Raccontare la morte

Ci pensavo ieri sera, mentre tornavo festante da Piazza del Popolo dopo la vittoriosa partita dell’Italia. Pensavo alla giornata, a quanto fosse stata strana e per certi versi altalenante. Riflettevo sul fatto che 8 ore prima ero a Via Tuscolana, in collegamento telefonico con la trasmissione in diretta, per raccontare lo scoppio di una bomba a mano che aveva ucciso un operaio romeno di 26 anni. Alle 17 ero lì, in mezzo a tanti fotografi e operatori, molti curiosi e diversi giornalisti, qualche ora dopo ero immerso nei festeggiamenti con i due gol di Balotelli ancora negli occhi e l’emozione di un’altra finale raggiunta. È stata una giornata ambigua, insolita, un giovedì in cui sono stato catapultato nella cronaca nera e in cui ho fatto per la prima volta un collegamento in diretta per raccontare ciò che era avvenuto. In realtà, il pomeriggio doveva essere ben diverso: eravamo infatti nei pressi del Laghetto dell’Eur per girare delle immagini, alle 15.20 siamo stati informati (io e l’operatore) che a Via Tuscolana era scoppiata una bomba e c’era stato un morto. Siamo tornati immediatamente in redazione, abbiamo ricevuto le varie consegne, qualche direttiva e ci siamo diretti sul posto. Ho ricostruito il fatto, ho provato ad avere conferme su una fuga di notizie, ed alla fine, ho intervistato un dirigente del Decimo Tuscolano. All’interno di un appartamento in ristrutturazione, un operaio aveva spostato una sacca che conteneva materiale bellico, in particolare pistole e bombe a mano, appartenenti al proprietario dell’abitazione, un ex ufficiale dell’Esercito. La vittima in maniera del tutto inconsapevole aveva mosso questo zaino causando l’esplosione dell’ordigno, gli altri due operai invece si sono salvati essendo in un’altra stanza.

È stato un pomeriggio cupo, raccontare la morte di qualcuno non è mai cosa facile, anche se la responsabilità del primo collegamento in diretta mi ha fatto dimenticare tutto.

Ero concentrato sul mio lavoro, su ciò che avrei dovuto dire, sul verificare alcuni dettagli. Essere catapultati all’improvviso in certi situazioni ti fa perdere la percezione del fatto vero e proprio, ieri a me è successo questo. Me ne sono reso conto successivamente, mentre tornavo a casa con la maglia della Nazionale di Materazzi: è strano parlare di una persona morta in circostanze assurde e poi ritrovarsi in mezzo a migliaia di persone a festeggiare.

A volte, capita anche questo.

Euro Italia

Ad un certo punto, un po’ tutti, abbiamo avuto paura della beffa, sul rigore di Montolivo i timori si stavano materializzando in delusione vera, ma poi, la storia ha preso un’altra direzione: siamo in semifinale, e giovedì sera a Varsavia, affronteremo la Germania, la grande favorita nella classica per antonomasia. Lentamente sta iniziando a crescere l’entusiasmo intorno a questa squadra, lo scetticismo sta mutando in convinzione, la freddezza in supporto totale. Gli Europei mi sono sempre piaciuti, per alcuni aspetti più dei Mondiali perché a livello tecnico e qualitativo sono di gran lunga superiori alla Coppa del Mondo. Il top del calcio è in Europa, tralasciando Brasile e Argentina la rassegna continentale annovera le nazionali migliori. Poche squadre, un turno in meno rispetto ai Mondiali, ma il livello è altissimo. Non ci sono le pittoresche e sgangherate formazioni africane, i simpatici asiatici o i talentuosi ed esagitati sudamericani, si gioca tra di noi, tra gente simile e le sfide che si vedono nella fase ad eliminazione diretta sono duelli storici, battaglie ricche di significato. Germania-Italia giovedì sarà l’ennesimo faccia a faccia tra noi e i tedeschi, una gara che è più di un “derby” per troppe ragioni. È dal 1968 che gli Azzurri non conquistano la Coppa Henry Delaunay, un trofeo che non ci porta troppo bene e che nelle ultime edizioni ci ha visti spesso protagonisti sfortunati. L’amarezza di Euro2000 è nella memoria di tutti, così come l’impresa in semifinale contro l’Olanda, un successo leggendario che non ha nulla a che vedere con ieri sera.

Nel 2004 tornammo a casa con 5 punti e con il biscottone scandinavo, un timore che si è ripresentato lunedì scorso contro l’Irlanda. Quattro anni fa siamo usciti meritatamente ai rigori con la Spagna, ieri invece la lotteria dei penalty ci ha regalato una gioia, meritavamo di vincere nei 90 minuti, abbiamo dovuto giocarne altri 30 più i rigori, ma alla fine siamo passati, lasciando all’Inghilterra l’ennesima eliminazione dagli undici metri.

Mazzocchi a fine partita ha detto che l’Italia va in semifinale ogni sei anni, io aggiungerei che andiamo anche in finale ogni sei anni: a partire da Usa ‘94, gli almanacchi dicono questo.

Vorrei tanto poter vivere questa gioia, quella che mi rimase strozzata in gola dodici anni fa nella notte di Rotterdam su un tiro di Trezeguet. Alla mia personalissima bacheca manca solo questa coppa: ho vinto quasi tutto tranne l’Europeo e sogno di chiudere questo cerchio.

Sei anni fa l’emozione più grande a Berlino, oggi siamo a 90 minuti dal raggiungere una finale insperata e per questo ancora più bella. Tra noi e l’atto conclusivo di Kiev ci sono i tedeschi, proprio come in quel Mondiale.

