Carissimi

Carissimi,

scusate se ultimamente vi ho scritto e chiamato poco, ma ho davvero un sacco di cose da fare e queste sei ore indietro di certo non aiutano.

Qui, nonostante tutto, nonostante la vita, intendo, va abbastanza bene. Abbastanza bene, sì. Certo. Si vivacchia, ci sono parecchie cose che vorrei raccontarvi ma non so se abbia molto senso, come ogni volta in fondo, come ogni volta in cui prima di dire un qualcosa mi fermo, mi interrogo e mi chiedo: “Ma a questa persona interesserà un minimo quello che sto dicendo?” Tendenzialmente credo sempre di no, ogni tanto però, malgrado questo, mi spingo in avanti e parlo.

Fra pochi giorni traslocherò ancora, fra alcune settimane invece partirò. Sembra ormai che non sappia fare altro, alla fine è tutto un gioco di borse e valigie da chiudere e riaprire, lo scopo e la distanza sono diventati irrilevanti.

Penso sempre a mio papà quando diceva che ero “comodino”, nel senso di persona a cui piace stare comoda, ovvio, non il mobile. Penso a questa frase e mi viene da sorridere, su quanto negli anni, soprattutto negli ultimi, non sia più minimamente vera. Alla fine è tutto un andirivieni, un partire, un tornare, un andare, così all’infinito e non parlo solo del tempo verbale che ho usato per queste azioni.

A volte penso che sia tutto sbagliato, profondamente errato. Che sarebbe bene e forse anche bello ripartire da zero, ricominciare del tutto ma da non so quale punto. Altre volte invece credo che non mi manchi nulla, ma questa seconda opzione inizia ad essere sempre più rara, un pensiero sempre meno frequente. Avviene ancora, e finché capita non mi lamento e penso che vada bene così.

Alicia oggi mi ha suggerito di essere il Mastroianni che idealizzano le donne nordamericane, mi ha fatto sorridere che io, ovviamente, ho pensato al Mastroianni di 8 e mezzo. A quello che ho capito meno, sia come personaggio che come film, anche perché ricordo lo stato con cui ci presentammo a lezione per vedere quella pellicola, in quel pomeriggio torrido di inizio maggio di sette anni fa.

Forse avrei bisogno di una giornata così. Di quelle spumeggianti, che partono alla grande e poi non sai mai dove ti portano, ma che rimangono conficcate nella memoria.

Anche questo ruolo da soldato solitario forse ha un po’ stancato. Questo essere da solo che per anni ho visto come una forza e un pregio (e lo è ancora, senza dubbio) ma che in fondo però mi ha inaridito. Mi ha reso talmente vuoto dentro che potrei andare lasciar via chiunque facendomi forte del “Posso fare a meno di tutti”, un concetto applicabile a livello universale. È molto vero, se non fosse è che alla lunga diventa un limite, un’arma a doppio taglio, perché non ti dà più l’esatto valore delle cose e l’importanza che attribuisci a certa gente. Diventa particolarmente autoreferenziale.

Tuttavia, non so cosa aspettarmi, anzi sì, e forse per questa ragione mi annoio sempre. Sono tornato da un mese e sembra almeno il triplo, non so dove sto raccogliendo queste energie, probabilmente ormai vado avanti per inerzia. Ma questo 2015 a mio avviso è durato fin troppo e potrebbe anche togliersi di mezzo.

Oggi mentre camminavo durante l’ora di pranzo mi è passato davanti un cane che se ne andava sereno al trotto, non so perché ma mi è venuto da dirgli a voce alta: “A grande!”.

Mi è scappato un sorriso.

Ora vi lascio, è sempre bello sapere che ancora mi pensate in qualche modo.

 

Con affetto,

Matteo

Qui

E meno male che avevo detto: “Adesso sorprendo tutti e me ne vado a letto presto”. Poi ho letto una cosa e mi è venuto in mente di scriverne un’altra. E così, addio sonno.

Sì, perché su un fatto sono d’accordo con me stesso, ossia stare qui mi aiuta. Cioè, non è tanto un discorso di essere impegnati, a Roma lo ero molto di più, è proprio il fatto di essere così lontano, di vivere generalmente un profondo senso di distacco, di sconnessione da tutto e tutti.

La lontananza appunto. Poi però capitano giornate come oggi che mi guardo intorno, mi fermo un attimo e mentre premo la barra per iniziare un altro paragrafo di un articolo mi domando: “Chissà che stara facendo, chissà dove cazzo starà. Mah”. E lo faccio poco dopo che “La mia compagna di banco” si è appena spostata delicatamente i capelli mostrando uno dettaglio di collo. Che poesia.

