirando, viene mostrato un falso e profondo scoramento, con un po’ di stanchezza, e poi giù ancora con l’ultimo giudizio che a volte si collega anche con un: “Sì, ma è trito ritrito”.

 

“Ma il Ciofi è un esaltato”: Napoli, gennaio scorso, ore 9 del mattino e io vengo bollato così perché non dormo mai e soprattutto perché “la volevo fare partire troppo presto” e di conseguenza vengo invitato a non insistere con un “Dai Mattè, dormiamo ancora un po’”.

 

“Ma la mela stanca”: altra frase celebre pronunciata ad ottobre del 2012. Cena a casa sua, dopo un pizza si comincia a parlare di succhi di frutta, dei gusti di ciascuno di noi e delle varie marche, ma lui, uomo di mondo, e dal palato fino, la chiude così prendendosela con il frutto più celebre nella sua versione green, per Alfredo la mela dopo un po’, come sapore, stanca.

 

“Catto sei terribile…”: Lettone, prime luci del mattino e mentre David si dimena inspiegabilmente, ecco un’altra storica frase, impareggiabile perché detta con il sonno addosso, la bocca impastata e soprattutto le braccia conserte. Un altro classico.

 

“Ma sta lì, con il braccio un po’ così…”: altro tormentone al quale deve essere aggiunto il gesto, quella specie di cigno fatto con il braccio con la dita raggruppate e il movimento del polso. Non è facile da spiegare ma chi sa ha capito. La frase indica chi non prende posizione o chi non si fomenta il giusto, chi tergiversa, cincischia e non si schiera. Ripresa da tutti, spesso vale solo il gesto senza le parole per quanto è ormai simbolica e identificativa.