A volte la storia si riscrive, altre si ripete.

Forza Azzurri, crediamoci.

 

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Libertà

Ci vuole molto poco per percepire il senso reale della libertà, quella sensazione rara e forse unica al mondo. Ieri pomeriggio, in maniera del tutto casuale, ho vissuto attimi di entusiasmo intenso, di piacere e soprattutto di libertà. Ero da poco uscito dalla redazione quando imboccavo la Colombo, superato il semaforo di via dell’Oceano Atlantico ho cominciato ad intravedere un traffico esagerato, diverso da quello solito, molto più intenso dell’intasamento classico delle 19. Prima di imboccare la rampa del Raccordo, sono rimasto quasi 10 minuti fermo, incolonnato, con quell’incipit di incazzatura che già avvertivo. Con la coda dell’occhio ho visto quanto fosse tutto bloccato sul GRA e allora ho deciso con un impeto di fomento e di menefreghismo di mettere la freccia a sinistra, uscire dal marasma totale ed involarmi sulla Pontina, verso il mare, verso un brivido. Dopo aver fatto una serie di gestacci rivolti a coloro che erano nel traffico, con tanto di braccetto fuori dal finestrino e con la musica in sottofondo mi sono precipitato verso la spiaggia. Venti di minuti ed ero a Torvajanica, con quell’animo leggero che ti fa cantare da solo in macchina cori contro la Juve e canzoni insensate e riadattata all’istante. Mentre ripensavo al traffico scampato, godevo nell’essere così libero di fregarmene di tutto, di non essere stato incastrato dall’ora di punta, dall’afa e dal “frena e parti” del Raccordo. Bello, bellissimo, deridevo gli autisti che imprecavano con l’aria condizionata a palla in macchina e io ero già a Campo Ascolano. Ho lasciato la macchina a Via Caracas, sono andato da Celori a prendermi qualcosa da mangiare e poi mi sono allungato in spiaggia. Erano le 7.30, molti stavano abbandonando il litorale ed il sole, pur volgendo al tramonto, riscaldava ancora. Con i jeans tirati su e seduto sulla pettorina dei Moschettieri utilizzata come mini asciugamano, mi sono sorseggiato il mio thè, in una scena felliniana. Lontano dallo stress cittadino, dal caos del rientro, stavo lì, in pole position. Guido Nicheli lo avrebbe detto sicuro in un momento del genere: sole, mare è sei in pole position. Alle 8.15 sono tornato in macchina, mi sono ricomposto e 40 minuti più tardi ero a casa. Ho fatto la scelta giusta, ho fatto bene ad andare al mare. Mi sono sentito la persona più libera del mondo.

 

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Estate

L’estate ancora non è iniziata, almeno, non lo è calendario alla mano, ed io sono arrivato alla conclusione che questa stagione non mi piace più, di certo non la preferisco più. Questa evoluzione è dettata fondamentalmente da una cosa, dal fatto che sto crescendo, dagli impegni, dalle situazioni. Per anni giugno ha rappresentato il traguardo, il sogno, il mese atteso per 300 giorni. Quando andavo a scuola l’estate era l’oasi della felicità, i tre mesi più belli dell’anno. Dormivo di più, niente compiti, giocavo tutto il giorno sotto casa di mia nonna: il meglio del meglio. Per sette anni di fila giugno era sinonimo di mare, di Torvajanica, un mese di fila a Via Rumenia dato che prendevamo in affitto un appartamento. A luglio invece era fisso l’appuntamento con il villaggio vacanze, con i miei andavo sempre in qualche mega albergone del sud dove c’era tutto e dove la mia missione era scappare dai fottutissimi animatori del Baby Club che volevano portarmi via dai miei e dalla Gazzetta dello Sport sotto l’ombrellone. Ad Agosto invece, solitamente, si andava in Umbria, una decina di giorni a cavallo di Ferragosto dai parenti di mio padre, in collina, in mezzo al verde. Per anni, le mie estati da scolaro sono state queste ed avevano un fascino enorme. All’università ho iniziato a cambiare un po’ la visione delle cose: giugno e metà luglio sono diventati mesi di studio, continuo e quotidiano per gli esami. Pur non vivendo male lo stress da esami, mezza estate volava via e tu nemmeno te ne rendevi conto. Arrivavi al 20 luglio così, all’improvviso. Negli ultimi anni sono rimasto anche a Roma alcune volte e devo ammettere che un’estate mutilata e per di più a casa non sia proprio il massimo. Questo 2012 invece mi regalerà lavoro fino agli inizi di agosto, al mare ci andrò molto probabilmente in quel periodo, prima sarà dura considerando che non ingaggerò nessun duello sovraumano per ottenere otto centimetri quadrati sulla spiaggia di domenica. Crescendo l’estate ha perso quell’aria magica, non è più il periodo di giochi, divertimenti, mare e spensieratezza. Gradualmente, in questi anni, ho cambiato il mio giudizio su questa stagione: finisce il campionato, si studia e si lavora, pochissimo mare, l’unica cosa positiva dell’estate è il fatto che sia un periodo comodo, ossia un periodo in cui la temperatura ti permette di uscire dalla palestra con i capelli bagnati, ti vesti in 2 minuti, niente cappotto, niente ombrelli dietro. È tutto più comodo, stop. Non so perché ma pensavo a tutto ciò venerdì sera, mentre ero davanti al citofono. In quel momento, mentre ero sudato come se avessi corso una maratona, mi sarebbe piaciuto ritrovarmi a fine novembre con il piumino nel freddo, eccitato dal rientrare a casa e sentire un po’ di tiepido.

 

In the summer time when the weather is high

You can chase right up and touch the sky

When the weather’s right…