Non penso che mi verrà da vomitare mai fra Church Street e Queen Street come invece stava succedendo ad agosto all’angolo di Via Monza, però a volte mi blocco proprio e mi perdo nel bel mezzo di un articolo sull’Uganda.

Stare qui mi protegge. Un bene inestimabile, un aspetto positivo in una giungla di complicazioni e privazioni e a volte penso che sia meglio così. A Roma tutto questo non succede e sto meno bene. Chissà, arriverà anche un giorno in cui mi risintonizzerò sulle frequenze buone con la mia città, alcuni dei suoi angoli, alcuni dei miei posti, con un esercito di ricordi. Non lo so, forse sì, magari no.

Fra una settimana però sarà tutta una nuova storia. Probabilmente l’ultimo capitolo di un libro chiamato 2015 impossibile da poter aggettivare ma che spesso mi trascina ancora in altri mondi.

Sarà stata colpa di Forever Young partita a tradimento ieri dal computer.

Non mi piace mai, ma per certe cose preferisco dare colpe a casaccio. Meglio, conviene.

In nome dell’Odio, non di Dio

I ragazzi europei escano per strada e vadano ad ascoltare musica e a ballare, stasera, nelle nostre belle città autunnali. È il modo migliore di rendere omaggio a chi venerdì sera è entrato al Bataclan, e non è più uscito”.

Mi sento di condividere appieno queste frasi finali con cui Beppe Severgnini ha chiuso il suo articolo sul sito del Corriere venerdì. Sì, perché dopo un dramma del genere, il primo pensiero vola subito a quel che sarà, a come saremo e a come vivremo dal giorno successivo.

Qui, in questi pensieri, si annida la paura e il terrore, la sensazione che nulla sarà come prima o forse sì perché penseremo anche agli altri attacchi e ci ricorderemo che in fondo siamo andati avanti e le nostre vite hanno ripreso a correre e il tempo ci ha lentamente alleggeriti, come capita spesso. Quasi sempre.

Attaccare così una nazione, un popolo, una cultura, significa volere dimostrare di essere forti al punto tale da poter minare tutto questo. L’obiettivo rimane quello, diffondere il terrore, colpire nelle abitudini e spaventare, trasmettere la sensazione che tutto dipenda da altri, da persone (è dura definirle così, ma facciamolo) che hanno in mano il nostro destino e il filo che ci lega alla vita.

Questo è quello che vogliono. Questo è quello che dobbiamo evitare difendendo la nostra libertà ed è la prima e forse unica reazione che possiamo permetterci. Fra un po’ di tempo capiremo se a questa violenza ci sarà una risposta violenta in diverso modo: attacchi, raid e bombe, intanto noi possiamo reagire combattendo la paura che qualcuno che uccide in nome dell’Odio, e non certamente di Dio, aspira a farci vivere.

Papa Francesco nell’Angelus di ieri ha voluto riaffermare con vigore che la strada della violenza e dell’odio non risolve i problemi dell’umanità e che utilizzare il nome di Dio per giustificare tutto ciò è una bestemmia.

Anche l’Arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, nella Messa in Duomo ha parlato dell’attacco terroristico e ha dichiarato che “Non dobbiamo rispondere a questo oltraggioso e vile atto con l’odio, non dobbiamo rispondere con la paura, anche se la paura è comprensibile, perché come cristiani siamo figli di Qualcuno che costantemente ci ha detto di non avere paura”.

Nel frattempo rimangono 129 persone uccise e tante altre ferite che lottano per sopravvivere, con il bilancio delle vittime che cresce lentamente generando una straziante agonia. Uno scenario terribile, come l’idea di giovani che ammazzano altri giovani, un qualcosa che inevitabilmente va oltre il discorso religioso ma che si intreccia con una giustizia sociale che latita in maniera palese.

Questo è comunque il risultato della follia di venerdì sera e mentre leggevo alcuni racconti e diverse testimonianze ho ripensato a quel filo rosso di dramma e strage che si ricollega alla storia del mio paese.

Quell’Italia ferita e colpita in maniera vigliacca per 40 anni, nella lunga e buia fase della strategia della tensione. Non c’erano nemici religiosi e nemmeno motivi geografici o culturali, c’era in primis la volontà di colpire il popolo e di tenerlo sotto scacco. Colpirlo nella sua vita pubblica, e come è successo a Parigi, in cui i luoghi del terrore sono stati un ristorante, un teatro e lo stadio, da noi si attaccava a tradimento nelle piazze, nelle banche, sui treni e alla stazione.

Quei posti in cui la gente si raduna, in cui vive la propria quotidianità, quei luoghi di cui nessuno di noi potrebbe fare a meno. Da noi si combatteva una guerra di potere, una specie di lotta civile in cui lo Stato aveva un ruolo chiaro ed evidente, in cui non c’erano mai responsabili ma solo vittime, di certo lo scopo era lo stesso, con le debite proporzioni e la giusta dimensione: attaccare il popolo, limitare la vita pubblica delle persone spaventandole senza pietà.

Questo è successo a Parigi, e sarà dura andare avanti facendo quasi finta di nulla, eppure, oltre al silenzio e alle preghiere, al rispetto e al ricordo, come ha scritto Severgnini sul Corriere, provare a continuare a vivere la nostra vita senza scivolare nella psicosi del terrore è il modo più autentico per omaggiare chi non potrà più farlo, gridando a chi vuole prendersi la nostra libertà che questo non potrà accadere.

17 novembre 2015: la storia continua

Gennaio. Ho 6 anni.

Esco prima io, poi mia nonna chiude la porta di casa. Fa freddo, mi copro per bene, il rischio di ammalarmi in questo periodo per me è troppo elevato per non prestare attenzione a ogni minimo dettaglio. Nonostante questo, lei sostiene che imbacuccarmi tutto, o vestirmi come un palombaro non abbia senso, anzi è forse più rischioso. Forse ha ragione lei. Intanto mi tiene per mano, cammino sui sassi del cortile e andiamo verso scuola. Giriamo subito a destra, e poi tutta una salita fino all’ingresso. L’edificio è l’ultimo giù in fondo, per arrivarci dobbiamo passare in mezzo al campo da basket e poi costeggiare quello da calcio, è grande, di terra e ci si gioca in undici. Per me è come uno stadio. Ho la riga da una parte malgrado i capelli non stiano in quel verso ma a casa si ostinano a metterceli. A loro va bene così, a me cambia poco. Si entra a scuola, la prima elementare è sempre un anno speciale e io ho il grembiule blu con il colletto bianco più bello di tutti.

Febbraio. Ho 9 anni.

Chiudo la porta di casa per recarmi in palestra. Dopo un anno di pausa ho ricominciato ad andarci, vado alla Junior 88, i giorni dispari alle 16 sono lì, il giovedì facciamo tempo pieno a scuola e alle 17 ho catechismo. Il martedì invece mi riposo e guardo i ragazzi della 3C in replica su Italia Uno intorno le 18. La raccolta delle figurine va bene, a giugno ci saranno anche gli Europei, quelli del 1992 non li ricordo troppo, mente i mondiali americani di due anni fa li ho stampati drammaticamente nella mia anima. Andremo al mare ancora a Torvajanica, per il settimo anno di fila questa estate, per la prima volta sarà solo per due settimane, le ultime due giugno.

D’altra parte, la terza elementare è importante e non si possono più saltare gli ultimi giorni di scuola.

Marzo. Ho 13 anni.

Chiudo la porta di casa per uscire con i miei compagni di scuola, vedrò Andrea, l’appuntamento è al solito posto alla solita ora. Fra poche settimane andremo in gita all’Isola d’Elba, la prima gita fuori di casa, due notti tutti insieme. Chissà cosa succederà. A me piace Veronica che però è fidanzata con Emiliano. Ovviamente sarei molto meglio io, ma questo lo confido a pochi pur essendone particolarmente convinto. È stato da poco il mio compleanno. Tutto sembra andare per il verso giusto. Gioco a calcio, indosso il mio numero 6, l’unico guaio è che Vieri continua a stirarsi alla coscia.

Aprile. Ho 15 anni.

Chiudo la porta di casa per andare a scuola. Il liceo non mi piace, il primo anno è quasi finito ma dopo diversi mesi continua a non piacermi nulla. Sono un corpo estraneo a tutto questo nuovo mondo onestamente per niente esaltante. Spero finisca presto, il secondo anno sarà meglio. Almeno spero. Poche volte in vita mia, forse mai, mi sono sentito così alienato in un luogo in cui vado oltretutto ogni giorno. Mi fa tutto abbastanza cagare, ma non vedo alternative per migliorare questa sensazione, questo fastidio che mi abita dentro.

Forse vinciamo lo scudetto. Almeno quello. L’ultima giornata giochiamo a Roma con la Lazio, vincerlo a casa mia sarebbe magnifico. La data è il 5 maggio.

Maggio. Ho 19 anni.

Chiudo la porta di casa mentre rientro da scuola. Manca poco, il momento della maturità è quasi arrivato ma l’appuntamento mi tocca molto poco. Sono sereno, almeno per questo discorso. Il mondiale ed Elena della 3°A mi coinvolgono di più. Il resto sono chiacchiere. Porto la macchina, vado in giro, mi sento molto più padrone di quanto dovrei. Sento che si sta per chiudere una fase della mia vita, un periodo tutt’altro che entusiasmante, una nuova parentesi mi attende e sto per cambiare vita veramente. Dopo tanti anni.

Giugno. Ho 21 anni.

Chiudo la porta per andare a Tor Vergata. Non devo fare nulla ma dopo che Fermata verbalizzerà il suo esame andremo con il suo ragazzo e la coinquilina all’Hydromania. Lui mi sta sui coglioni, lei mi piace e malgrado questo impedimento mi sono infilato in un tunnel che non so dove mi porterà. Forse da nessuna parte. Sicuramente da nessuna parte.  Il secondo anno d’università è quasi finito. Il prossimo anno accademico dovrà essere quello della svolta. Inevitabilmente.

Luglio. Ho 23 anni.

Chiudo la porta di casa e salgo in macchina. Sto andando alla festa di laurea della Bionda. Sono campione di tutto da alcune settimane e l’effetto ancora non mi è passato. È un anno diverso, speciale. L’ho capito, l’ho sentito passo dopo passo nell’aria e in fondo lo percepisci quando il corso degli eventi ti sta spingendo, quando il vento soffia dalla tua parte. La Bionda mi terrà il gioco, Antonio anche, nonostante questo mi catechizza da bravo (e vero) amico e mi dice appena arrivato: “Regà ma che cazzo state a ffa?”. Quello che ci sentiamo, penso.

Dormiremo insieme stanotte, tutto il resto non conta. Lo penso anche quando ci chiudiamo la porta alle spalle e le due sono da poco passate.

Agosto. Ho 24 anni.

Chiudo la porta di un ufficio di un palazzone a vetri su Viale Regina Margherita. Sono andato a ritirare il visto per la Cina. Fra un mese sarò dall’altra parte del mondo e riabbraccerò Gabriele dopo sei mesi. Mi chiamano dall’ufficio eventi mentre cerco di guadagnare uno spazio umano sull’autobus. A breve ricomincerò a studiare, lo farò dopo Ferragosto, all’indomani dell’abbuffata che ci attende nel centro di Spoleto. Studio per l’ultimo esame, ossia Storia della Gran Bretagna, ma il testo mi servirà anche per la tesi, il carro da parata per la passerella finale a Tor Vergata è pronto. L’estate è stata piuttosto e inaspettatamente turbolenta, ma le cose si stanno ricomponendo. Fortunatamente.

Settembre. Ho 25 anni.

Chiudo la porta di casa mentre mio papà chiama l’ascensore. Siamo tornati da Parigi da poco ma stiamo ripartendo per Budapest. Poi ci sarà da trovare qualcosa. Lo stage è finito ad agosto, ma sono stranamente fiducioso e ottimista. Di certo ho avuto la conferma di quello che voglio fare nella vita come mestiere e per quello mi adopererò. Sembra tutto andare nel verso giusto. Sembra. Sì perché quando varcheremo la soglia di casa 4 giorni dopo e ci chiuderemo la porta alle spalle di nuovo, sarà l’inizio della fine, o comunque inizierà tutta un’altra storia. Peggiore.

Ottobre. Ho 26 anni.

Chiudo il portone di legno della redazione e mi incammino verso Appian Way, da lì poi prenderò la LUAS per Ranelagh e scenderò a Dundrum. Vado da Giorgia a cena. Sto facendo questo stage, è una bella cosa certo, ma ho la sensazione che troppe situazione grandi tutte insieme non sia ancora pronto a gestirle in maniera adatta. Lo penso perché ne ho avuto già la riprova. Ormai però sono a Dublino, ancora una volta dopo alcuni mesi e tanto è cambiato dall’ultima volta che avevo lasciato Ballymoss Road. È dura, molto dura, ma arriverò fino in fondo. Me lo dico prima che l’altoparlante della LUAS mi avverte che è ora di scendere.

Novembre. Ho 28 anni.

Mi chiudo la porta di un’altra redazione alle spalle, ma questa sta a Toronto e non in Irlanda. Ho registrato e montato il programma per oggi. È 17 novembre e questo blog festeggia i suoi 8 anni. Ha raccontato molte delle storie citate sopra, tutto il possibile nei limiti della decenza e della privacy di questo scorcio di vita, dal 2007 a oggi. Forse viene dall’anno più ricco dal punto di vista dei fatti e dei temi, forse, penso, ha smarrito qualche vibrazione ma rimane sempre vivo, irrinunciabile e libero, banca dati infinita e scrigno di ricordi.

17 novembre 2015, la storia continua… 

Liberamente ispirato ad un post di Alberto Sorge